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Autore: Miryel    26/12/2019    37 recensioni
Peter ha la testa inclinata dall'altra parte. Guarda il panorama fuori dal finestrino, ma Tony ci giura che non lo stia guardando davvero. Ha le mani infilate tra le cosce strette, a disagio. Evita il contatto visivo e quello dell'anima. Quel contatto che, inesorabilmente, si crea tra di loro ogni volta che c'è un incontro tra le loro pupille. Per questo Peter lo evita. Perché è arrabbiato con lui, ma non vuole cedere. Perché ogni volta che discutono, finiscono per insabbiare le questioni, e si perdono a chiedersi perdono con gli occhi, mai con le parole. Un insicuro e un orgoglioso. Ma c'è un altro tempo per i silenzi, e non è questo. Peter ha paura e quell'incognita lo sta uccidendo, ma quel che più lo dilania è sapere che Tony, a differenza sua, sa già, ma non gli dice niente.
[ Tony Stark x Peter Parker - Hurt/Comfort - Introspettivo - What If? - Post Endgame - Romantico ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bruce Banner/Hulk, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie ' It Wasn't Easy To be Happy for You'
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Stubborn Love


part II

•••

 
«It's better to feel pain, than nothing at all.
The opposite of love’s indifference
Lumineers - Stubborn Love  

•••

 
 

«Avanti! Muoviti!» Un urlo in un sussurro spezzato, ecco cosa gli è appena uscito dalla bocca. Lancia sguardi fugaci alla porta, sperando che nessuno se ne sia accorto e che nessuno arrivi lì, improvvisamente, e lo trovi prigioniero di una debolezza. Non vuole che nessuno si preoccupi, che nessuno lo veda in quello stato. Non vuole che nessuno sappia quanto Spider-Man può essere debole, al di fuori di quel costume. Lo dimostra già abbastanza, giorno per giorno. Stringe le dita intorno alla coscia sinistra. Guarda la gamba tesa contro il pavimento gelido del bagno, immobile, incapace di muovere un muscolo, privata di qualsivoglia sensibilità. Non la sente, semplicemente non la percepisce. È come se non fosse parte di lui. 

«Forza… non ci hai mai messo così tanto!», esclama ancora, con rabbia. Digrigna i denti per l’impazienza e per il dolore. Vuole tornare a letto, stendersi, rimettersi a dormire e fingere, ancora una volta, che non sia successo niente. Rispondere poi, al solito «Tutto bene?», con una pacata bugia. «Sì, avevo solo sete.» 

Si fa leva con le mani per rialzarsi, ma cade di nuovo a terra con un tonfo sordo. Gli sfugge dalle labbra un sospiro stanco; frustrato. Non è mai durato così tanto come quella notte.  

«Avevi molta sete, immagino.» 

Peter alza la testa. Non lo ha sentito arrivare; colpa dei piedi scalzi contro il pavimento e la sua mente troppo satolla di pensieri rumorosi. Nemmeno i suoi sensi hanno anticipato quella visita inattesa e, per una volta, non gradita. Non avrebbe potuto. Il suo potere prevede i pericoli e Tony, in fondo, non è niente del genere. Non lo è mai. 

«Non riesco ad alzarmi», si giustifica, cercando di fingere che sia un episodio isolato, che non sia accaduto almeno altre sei o sette volte, da quel che ricorda. Cerca di regalargli un sorriso, solo per rassicurarlo, ma Tony sa sempre troppe cose, e le capta, le assorbe, anche solo affogando gli occhi nei suoi. È più doloroso di qualsiasi altra cosa, quel fatto. Non può nascondergli davvero niente.

«Lo vedo. Che cosa è successo?» Glielo chiede e fa un passo avanti.  Peter abbassa la testa sulla propria gamba. Poggia la schiena contro la parete del bagno con un sospiro.

«Sono caduto a terra. La gamba ha perso sensibilità e non ha retto. Tra poco torna tutto come prima, non preoccuparti», gli risponde, anche se è spaventato dal fatto che non avverta ancora alcuno stimolo nervoso. 

«Come lo sai?», gli chiede Tony, e quando Peter torna a guardarlo, lo trova con un sopracciglio alzato, a celare una certa angoscia. Non per quel fatto, ma per la consapevolezza che non c’è altro da sapere.

«Non è la prima volta che succede», si trova costretto ad ammettere, e riceve in risposta un mugugno di disapprovazione e labbra arricciate con amarezza. «Scusa se non te l’ho detto prima. Non volevo allarmarti.» 

