Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: RedeNetele    26/12/2019    4 recensioni
A quasi ventinove anni, Anna si trova di fronte a una scelta: lasciare la sua vecchia vita per ottenere un lavoro oppure rimanere disoccupata. Anche se a malincuore, Anna lascia Lorenzo, il suo ragazzo, e si trasferisce a più di duecento chilometri di distanza, nella città che l'ha vista crescere, dove l'aspetta un posto come impiegata nell'ospedale cittadino.
La vita da single è più difficile del previsto, soprattutto se a complicare le cose ci si mettono un vicino di casa ostile, irritante e con due occhi di ghiaccio e il suo cane-killer costantemente a caccia dei gatti di Anna. Ma chissà che non sia proprio Yaroslav, levriero apparentemente bipolare, ad alleviare la solitudine di Anna e a farle vedere sotto una nuova luce anche lo scostante Oleksander?
Ma l'imprevisto è sempre dietro l'angolo e, quando Lorenzo si dimostrerà più tenace del previsto, Anna dovrà fare i conti con l'amore, un sentimento che non ha mai compreso fino in fondo.
Una storia di umani, cani e mostri da sconfiggere.
Genere: Commedia, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

«Sì, signora, capisco perfettamente cosa sta cercando di dirmi, ma...»

«Non ci sono “ma” che tengano, signorina!» sbottò la donna strizzata in un tailleur grigio, agitando le braccia e spandendo attorno a sé una nuvola di profumo floreale. «Sono in coda a quello sportello da due ore... anzi, no! Tre ore, ormai, visto che sono praticamente le dieci!»

Anna si passò una mano sui capelli stretti in uno chignon molto professionale e lanciò un'occhiata a Giulia, sperando che la sua responsabile potesse accorrere in suo aiuto. La donna, però, se ne stava seduta al computer vicino alla finestra e digitava furiosamente sulla tastiera, apparentemente immersa nel proprio lavoro e dunque sorda a tutto ciò che la circondava.

Eh, figuriamoci! Pensò Anna, con una punta di fastidio. Doveva imparare a cavarsela da sola, certo, ma aveva iniziato a lavorare all'URP dell'Ospedale di Lanzate da un mese soltanto e non era ancora capace di liquidare con eleganza gli utenti più boriosi e insistenti. E la signora con il tailleur grigio era molto insistente.

La ragazza sospirò e si aggiustò gli occhiali sul naso. «Come le ho già detto, l'accesso agli sportelli è regolato da un sistema automatico...»

«Che non funziona!» sbottò la donna, sbattendole sotto il naso un piccolo tagliando tutto stropicciato. «Lo vede? C'è scritto P12, il che significa che davanti a me c'erano soltanto undici persone: com'è possibile che ci vogliano tre ore per fare undici prenotazioni?»

«Il fatto è...» tentò di spiegare Anna, ma la donna la interruppe di nuovo.

«Sa qual è il problema? Che chiamano tutte le altre lettere ad eccezione delle “P”!» sbottò, fissando il foglietto di carta lucida come se esso fosse la casa di tutti i suoi mali. «Chiamano sempre e solo le “A” e le “H”, ma le “P” mai! Non è possibile che ci vogliano più di tre ore per fare una prenotazione!»

La ragazza fece per rispondere, ma la vibrazione del cellulare posato sulla sua scrivania la distrasse per un istante. Da quando è così rumorosa? Si chiese, leggermente a disagio.

«So che...» Anna tentò di spiegare alla donna che le stava davanti quale fosse il funzionamento del sistema che regolava l'accesso agli sportelli, ma il cellulare vibrò un'altra volta, e poi altre due, dando vita a un vero e proprio concerto di ronzii. Ma chi diavolo mi scrive? Si chiese la giovane, senza riuscire a evitare di compiere un mezzo giro su se stessa e di lanciare un'occhiata dubbiosa alla scrivania.

«Vuole andare a rispondere al telefono?» le chiese la signora in tailleur, sollevando un sopracciglio con aria derisoria.

La ragazza si voltò di scatto verso di lei, resistendo a stento alla tentazione di rifilarle una risposta acida. «No, non è necessario» replicò, mordendosi la lingua. «Come le stavo spiegando, c'è un motivo, se la lettera “P” viene chiamata meno spesso delle altre. Vede? La “P” sta per prenotazione. La “A” sta per accettazione e le “H” vengono assegnate solo ai pazienti che hanno diritto all'accesso prioritario. Dal momento che le prenotazioni possono tranquillamente essere fatte anche telefonando al centralino o al numero verde regionale, allo sportello si è deciso di dare priorità a quegli utenti che non possono che venir qui di persona. Non dico che sia un sistema perfetto, ma ha una sua logica, no?»

La donna la soppesò con lo sguardo. «E allora togliete la possibilità di prenotare in ospedale e basta!» sbottò. «Io ho preso due ore di permesso dal lavoro: come lo giustifico, questo ritardo? Potrebbero anche pensare che me ne sono stata in giro a farmi i fatti miei per un'ora!»

Anna soffocò un sospiro. «Non si preoccupi: la collega allo sportello le rilascerà un certificato che attesta che lei è stata in coda per più tempo del previsto.»

Anziché placarla, quella risposta parve indisporre ancora di più la signora con il tailleur grigio. «Ah, perfetto!» ringhiò, infatti, stritolando tra le mani il tagliandino. «Quindi, se voglio avere un giustificativo di qualche tipo, devo restarmene in coda per altre due ore? Devo buttare tutta la mattinata in sala d'aspetto?»

La ragazza esitò, presa in contropiede. «Be'...»

«Siete degli incapaci!» esclamò la donna, alzando la voce. «Non avete rispetto per i cittadini!»

Anna retrocedette di un passo, allontanandosi da quella furia gesticolante. «Ehm... se vuole può fare reclamo» si arrese, afferrando uno dei modulo impilati su uno scaffale e offrendolo all'utente.

Quella glielo strappò di mano e lo squadrò velocemente. «E chi la leggerebbe, 'sta roba? Scommetto che la buttate via.»

In realtà, quei moduli li leggo io e poi li trasmetto ai reparti, pensò la ragazza. Ma 'sta pur tranquilla che con le segnalazioni inutili come la tua ci fanno gli aeroplanini di carta. «Ma no», disse, invece, «tutte le segnalazioni vengono prese in considerazione: riceverà anche una risposta attraverso i canali da lei indicati.»

La donna la guardò con diffidenza. «Sì, va be'» disse, come se fosse certa che Anna la stesse prendendo in giro. «Comunque questo me lo prendo comunque: tanto di tempo ne ho, se devo aspettare che si decidano a chiamarmi!»

Quando la signora se ne fu andata sbattendo la porta con malagrazia, Anna tornò mestamente alla propria scrivania e si lasciò cadere sulla sedia girevole blu. «Che strazio» sospirò, rivolgendosi a Giulia.

«Certa gente è proprio cretina» replicò la donna, senza nemmeno distogliere gli occhi dallo schermo del suo PC. «Ti diamo la possibilità di prenotare le visite senza nemmeno dover alzare il culo dal divano di casa: e fallo, no? Se invece provi l'insano desiderio di venire a rompere il cazzo alla gente di persona, almeno non lagnarti se devi fare la coda.»

Anna non commentò e si lamentò a inarcare le sopracciglia: non riusciva a capacitarsi di come una persona bellicosa e poco empatica come Giulia fosse finita a lavorare proprio all'Ufficio Reazioni con il Pubblico di un ospedale. Almeno questa qui non aveva un problema grave, si consolò, prima di allungare una mano verso il cellulare, incuriosita dalla serie di messaggi che aveva ricevuto poco prima.

Oh, sono notifiche di Facebook, notò con un brivido di entusiasmo. Ancor prima di aprire il messaggio, la ragazza si lasciò sfuggire un ampio sorriso: Sabrina aveva accettato la sua richiesta di amicizia. E mi ha anche scritto qualcosa!

Anna dovette rileggere più volte ciò che la sua amica d'infanzia le aveva scritto: l'emozione di essere riuscita a ristabilire un piccolo contatto con il suo passato era tale che i suoi occhi stentavano a soffermarsi sulle singole parole e tendevano invece a correre subito verso la fine della frase.