«No? E cosa volevi fare? Tenermelo nascosto per sempre?»

«Speravo si fermasse, ad un certo punto», risponde Peter, in tono piatto. 

«Pensavi male.» Tony lo zittisce quasi, duro. Guarda altrove per un attimo, poi carica il diaframma di aria; ha fatto un casino, come sempre, tenendo per sé qualcosa potenzialmente pericolosa per la sua salute. Gli dispiace davvero. «Cosa senti?»

«Niente. Niente di niente. È come se non avessi sensibilità.» 

«È come se, o è così?», chiede Tony, e quel suo bisogno di chiarezza è sempre stato il suo modo di preoccuparsi, aggirando il problema con domande meno apprensive. 

«È così», ammette ancora, poi si passa una mano tra i capelli. Non può più mentire. Non avrebbe alcun senso. «Mi alzo e, appena appoggio il piede a terra, è come se il pavimento sparisse. Non lo percepisco. Cado a terra e, qualche minuto dopo, sento un formicolio. Hai presente, no? Quando ti si addormenta un braccio perché ci dormi sopra e poi comincia a svegliarsi?» 

«Sì, ho presente», risponde Tony, e riduce gli occhi a due piccolissime fessure. «E ora cosa senti?» 

«Forse inizia a dare qualche segnale.» 

«Direi che dovresti farti vedere da qualcuno.» 

Peter tace e deglutisce, ma sa che Tony ha ragione. Quella prospettiva, però, lo spaventa. Non può negare di aver cercato su internet quali malattie sono associate a quei sintomi, e al sol pensiero di certe cose che ha scoperto, rabbrividisce. Cerca di nascondere la paura che ha, abbassando di nuovo la testa sull’arto traditore, poi alza le spalle. «Sì, dovrei farlo. Mi dispiace davvero di non avertelo detto.» 

Tony non risponde. Fa solo un altro passo avanti e gli si siede accanto. Poggia anche lui la schiena al muro; la sua spalla destra tocca la sua. A quel contatto Peter si volta a guardarlo, e vorrebbe sorridere, se solo non fosse spaventosamente convinto che l’uomo, in questo momento, lo stia odiando a morte per avergli mentito. Lo ha deluso? Di nuovo?

Poi Tony posa la mano sulla sua, ancora stretta intorno alla coscia. Lo invita gentilmente a stringere le falangi tra le sue e, con il suo solito finto distacco, finge di non dedicargli alcuna premura per rassicurarlo. Troppo tardi; Peter sorride e si sente già meglio. No, non lo odia. Come può averlo solo pensato?

«Che stai facendo?», gli chiede, trattenendo un guizzo divertito.

Tony chiude gli occhi e si appiattisce di più contro la parete. Accenna un mezzo sorriso sornione, che sparisce dietro a una facciata indifferente. «Aspetto che si svegli, così ce ne torniamo a letto. Sono le tre del mattino, e ho la sveglia tra tre ore. Non mi dispiacerebbe dormire un po', prima che faccia giorno.»

«Oh, ma è già a buon punto, sai? Non ci vorrà molto, vedrai.» 

«Be’, vedi di darti una mossa, Spider-Man. Appena hai fatto, svegliami.» Peter poggia la testa sulla sua spalla, quanto Tony incrocia poi le braccia al petto e si porta, in quel gesto, la sua mano appresso. Chiude gli occhi, e la paura inizia a scemare, quando la sua gamba finalmente si sveglia. A differenza di Tony, che russa leggermente, già sprofondato nel mondo dei sogni. Non lo sveglierà. Sarebbe un torto troppo grande. 

 
 

«Il consiglio più spassionato che posso darti, è di tenere gli occhi chiusi finché non abbiamo finito. Non so se soffri di claustrofobia, ma entrare lì dentro non è piacevole per nessuno.»

«Quanto durerà?», chiede Tony, al posto suo. Si massaggia una spalla, nel frattempo, siccome lamenta un dolore da quando sono partiti da casa. Si sono addormentati sul pavimento del bagno, alla fine e, la prima cosa che gli ha detto, quando hanno riaperto gli occhi quella mattina, è stata «Spero la tua gamba si sia svegliata, perché ora sono le mie chiappe, a non avere alcuna sensibilità, Peter.» Lui aveva riso sotto i baffi, poi aveva ricevuto un bacio sulle labbra e un «Oggi andiamo al centro ricerca. Che ti piaccia o no.» E così, infine, sono lì a discutere della sua risonanza magnetica alla testa e agli arti inferiori, che — non lo può nascondere — lo spaventa a morte. 

Banner si toglie gli occhiali da vista e li appoggia alla scrivania. «Venti minuti senza contrasto, e altri venti con il contrasto», risponde, poi lo guarda e Peter vorrebbe sfuggire a quello sguardo preoccupato. «Lo so, è un tempo infinito ma è il miglior modo per escludere qualsiasi sorpresa spiacevole. Vedrai che andrà bene. Sei pronto?»

Peter non è pronto. Ha paura che, quell'esame, invece di escludere le sue paure, le avvalorerà. Le sue ricerche su internet sono state agghiaccianti e non vorrebbe mai apprendere, alla fine della fiera, che ha una malattia neurodegenerativa progressiva, come la sclerosi laterale o cose così. Significherebbe dover dire addio a molte cose, tra cui la sua autonomia e lo spaventa l'idea di diventare un peso per tutti — per Tony. Però annuisce e Banner si alza in piedi. Lo accompagna nella stanza che occupa il temibile strumento d'esame. Gli manca l'aria solo all'idea di doversi infilare lì dentro. Si sdraia sulla barella mobile e gli infilano un ago nella vena del braccio destro. Guarda Hulk, interrogativo. 

«Appena finirai la prima parte, ti tireremo fuori. Un'infermiera ti inietterà il liquido di contrasto e rientrerai dentro. Metti le cuffie, o il rumore ti farà venire un gran mal di testa», gli dice, e cerca di sorridere. 

«Il signor Stark dov'è?»

Banner punta un pollice dietro la sua spalla. «Di là, aspetterà che finisci. Tu rilassati e cerca di pensare a cose carine, tipo il cibo o alle ragazze», ride, e Peter sa che sta cercando di alleggerire quel momento, e gli è grato, ma ultimamente sono pochi, i suoi pensieri piacevoli. Soprattutto sono troppo legati a qualcosa che, inesorabilmente, non riesce a cancellare dalla propria vita. La stessa che, due mesi fa, gli è stata restituita dopo cinque anni di assenza. Di non esistenza. Di morte. 

Annuisce e si rilassa. «Chiudi gli occhi», gli ripete Banner, e lui obbedisce, mentre entra nel tunnel e vede la luce dietro le pupille che si spegne. Un rumore martellante gli riempie la testa, anche se ha le cuffie protettive. Allora inizia a pensare ad altro, cercando di non impazzire per colpa della paura e della frustrazione, solo che ogni pensiero torna inesorabilmente su Titano, dove sa di aver lasciato un pezzo di sé e dal quale sa di non essere mai davvero tornato del tutto. 

 
 

«Faceva un freddo pazzesco, là dentro», dice Peter,  con un sorrisetto impercettibile piegato sul viso, quando Banner poi lo accompagna fuori dalla stanza. Un diamante di malinconia gli brilla nelle pupille; Tony si perde a guardarlo e vorrebbe strapparglielo via dagli occhi. Non può. Allora si limita ad appoggiargli una mano sulla spalla, tentando di rassicurarlo che andrà tutto per il meglio. Deve andare tutto per il meglio, o non si darà pace. Ha pensato a tante di quelle conseguenze, da quando ha saputo cosa gli succede e, Cristo, spera di poter dissipare tutti quei dubbi al più presto o non sa nemmeno come la prenderebbe, una cosa così. E come farebbe, di conseguenza, a non perdere la testa e dimostrare comprensione, e non compassione. Sa che è quello che Peter non vuole, da lui. Dopotutto, nella stessa situazione, nemmeno lui vorrebbe gli fosse mostrata pietà. Gli farebbe solo rabbia.

«Quando avremo i risultati?», chiede, rivolto a Bruce e alla sua equipe. 

«Domani mattina, verso le undici. Ti manderò un messaggio quando sarà tutto pronto. Voi, nel frattempo, non ci pensate. Vedrete che andrà tutto bene», annuisce il dottore, e Tony si volta verso Peter, che subito trova nel suo sguardo un rifugio. A volte si chiede come faccia, a fidarsi così tanto di lui. 

«Va bene. Tu va' pure un attimo fuori, Peter. Io scambio due parole col pistacchio gigante, qui!», cerca di sorridere, indicando Banner che alza un sopracciglio. 