Vuole che ci incontriamo, comprese, abbassandosi un poco sulla scrivania per evitare che Giulia notasse il sorriso ebete che le si era disegnato sulle labbra e le facesse qualche domanda alla quale non aveva intenzione di rispondere, almeno per il momento. Mentre leggeva e rileggeva il messaggio inviatole da Sabrina, sentiva risuonare nella sua testa la voce che la ragazza aveva avuto da bambina: le diceva che era felicissima di saperla nuovamente a Lanzate e le proponeva di trovarsi per un aperitivo il giorno seguente – o quello dopo ancora – presso il Caffé Excalibur, storico locale che sorgeva in un angolo della piazza più grande del paese. Aveva già avvisato anche Esther, che da quando era diventata mamma non usava più Facebook, ma che sarebbe stata ben contenta di rivederla.

Esther ha avuto un bambino, pensò Anna scombussolata. L'idea di rivedere lei e Sabrina le fece correre un improvviso brivido nervoso lungo la schiena: e se gli anni che avevano passato lontane le avessero rese troppo diverse per essere ancora amiche? Oh, ma cosa sono questi dubbi da bambina dell'asilo! Si riprese, impugnando saldamente il cellulare e digitando un messaggio in risposta a quello di Sabrina. Domani va benissimo, pensò, mentre il dito tracciava quelle stesse parole sullo schermo luminoso. Tanto non è che abbia chissà quali impegni extra lavorativi!

Quando, quella sera, rientrò nel proprio appartamento, Anna si sentiva decisamente rilassata e di buon umore. In ufficio non erano arrivati altri utenti molesti come la signora che non voleva fare la coda allo sportello e la mattinata grigia e uggiosa si era dissolta in un limpido pomeriggio autunnale, con un cielo terso e una brezza mite che sapeva quasi ancora un po' d'estate. È un buon momento per sistemare questi e per dare una spazzata al giardino, pensò Anna, recuperando dal bagagliaio del Panda la cassettina di ciclamini che la zia Clara aveva voluto rifilarle a tutti i costi.

Una volta entrata in casa, Anna salutò le sue due gatte e poi corse in camera a cambiarsi, abbandonando i jeans attillati e la camicetta in favore di una meno elegante ma assai più comoda tuta da ginnastica color verde salvia che possedeva da almeno una dozzina di anni. Semplicemente agghiacciante, si disse, lanciando un'occhiata distratta allo specchio a figura intera che aveva sistemato accanto all'armadio. Ci mancava solo la toppa dei Ramones a metà coscia, per completare l'opera!

Decidendo che la sua tenuta casalinga era perfetta per il giardinaggio, la ragazza marciò verso il salotto e poi raggiunse la portafinestra che dava sul giardino, portando con sé i ciclamini e sperando che i piccoli e resistenti fiori invernali fossero in grado di dare una nota di colore a quel fazzoletto di terra altrimenti spoglio.

«Volete venire anche voi, signorine?» chiese, notando che Calliope l'aveva seguita e ora indugiava sull'uscio, incerta se posare o meno le zampette sull'erba un po' troppo alta. Dietro di lei, Anna poteva vedere l'ombra nera di Cassandra che, come suo solito, aspettava che la sorella facesse la prima mossa.

Quasi come se fossero in attesa di un qualche tipo di permesso, le due bestiole parvero prendere coraggio e trotterellarono all'aperto, frustando l'aria con le code e osservando con fare guardingo l'ambiente che le circondava.

Oh, a proposito! Lasciando ricadere a terra il rastrello che Paolo, appassionato di giardinaggio, le aveva regalato il giorno stesso in cui aveva scoperto che Anna avrebbe avuto un paio di metri quadri di prato di cui prendersi cura, la ragazza si avvicinò alla recinzione che separava il suo giardino da quello di Oleksander. Mi pare che il simpaticone non sia ancora tornato a casa, si disse, posando quasi di soppiatto le mani sul reticolato metallico che, nelle intenzioni di chi aveva disegnato le villette bifamiliari, avrebbe dovuto essere ricoperto da uno spesso intreccio di gelsomino, ma che era in realtà ancora piuttosto spoglio. Ma il suo cane dov'è? Durante il giorno lo tiene in casa o lo lascia in giardino?

Premendo la fronte contro la rete rigida, Anna cercò di spiare come meglio poteva lo spazio che si apriva al di là di essa. Riusciva a scorgere un prato ordinato, un tavolino di plastica sistemato a ridosso del muro, qualche pianta aromatica e la ciotola metallica che per prima aveva attirato l'attenzione del suo fratellastro. Tutto era però immobile e silenzioso, chiaro segnale del fatto che il giardino era disabitato.

Rinfrancata, Anna si staccò dalla rete e si voltò verso le sue gatte. «Via libera, ragazze» disse, come se fossero in grado di comprendere le sue parole. «Il nemico non c'è. Però non allontanatevi, che non si sa mai.»

Per la mezz'ora successiva, la ragazza si dedicò completamente alla cura del suo piccolo giardino. Sistemò e risistemò più volte i ciclamini sui davanzali, rendendosi conto solo al secondo tentativo che era necessario posizionare un sottovaso di plastica sotto i singoli vasetti per evitare che l'acqua in eccesso scivolasse via e macchiasse il muro. Con l'aiuto del rastrello, radunò le foglie che la betulla che cresceva appena al di là della recinzione metallica aveva generosamente sparso per tutto il prato e poi recuperò una vecchia scopa di saggina spelacchiata – dono della zia Clara – e spazzò i pochi metri di pavimentazione di cemento che si estendevano davanti alla portafinestra.

Quando ebbe radunato un discreto mucchietto di foglie gialle e secche, Anna abbandonò la scopa a terra e lo squadrò con aria critica. Adesso mi serve qualcosa in cui buttarle. Che sacco si usa per le foglie? Va bene il sacco nero o ce ne vuole uno speciale? Decidendo che, per quella volta, avrebbe utilizzato un normalissimo sacco nero e confidato nella clemenza del netturbino, la giovane tornò in casa con passo rapido.

Mentre era inginocchiata a terra, con la testa immersa nell'armadietto posto sotto il lavello nel tentativo di reperire un sacco della spazzatura, dal giardino giunse una sorta di grido che le fece balzare il cuore in gola. Anna trasalì e si affrettò a rimettersi in piedi, imprecando tra i denti quando il suo ginocchio colpì dolorosamente lo spigolo dell'anta dell'armadietto.

Cosa diavolo sta succedendo? Si chiese, precipitandosi fuori. Mentre stava per sorpassare la portafinestra, incespicò in Cassandra che, simile a un lampo nero, si stava rifugiando in tutta fretta in casa. Sentendosi travolta, la gatta soffiò e si fiondò sotto il divano, mentre Anna inciampava nei suoi stessi piedi, con il rischio di cadere lunga e distesa sull'erba.

Riuscendo a rimanere in equilibrio per puro miracolo, la ragazza si fermò nel centro esatto del giardino respirando affannosamente. Dov'è Calliope? Si chiese, guardandosi attorno con apprensione crescente. La risposta non tardò a palesarsi. Il grido che l'aveva fatta sobbalzare poco prima si ripeté e, voltandosi quasi al rallentatore verso sinistra, Anna si trovò di fronte a una scena che le fece ghiacciare il sangue nelle vene.

Approfittando della sua breve assenza, Calliope era sconfinata nel giardino del tipo dell'Audi e ora era addossata al muro, con il pelo irto, la bocca spalancata e un'espressione omicida negli occhi giallo-verdi. Soffiava, ringhiava e emetteva minacciosi miagolii al tempo stesso rochi e acuti, nell'evidente tentativo di rendersi terrificante agli occhi dell'avversario. Davanti a lei, immobile e rigido come una statua, c'era il cane più brutto che Anna avesse mai visto: era enorme, alto sulle zampe e con una testa troppo piccola rispetto al corpo dinoccolato. Aveva il sedere più alto della groppa, il che dava l'impressione che fosse come ingobbito e portava la coda vaporosa pudicamente raccolta tra le zampe posteriori. Aveva il pelo candido e riccio di un agnello, il muso allungato e irto di denti di un coccodrillo e la stazza di un vitello – o così almeno parve ad Anna, in quegli attimi pieni di panico.

«Calliope!» gridò, lanciandosi d'istinto contro la rete e tentando di allungare le braccia attraverso di essa, come se potesse afferrare la gatta nonostante i metri che le dividevano.