Peter invece lo guarda con una certa diffidenza. Gli chiede tacitamente se ci sia qualcosa che non va. Tony però è inamovibile. Vuole risposte e le vuole ora. Anche se non sono ancora sicure, anche se sono solo mere congetture. Vuole sapere, anche se ha paura della risposta, ma deve. Vuole trovarsi preparato, di fronte a qualsiasi evenienza; perché non è capace a consolare le persone e, molto di più, a dimostrarsi umano. Per quanto, da quando Peter è entrato nella sua vita, gli sembra quasi di non essere più quel mostro che credeva. 

«Okay, bene», esordisce Peter, annuisce ma non è contento che lo stia tenendo fuori dai suoi affari. Tony lo sa. «La aspetto nella sala d’attesa. A dopo.» Si congeda e fa un cenno a Banner, prima di recuperare lo zaino e stringere forte le bretelle tra le dita, quando lo carica in spalla. Lo osserva sparire dietro la porta scorrevole e, dopo un lungo e sofferto sospiro, si volta a guardare Bruce.

«Ti ho mai detto che il verde ti dona?» 

«Tony…» Bruce scuote la testa, e pare aver già capito, dove voglia andare a parare.

«Dico sul serio! Ti sta bene! Dopotutto è un colore che ti si addice parecchio.» 

«So cosa stai cercando di fare, e non posso ancora dirti nulla di certo ed è per questo motivo che da me non riceverai una sola informazione», risponde l’altro; si toglie gli occhiali e si stropiccia gli occhi, stanco. Tony non sa definire se lo sia per la giornata infinita che ha passato, o per la sua petulanza; perché è dannatamente consapevole che, se ci si mette di impegno, può diventare così fastidioso da sfiancare la gente, prenderla per esasperazione, e convincerla a fare e dire tutto ciò che vuole. 

«Eddai! Lo sappiamo tutti e due che da quei cosi - indica i monitor dietro il dottore - siete riusciti a vedere qualcosa! Non negarlo!», sbotta, e lo indica con un gesto teatrale.

«Non è la prassi e non sarebbe nemmeno giusto nei confronti di Parker. Hai notato che è un fascio di nervi? Sarebbe più giusto che lo dicessi a lui, piuttosto che a te», ammette, e Tony sa benissimo che ha ragione, ma non importa. È da quando ha beccato Peter lì, immobile a terra, che non si dà pace. Vuole e deve sapere. 

«Quindi sai qualcosa!», esclama, e non riesce a trattenere un velo di arroganza, siccome lo ha capito. 

«Non abbastanza. Ma so anche che, finché non te lo dirò, non mi lascerai in pace, non è così?» Banner si umetta le labbra, poi si sporge in avanti, sulla sedia da ufficio, e stringe le grosse mani verdi intorno alle ginocchia. Tony annuisce piano. Incrocia le braccia al petto e attende. Non c’è bisogno che dica altro, ha già vinto. Solo che ha paura, ora. Un terrore incalcolabile, perché se Peter ha davvero qualcosa che non va, non ha idea di come reagirà. Né ora, né quando sarà il momento di dirglielo. 

Ha paura di non saperlo accettare. 
 

 


 

Peter ha la testa inclinata dall'altra parte. Guarda il panorama fuori dal finestrino, ma Tony ci giura che non lo stia guardando davvero. Ha le mani infilate tra le cosce strette, a disagio. Evita il contatto visivo e quello dell'anima. Quel contatto che, inesorabilmente, si crea tra di loro ogni volta che c'è un incontro tra le loro pupille. Per questo Peter lo evita. Perché è arrabbiato con lui, ma non vuole cedere. Perché ogni volta che discutono, finiscono per insabbiare le questioni, e si perdono a chiedersi perdono con gli occhi, mai con le parole. Un insicuro e un orgoglioso. Ma c'è un altro tempo per i silenzi, e non è questo. Peter ha paura e quell'incognita lo sta uccidendo, ma quel che più lo dilania è sapere che Tony, a differenza sua, sa già, ma non gli dice niente. 

Tony sa che è così. «È stato noioso?»

«Cosa?», risponde Peter, una nota di distacco e disinteresse gli vibra nel diaframma, quando lo chiede. 

«Stare lì dentro. È stato noioso?»

«No.» 

«No?» ripete Tony, poi si immette sulla statale che li riporterà a casa; lo vede alzare le spalle indifferente, con la coda dell'occhio. Litigheranno, lo sa già. Peter vuole sapere e lui non vuole dirgli niente. Vuole risposte, anche lui, prima che l'altro gli ponga troppe domande scomode. Una domanda. La sola.