Quel richiamo lasciò del tutto indifferente il felino, che non diede cenno di averlo udito, ma catturò per un istante l'attenzione del cane, che voltò il muso nella sua direzione e squadrò Anna con un paio di occhi neri, tondi e curiosi. «Va' via!» gli ingiunse lei, cercando di adottare un tono di voce perentorio. «Via!»

Quell'ordine non sortì il risultato sperato e quella specie di mostro lanoso finse di balzare su Calliope, limitandosi però ad abbassarsi sulle zampe anteriori, innalzando il sedere al cielo e liberando la coda all'indietro, come se l'intera situazione non fosse altro che un magnifico gioco. Per tutta risposta, la gatta sferrò un paio di zampate all'aria e poi saltò all'indietro, arrampicandosi in qualche modo sulla grondaia che scendeva lungo il muro, agile e velocissima. Il cane si lanciò subito al suo inseguimento, ma nonostante fosse davvero molto alto, dovette limitarsi ad alzarsi sulle zampe posteriori e a posare quelle anteriori sul muro, senza riuscire però a raggiungere Calliope.

Aggrappata al minuscolo filo d'edera che cresceva a ridosso della grondaia di rame, la gatta soffiò di nuovo, ma ora pareva in difficoltà: non poteva scendere, ma non riusciva nemmeno a salire più in alto.

Ah, merda! Pensò Anna, con le mani che le sudavano a causa della tensione. Che cosa faccio? E da dov'è spuntato quel coso? Prima non c'era!

Rendendosi conto che qualcuno doveva per forza aver fatto uscire il cane, probabilmente mentre lei era impegnata a pulire il giardino, la ragazza si aggrappò nuovamente alla rete, resistendo alla tentazione di scavalcarla e di andarsi a riprendere personalmente la sua gatta. «Ehi!» gridò con quanto fiato aveva in gola. «Il cane! Tenetelo un attimo!»

Udendo le sue grida, il cane in questione si voltò a guardarla e poi abbaiò un paio di volte in direzione di Calliope, facendo riecheggiare contro le facciate delle villette i suoi latrati metallici.

Anna si sentì sul punto di piangere per la frustrazione, ma, proprio in quel momento, il proprietario dell'Audi comparve in giardino, evidentemente attirato dal rumore.

Doveva essere appena rincasato dopo una giornata lavorativa e, proprio come nelle aspettative della ragazza, indossava una camicia bianca, dei pantaloni scuri e una cravatta discreta. La giacca doveva essere in casa, ordinatamente riposta su una gruccia. «Il tuo cane!» sbraitò Anna, senza perdersi in convenevoli. «Vuole mangiarsi la mia gatta»

Sul volto dell'uomo c'era un'espressione confusa e anche un po' seccata, ma quelle parole parvero metterlo in allarme. Con un'occhiata veloce inquadrò la situazione e poi si lanciò sul cane, afferrandolo per il collare a due mani e stringendolo tra le gambe, costringendolo a rinculare. «Yaroslav: no!» scandì, con voce secca. L'animale appiattì ulteriormente le orecchie contro il cranio e guardò il volto del padrone, leccandosi rapidamente il muso: nonostante la distanza, Anna riuscì a vedere un'espressione di pentimento passare nei suoi occhi scuri. Calliope, però, scelse proprio quel momento per scivolare qualche centimetro lungo la grondaia, attirando nuovamente l'attenzione del cane, che sgroppò nel tentativo di liberarsi dalla presa del padrone, rischiando così di mandarlo a gambe all'aria.

«No!» ripeté l'uomo, strattonando nuovamente il cane per distoglierlo dalla gatta. «Basta! Vai sul tuo cuscino!»

L'animale parve processare quello che gli era stato detto e levò lentamente il muso, osservando il volto del padrone con espressione ferita e vagamente accusatoria. Oleksander lo liberò dalla presa delle sue gambe, ma con una mano continuò a trattenerlo per il collare. «Sul cuscino, ho detto!» ribadì, puntando un dito verso il suo appartamento. «Forza!»

Con un'ultima occhiata di rimpianto in direzione di Calliope, il cane trotterellò con passo sorprendentemente leggero ed elegante verso la portafinestra, la coda nuovamente ripiegata tra le zampe.

Dall'altra parte della rete, Anna aggrottò la fronte, vagamente impressionata. Però, considerò, la bestiaccia è obbediente. Peccato che lo stesso non valga per il mio demone tricolore.