Che cos'ho? 

«Fare l'indifferente non risolverà il problema, Peter.»

«Nemmeno tenermi all'oscuro della verità.» Riesce a zittirlo, e Peter non ci riesce quasi mai. Da quando è tornato da quei cinque anni di buio, però, sembra più grande. Più adulto. Sembra quasi che quel secondo in cui è morto — uno soltanto, lo abbia maturato. O forse no. Forse non è stata la morte, ma altro. E gli fa una rabbia, non sapere di cosa si tratta… 

 
 

Quando entrano in casa quel silenzio non si infrange. L’unico rumore che spezza tutto è quello della porta del bagno che si chiude, quando Peter ci si infila dentro per alzare un muro tra di loro. Lui, che non fugge mai dalle discussioni; di solito è Tony, quello che cerca di annullarle con battute idiote e promesse che non mantiene. Stavolta le parti si sono invertite, ed è questo a fare più male. Si avvicina a grandi passi verso la porta, e bussa. Non lo fa con gentilezza, ma con intensa frustrazione che gli scivola via dalle dita, anche se non vorrebbe. 

Non litigheranno, se quella porta non si apre e, per una volta, devono farlo davvero. Perché se c’è una cosa che Tony non vuole, è che l’incomunicabilità gli porti via Peter. 

«Peter, apri la porta!» Quasi glielo ordina, a denti stretti, e bussa ancora. Non smetterà, è petulante. È la cosa che gli riesce meglio al mondo, lo sa, anche se ha bisogno di ripeterselo, ora come ora, siccome ha paura che non vincerà lui, questa volta.

«Per fare cosa?», gli chiede l’altro, atono. Una calma nella voce che palesa la sua collera. 

«Aprila e basta!», sbotta, e scende il silenzio, quando Tony smette di bussare; anche se vorrebbe continuare finché quella porta non deciderà di aprirsi; vorrebbe sfondarla, romperla, disintegrarla, solo perché quel muro che si è alzato tra di loro, è sempre e solo colpa sua. Lo sa che è così. E lo sa anche Peter. 

Poggia i pugni chiusi sulla superficie laccata, e poi la fronte. Non ha diritto di dire niente, solo la verità, ma non ci riesce. Non ci riesce perché non lo vuole rompere, quell’incantevole ragazzo – ormai uomo, che tace e non gli dà pace. Si gira; appoggia la schiena contro la porta, e si lascia scivolare giù, nell’oblio. Si siede a terra  e piega le ginocchia; ci incontra le braccia sopra e nasconde il viso, con un sospiro rumoroso e colpevole. 

«Se esci da lì, te lo dico», si arrende, e pensa che sia facile promettergli una cosa del genere e ottenere ciò che vuole. È un illuso, e lo sa.

«Non voglio saperlo da te», gli risponde Peter, in un soffio che Tony non sa nemmeno come ha fatto a sentire.

«No?»  

«No, esatto. Non voglio.» 

«Cos’è, hai paura della verità?» 

«Io non ho paura della verità! Io la pretendo!» 

«Oh, e da quando in qua tu pretendi qualcosa come se ti spettasse di diritto?»

«Solo quando mi viene nascosto qualcosa che mi riguarda!», risponde Peter, e ha iniziato a tremargli la voce.

«Quindi lo pretendi ma non vuoi saperlo da me.» 

«No, in alcun modo. Non voglio saperlo da te! No!» 

«E perché, di grazia?» Alza le sopracciglia, e ride nervoso. «Hai paura che ti menta?» 

«Paura? No, non sono io quello che ha paura. Mi hai cacciato via e hai preteso la realtà dei fatti senza coinvolgermi, solo perché sei tu, che hai paura. Lo sappiamo tutti e due che è questo, il motivo per cui l’hai fatto. Quindi non voglio saperlo da qualcuno che pretende di aver paura al posto mio.» 

Tony tira indietro la testa. La nuca incontra la porta; poggia un gomito al ginocchio si regge la fronte con la mano stretta a pugno. Digrigna i denti, e trattiene la verità; un’altra verità, che però Peter ha già capito. Merita di sapere cosa accidenti gli stia succedendo; e, comunque, lo scoprirà domani. E ora che glielo vuole dire, lui non vuole saperlo; non dalle sue labbra. Una sconfitta che lascia l’amaro in bocca, che tira una linea sulla fiducia e quasi la cancella; che annulla l’esclusiva che Tony pretende sempre di avere su di lui.

«E anche fosse così?» È così.

«Vorrei solo che lo ammettessi e che lo affrontassimo assieme, qualunque cosa sia. Ammetto che sarebbe gradito, tutto qui.» 

Tony Stark si sofferma troppo poco sul perché si sia innamorato di Peter Parker; forse perché l’amore non è mai stato davvero un concetto a cui ha dato il peso che avrebbe dovuto. Si sofferma troppo poco sulle ragione per il quale è successo, ma quando quel ragazzo lo smaschera a quel modo, Tony poi se le ricorda, tutte quelle ragioni. Ha sempre nascosto le sue debolezze dietro strati d'armatura e bugie, muri, facciate, maschere… e Peter è sempre riuscito a scalfirle – a romperle, sin dal primo giorno in cui si sono conosciuti. Peter gli entra nella psiche ogni giorno di più, e lui glielo permette perché vuole che lo faccia. Perché Peter sa leggere altro, in lui, ma lo fa senza ferirlo. Lo fa con una delicatezza che sembra quasi divina. Lo compensa con una purezza che a Tony non appartiene più da tempo. 

«Non importa, comunque. Domani avrò le risposte dai test. Lo scoprirò da solo», continua Peter, e lo risveglia da quel mosaico di pensieri sparsi.

«Ricevere le risposte che vuoi non significa per forza trovare la serenità che cerchi», sospira,  vorrebbe solo vederlo uscire da quella porta e stringerlo forte a sé. Per rassicurarlo. Per rassicurarsi. 

«Sempre meglio di brancolare nel buio, no? Scoprire perché cado per terra, senza volerlo», dice fin troppo calmo, ma devono litigare e non lo stanno ancora facendo. Ignorano quel fatto e rimandano i chiarimenti. Si muovono su un filo fragile, che si deve spezzare, o non ne verranno mai fuori.

«No, la domanda giusta è cosa ti fa cadere a terra, senza volerlo?», risponde, lapidario; i denti stretti e un pugno che trema contro il pavimento. Dita chiuse intorno al vuoto di una risposta che non ha, e che vorrebbe ricevere prima ancora che Peter sappia. Scende di nuovo il silenzio. Fa un rumore lancinante; ferisce le orecchie. Le fa sanguinare. Tony abbassa la testa e vorrebbe solo non aver mai parlato con Banner. Vorrebbe solo non aver saputo prima di Peter. 

«Tony?», lo chiama, con un filo di voce. Lui sospira e reclina ancora la testa all’indietro e sa che, a separarlo dalla schiena di Peter – ci può giurare che è seduto esattamente come lui, dall’altra parte – c’è solo quella dannata porta che vorrebbe spaccare.

«Che c’è?» Sembra che non gli importi di niente, e invece gli importa di tutto.

«Che cos’ho che non va?», gli chiede Peter – la rabbia rotta, dopo una pausa durata dieci, interminabili secondi. La voce ridotta ad un velo di spettri oscuri, pregni di paura e di una sola realtà: non vuole saperlo davvero, ma il terrore lo sta divorando. Tony quasi può vederle, le sua mani che tremano. Non è vero che non vuole saperlo da lui. Non vuole saperlo e basta, non importa da chi, sono solo scuse, che alla fine accantona. Tony sospira contro le dita incrociate vicino la bocca. I gomiti appoggiati alle ginocchia ancora piegate. Impreca a bassa voce, tra i denti, e stacca le pile dell’orgoglio e delle bugie. Tony Stark emerge, per un solo, dannato secondo.

«Niente. Non hai niente.» Se potesse contare i silenzi, avrebbe già perso il conto da tempo. Cadono come la pioggia, come la neve, come foglie secche, morte, che abbandonano i propri rami. Peter non risponde e lui sa il perché. Quel niente è una sicurezza, che fa comunque più paura di qualcosa

La porta fa rumore. Peter ci ha sbattuto le spalle, ci può giurare che è così. «Niente?» 

«Niente», ripete Tony, poi si passa frustrato una mano tra i capelli. «Nessuna malattia neurodegenerativa progressiva, nessun brutto male, nessun deficit motorio. Niente di tutto questo. Niente che si possa diagnosticare.» Ed è questo, il problema. Sente un rumore; il cigolio indistinto della maniglia che si piega. Si alza in piedi di scatto. Così velocemente che gli gira la testa. Peter apre la porta, e la prima cosa che gli lascia ammirare è quella dannata, folta corolla di ciglia¹ nere che si alza, e scopre due occhi castani che brillano; che hanno il potere di cancellare ogni dolore, anche solo per un attimo, che comunque dura troppo poco.