Oleksander chiuse la porta che garantiva l'accesso al suo giardino, poi si voltò verso Anna, incrociando le braccia davanti al petto. «Si può sapere cosa ci fa il tuo gatto nel mio giardino?»

Contro le sue migliori intenzioni, la giovane si ritrovò ad abbassare lo sguardo. «Deve aver scavalcato la rete proprio nel momento in cui io sono entrata in casa» disse, avvertendo un vago calore all'altezza delle guance. Ti prego, dimmi che non sto arrossendo! «Ehm... scusa. Di solito non fa queste cose» mentì, soprassedendo sul fatto che erano in realtà ben poche, le cose che Calliope aveva la creanza di non fare.

L'uomo la soppesò con i suoi occhi di ghiaccio e Anna dovette mordersi le labbra per evitare di sbuffargli in faccia. D'accordo, era effettivamente accorso in suo aiuto e aveva salvato la sua gatta da un incontro ravvicinato con le zanne del cane, ma il suo modo di fare aveva un che di indisponente e antipatico.

Senza dire una parola, Oleksander si avvicinò alla grondaia. «Dai, forza» disse, alzando gli occhi verso la gatta, che si trovava una ventina di centimetri più in alto rispetto alla sua testa. «Scendi.» Così dicendo, l'uomo allungò una mano in direzione del felino, forse per convincerlo a lasciare la presa dal ramo di edera, ma Calliope soffiò e gli sferrò una fulminea zampata ad artigli spiegati.

Dio, che vergogna, pensò Anna, coprendosi il volto con una mano.

Oleksander balzò indietro e si esaminò la mano, che pareva miracolosamente illesa. Poi si voltò nuovamente verso la vicina di casa, puntandole addosso uno sguardo d'accusa. «Ho cambiato idea: vieni qui tu, a riprendertela!» sbottò.

Anna esitò, presa in contropiede. Doveva andare in casa sua? Ma nel suo appartamento c'era Yaroslav: anche se non aveva mai avuto paura dei cani, era comunque vagamente preoccupata dalla prospettiva di trovarsi a tu per tu con un esemplare tanto grosso.

«Forza» la spronò Oleksander, con una profonda ruga tra gli occhi chiari. «La tengo d'occhio, ma tu muoviti, che poi ho altro da fare.»

Annuendo, Anna corse in casa, schivò Cassandra che, nel frattempo, era riemersa dal suo nascondiglio e uscì sul vialetto, raggiungendo poi la porta della casa di Oleksander. Posando la mano sulla maniglia, la ragazza levò brevemente gli occhi al cielo. Ti prego, Madonnina, fa che il cane-coccodrillo non decida di mangiare me, visto che non ha potuto assaggiare Calliope.

Aprendo cautamente la porta, la ragazza si introdusse nell'appartamento del vicino di casa, che aveva fortunatamente la stessa struttura del suo. La prima stanza era vuota, ma lì, dietro il muretto che separava il salotto dalla sala da pranzo, c'era un grosso cuscino rosso decorato con dei minuscoli ossetti bianchi: su di esso era acciambellato Yaroslav il cane, il naso affondato nella vaporosa coda bianca e un'espressione di afflitta desolazione dipinta negli occhi scuri. Vedendola comparire nel suo regno, l'animale mosse appena gli occhi, ma tanto bastò ad Anna per sentirsi giudicata e studiata. Notando che lo sguardo del cane seguiva ogni suo movimento, la giovane affrettò il passo e raggiunse il giardino, chiudendosi la porta alle spalle e rivolgendo un sorrisetto di circostanza a Oleksander.

Ora che si trovava vicino a lui, si sentiva quasi a disagio. Decisa a ridurre al minimo la durata di quella situazione scomoda, puntò decisa verso Calliope. «Va bene, Calli: vieni giù» le disse con dolcezza.