«E allora perché?», gli chiede, come se Tony potesse avere le risposte ad ogni domanda. Come se Tony fosse onnisciente, incapace di sbagliare; come se Tony fosse Dio

Si umetta le labbra. Incrocia le braccia al petto e, con la mano che ha sotto al braccio, lo indica. «Dimmelo tu, il perché», domanda, amaramente e tutto ciò che Peter ha da dirgli, è uno sguardo spaesato e interrogativo. «Si chiama parestesia. È un disturbo soggettivo della sensibilità. Interferisce con il funzionamento del sistema nervoso, e annulla ogni stimolo percettivo, in alcuni muscoli del corpo. Nel tuo caso: la gamba sinistra.» 

Gli occhi di Peter sfarfallano tremanti, in cerca di risposte. «È… psicosomatico?» 

«Sì. Non che la cosa mi sorprenda, ma non è rassicurante lo stesso. Ci sono svariati modi di manifestare la paura. Il peggiore è quando non ti accorgi di averla», sbotta, e sa di aver usato un tono infastidito e ostile. Sembra quasi che quel fatto sia una seccatura di cui non gli va di occuparsi, quando invece tutto ciò che vuole è sapere come può risolvere quella dannata situazione del cazzo. «La verità è che tu non sei davvero qui. Non per davvero. Non del tutto, e sappiamo tutti e due che è così.».

Peter sussulta e deglutisce. Si mette sulla difensiva, ma non serve a niente. «Certo che è così, ma lo sforzo più grande che sto facendo, è cercare di tornare. Non è semplice come pensi tu!» 

«Nessuno nega che tu non lo stia facendo, Peter! Nessuno ti accusa del fatto che tu non ci stia nemmeno provando ed è innegabile che ci voglia tempo, per superare quello che ti è successo e no, cazzo, non è semplice! Io voglio solo capire il perché! Perché sei lì, e non qui? Che cosa c’è lì, che qui non trovi?» Non basto io, nella tua vita?

Peter apre la bocca. Balbetta frasi sconnesse; muove le dita, gli tremano. Se le passa tra i capelli e scioglie nodi tra le ciocche e nella testa, e guarda altrove. «Niente. Lì non c’è niente.» 

«E qui?»

«Qui c’è tutto.» 

«Ovvero tutto da ritrovare, al tuo ritorno?», ironizza Tony, come se Peter avesse detto una serie di stronzate ingiustificabili e lui avesse il diritto di non dar loro l’importanza che meritano. Lo sa, che è così. Gli riesce meglio il mostro insensibile, che l’essere umano dotato di un cuore.

«Tutto da perdere», dice Peter. 

«La vita è anche questo», alza le spalle e lo dice come se fosse tutto semplice. Come se l’altro non avesse mai davvero capito niente, ma è lui che sta arginando un problema molto più grande e complesso. Peter digrigna i denti e gli rivolge finalmente lo sguardo. Collera e delusione gli accendono una luce negli occhi che mancava da tempo. Fa un passo avanti, due, tre, lo spintona e Tony indietreggia; Peter continua ad avanzare e poi si piega. Si sbilancia in avanti, e sta per cadere a terra. Tony lo afferra appena in tempo e lo stringe a sé. Ha un tuffo al cuore, perché quella scena è un deja-vù che ha il sapore di un incubo; di quando Thanos ha schioccato le dita e gli ha portato via metà del suo universo, per cinque, lunghissimi anni. Glielo ha poi ridato indietro, è vero; però  spaccato, rotto, ancora a metà.

«Succederà di nuovo», sussurra Peter, nella sua spalla. Trema di rabbia e di paura.

«Lo so», sospira Tony. Non può mentirgli, dopotutto. Può solo tenerlo saldamente tra le braccia, e non lasciare che cada ancora senza che lui sia lì a permettergli di rialzarsi. «Il senso della vita è quello di viverla come se non dovessi morire mai. Una volta eri in grado di pensarla così, no? È questa la vera cura, a quanto pare.»