Dall'alto del suo rifugio di metallo ed edera, la gatta la puntò con i suoi occhi lunari e poi strizzò appena le palpebre, come per dirle che l'aveva riconosciuta e che era tutto sommato felice di vederla lì. «Brava micia» mormorò Anna, alzandosi sulla punta dei piedi per sfiorare il pelo folto e morbido della gatta. «E adesso andiamo» disse ancora. Estendendosi quanto più poteva, portò una mano sotto le ascelle di Calliope e tentò di sollevarla, sperando così di convincerla a lasciare la presa. La bestiola, però, rimase abbarbicata al tronco dell'edera con le zampe anteriori, mentre quelle posteriori si agitavano nell'aria, cercando di ritrovare un appoggio stabile. Nel suo scalciare, la gatta spinse indietro il polsino della tuta di Anna e i suoi artigli graffiarono la pelle delicata del polso della ragazza, due strisce rosse sulla pelle bianca, solcata da vene azzurrine.

«Ahia!» sibilò Anna, lasciando subito andare la gatta. Destabilizzata, Calliope atterrò morbidamente a terra, poco distante dai piedi della sua padrona. Dopo un'energica scrollata, trotterellò verso la rete divisoria, la superò con una velocità preoccupante e andò a sedersi in buon ordine davanti alla portafinestra dell'appartamento della ragazza.

Disgraziata, pensò la giovane, portandosi istintivamente il polso alla bocca e succhiando via le goccioline di sangue che erano comparse sulla pelle. Lo sapevo, io, che dovevo prendere il maschietto, quello bianco e nero con l'occhietto un po' storto. Sicuramente sarebbe stato meno stronzo.

Qualche istante più tardi, Anna divenne consapevole del fatto che Oleksander la stava osservando. «Mh?» gli chiese, abbassando il braccio e asciugando il polso nella stoffa dei pantaloni della tuta.

«La tua gatta si chiama Calli?» le chiese, con quello che sembrava uno stupore genuino.

Aggrottando la fronte, la ragazza si rese conto in quel momento di quanto poco grazioso fosse il diminutivo con cui era solita riferirsi alla bestiola. Le scappò un sorriso. «No, no: si chiama Calliope. “Calli” è solo un diminutivo. Ho anche un'altra gatta che si chiama Cassandra, “Sasà” per gli amici.»

«Ah» fece l'uomo, in un tono piatto che faceva intuire il suo scarso interesse per l'argomento. «Cerca di non farle entrare nel mio giardino: Yaroslav è un cane da caccia e tende a inseguire tutto ciò che si muove. E, poi, non voglio che vengano a scavare nel mio prato.»

Piccata da quell'osservazione che aveva quasi il sapore della minaccia, Anna annuì rigidamente. «Farò il possibile» replicò con sussiego. «Buona serata.»

Così dicendo, la giovane cercò gli occhi dell'uomo in una sorta di dimostrazione di forza, ma appena li trovò, così freddi e limpidi, sentì che qualcosa nel suo stomaco faceva una capriola. Non era mai stata brava a mantenere il contatto visivo: perché si era messa in quella situazione? E Oleksander, invece, sembrava non avere problemi di alcun tipo: sosteneva il suo sguardo senza tradire alcun segno di nervosismo e, anzi, sulle sue labbra c'era quasi l'ombra di un sorriso.

Sta ridendo di me? Si chiese la ragazza, aggrottando la fronte indispettita. Per una frazione di secondo, lo sguardo dell'uomo scese più in basso, sulla sua tuta larga e rovinata, con la sua toppa e le ginocchia che erano ormai sporche di terra, e Anna non dovette faticare per capire che cosa stesse pensando. Oh, ma vai al diavolo, razza di damerino! Pensò, arricciando le labbra in una smorfia di disgusto. «Buona serata» ripeté, prima di aggiungere, sibilando tra i denti: «Spero che il tuo cane non sia aggressivo, altrimenti mi ripaghi come nuova.»

Il mezzo sorriso sul volto dell'uomo si trasformò in un sorriso vero e proprio. «Non ti preoccupare, il mio cane mangia solo roba super premium: non rientri nella sua dieta, credo.»

«Simpatico» replicò Anna, acida, resistendo a stento alla tentazione di mostrargli il dito medio.

Senza aggiungere altro, girò sui tacchi e rientrò nell'appartamento dell'uomo, attraversandolo a passo di carica. Yaroslav pareva essersi assopito sul suo cuscinone e al passaggio della ragazza si limitò ad aprire un occhio appannato dal sonno.

Anna sogghignò, notando che nel suo sguardo nero c'era più simpatia che in quello grigio del suo padrone.

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: RedeNetele