«Sì, ma non è della mia morte, che ho paura», ammette Peter, e Tony sa anche questo. Lui, che ha schioccato le dita e salvato il mondo, rischiando molto più che di rimanere ferito, come invece – e per fortuna, è successo. Nessun ritorno, nessuna Gemma a riportarlo indietro. Nessuna speranza. Ha giocato con la propria vita, e sa che Peter, questo, non glielo perdonerà mai. «È già successo e so che succederà un’altra volta. E tu...» 

«Io sono qui, no?», lo costringe, con un’arrogante dolcezza, ad alzare il viso sul suo con l’ausilio di due dita sotto al mento. Gli sorride appena, con quella audacia che un po’ di terrore, negli occhi di Peter, lo cancella. «Che senso ha restare intrappolati in un posto dove io non ci sono per proteggerti?», gli passa una mano tra i capelli, e trattiene un sospiro di sollievo, quando anche l’altro piega leggermente le labbra in un sorriso. «Non per fare l’arrogante, ma tu hai bisogno di me.» Ed io di te.

«Sì, è così», ammette Peter, poi sospira e riduce la voce in un sussurro disperato. «È davvero giusto aver bisogno di qualcuno accanto, per non cadere più?», gli chiede poi,  arpionato alla sua schiena saldamente, mentre i suoi occhi tornano sulla terra, a New York, tra le sue braccia – quelle di un uomo che lo ama disperatamente, e che ha troppa paura di perderlo ancora.

Tony gli regala un bacio sulle labbra, che pulsa di vita e di un futuro che prima era incerto, ma che ora non lo è più. Gli vibra la schiena, poi sorride arrogante, e quasi dimentica di averlo perso e poi ritrovato. Come se Titano non fosse mai esistito e la polvere non avesse mai spazzato via niente di niente. «Peter, nessuno si salva da solo.» 

E Tony, questo, lo sa meglio di chiunque altro al mondo perché dopotutto, chi lo salva ogni giorni, ce lo ha stretto tra le dita e tra le braccia e tra le labbra; iridi castane tornate finalmente indietro, esattamente dove devono stare: incastrate tra le sue, per salvarlo ancora.
 

Fine 

 

¹  Una piccola variante della mia iconica espressione folta corolla di ciglia, ormai mio timbro identificativo a cui tengo gelosamente e che non manca mai di palesarsi nelle mie storie...  per motivi più sofferti, qui diventa dannata




 

♥ Note Autore ♥


 
Buon pomeriggio! Come la va?
Ebbene sì, sono tornata con un bel mammozzone di shot, ma sono felicissima di due cose: la prima è quella di aver ripreso in mano questi due testoni così come il canone ce li mostra, secondo ma non meno importante, di aver trovato il tempo di proseguire la serie di shot/minilong che mi sono imposta di scrivere; i whatif? fixed fic dove Tony è sopravvissuto alla schiocco di End Game, e mi permette un po’ di scavare ancora e ancora e ancora nella psiche di loro, i miei loro, adorati e unici ♥ Quelli che mi hanno rovinato la vita, per intenderci ♥ Grazie per essere arrivati fin qui e grazie per aver dedicato del tempo alla lettura di questa storia; sperando vi sia piaciuta, vi do appuntamento alla prossima, con altro (no, non so nemmeno io cosa, ma ho mille progetti avviati quindi prima o poi uno di questi vedrà la luce, no?) e vi invito, se vi va, a lasciarmi un commentino ♥  Ne approfitto per augurarvi un Buon Natale (già passato) e un buon inizio 2020, che è davvero alle porte e spero porti a tutti voi tanta serenità e ispirazione ♥

About this fic: la parestesia non è associata solo a disturbi psicologici, ma anche a malattie neurodegenerative; difatti, quando si manifesta una cosa del genere, vengono subito richiesti alcuni esami specifici, tra cui la risonanza magnetica con contrasto, ma anche elettroencefalogramma, elettromiografia e altri test legati alla funzione muscolare e nervosa. Nel caso di Peter non mi sono voluta dilungare sui dettagli medici/ospedalieri (sia perché la fic avrebbe raggiunto le 10k parole sia perché dopotutto non era mio interesse sottolineare quel lato, ma altro); il problema psicologico si risolve con, in primis, la risoluzione del problema scatenante alla radice, ma anche con dei farmaci all’occorrenza.
A Peter, semplicemente, serve Tony. Tutto qui ♥

Come so tutte queste cose? Mettiamola così: c’è un po’ di me, in questa storia ♥ Grazie ancora per averla letta ♥
A presto, 
La vostra amichevole Miryel di quartiere.

 
 
 
   
 
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