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Autore: wanderingheath    28/12/2019    0 recensioni
Clara attende da mesi che la Fortuna bussi alla sua porta, sperando in un colpo improvviso, in un campanello di novità. In un'umida serata primaverile, però, a bussare alla porta di casa è soltanto Arturo e non preannuncia alcunché di buono.
Infatti, Irene sembra scomparsa nel nulla.
Senza un messaggio, una telefonata, una lettera, un post-it: niente.
Nella vita caotica e confusa di Clara, ancora intenta a ricomporre i pezzi della propria esistenza, la questione passerebbe in quarto piano, ma l'insistenza di Arturo la porta a cedere.
Imbarcatasi quindi in un'assurda avventura ai confini del reale, del mondo concreto e conosciuto, alla disperata ricerca dell'ex coinquilina ed amica, Clara sarà costretta a mettere in discussione la fredda razionalità che l'ha finora guidata.
Se c'è qualche possibilità di salvezza o redenzione, per sé e per Irene, dovrà cercarla dall'Altra Parte.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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3. Il mostro sotto al letto 
 
I Parte
 
 
 
 
Padova di prima mattina era uno scrigno di brina e perle d’acqua.
Lacrime di pioggia irrealizzata colavano lungo il finestrino, nei profili degli alberi e agli angoli delle strade, rendendo il paesaggio un acquarello, composto solo di grigi e sfumature sbiadite.
Le facciate vivacizzate degli edifici, rincorrentesi nel viaggio in automobile, erano sbavature dello sfondo.
Ogni volta che metteva piede a Padova, Clara sentiva resuscitare dentro di sé uno sciame di ricordi di cui avrebbe volentieri fatto a meno.
C’erano il sapore di latte rancido attaccato alla gola, le temperature che sfioravano lo zero e le corse infinite sul pulmino che, ogni mattina per almeno cinque anni, l’aveva trasportata dalla periferia della sua remota “Atlantide” fino a lì.
C’erano poi i tragitti di ritorno, in solitudine, con il libro di matematica incollato alle gambe e i sussulti continui del sedile; pomeriggi interi spesi nella cappa afosa che era l’aria viziata del veicolo, a sperare che il futuro le riservasse qualcosa di meglio di un semplice andirivieni di persone sconosciute, luoghi anonimi, ampi spazi che non simboleggiavano un bel niente nella sua esistenza. Allora si ripeteva mentalmente che un giorno avrebbe aspirato il mondo a pieni polmoni, e non attraverso un finestrino semi-bloccato; curioso scoprire come, poi, la sua vita fosse tornata ad un punto di partenza identico, come a voler chiudere un cerchio, che di sacro o rituale non possedeva nulla.
E, infine, c’erano i minuti contati sulle dita, a Padova. I minuti e le ore che scorrevano a rilento, dietro il banco scolastico del suo vecchio liceo, a sonnecchiare addossata al muro, lottando contro le lame di luce al neon che, dal soffitto, attaccavano gli studenti ignari.
Sebbene negli anni ci avesse ricamato molti altri ricordi, attorno a quella città – ricordi entusiasti, scoppiettanti, di notti trascorse in compagnia dei suoi amici più stretti – non era mai riuscita a scrollarsi di dosso quella sensazione di soffocamento; sensazione che si riproponeva tuttora, più intensa che mai.
Quell’agonizzante senso di apnea si era affacciato a metà strada, mentre al volante cercava di scorgere i primi segnali per l’uscita verso Padova, solidificandosi mano a mano che si riducevano i chilometri rimanenti. Una volta arrivati nella cupola di nebbia, era come se vi fossero rimasti invischiati, ingabbiati dentro, senza possibilità di salvezza.
Fortunatamente, la zona in cui risiedeva il loro amico costituiva una specie di microclima a parte.
Nicola condivideva da anni l’appartamento con un paio di coinquilini, che lentamente aveva imparato a tollerare. Prendere l’intero pacchetto – locale per tre persone, con aggiunta di due sconosciuti – era stato un alto rischio per la quiete a cui teneva tanto, ma aveva accettato l’offerta a scatola chiusa, pur di ritagliarsi uno spazio fuori dall’ambiente familiare.
Avrebbe potuto definire “amici” i due coetanei che occupavano le altre camere da letto e sparpagliavano involucri di cibo, insieme a spazzatura varia, per il salotto, ma Nic non possedeva un simile termine nel proprio vocabolario.
«Per me sono come delle presenze che si aggirano nella casa», aveva detto una volta con nonchalance.
Quando Irene gli aveva fatto notare che pareva stesse parlando di defunti, lui aveva liquidato la faccenda con una scrollata di spalle. «Finché pagano l’affitto, possono essere quel che vogliono. Anche il demonio in persona.»
In realtà, a Clara, le poche volte in cui li aveva incontrati, erano sembrati dei comunissimi ventenni – magari con qualche carenza a livello di capacità relazionali, ma abbastanza affini all’animo di Nic.
«Ci siamo», le aveva comunicato Arturo sul pianerottolo.
L’interno quindici non presentava alcuna targhetta identificativa, come se, oltre la soglia, avrebbero trovato ad attenderli una sorta di terra di nessuno.
Non era poi così lontano dalla realtà.
In risposta all’eco del campanello, propagatosi nell’appartamento in una serie di scatole cinesi, la voce di Nicola che li aveva raggiunti attraverso la porta: «Avanti. È aperto».
Clara ricordava vagamente una sottile mancanza di rispetto delle norme igieniche, da parte di Nic e dei suoi coinquilini, ma ciò che l’aveva accolta, all’interno, era un vero delirio.
La moquette era tappezzata da pozze multicolori di calzini spaiati, ammucchiati dove capitava assieme a pagine di giornale accartocciate; alcune scatole di fazzoletti vuote ingombravano banconi e tavolini, mentre il loro precedente contenuto abbelliva divano, televisione, lampade… tutto ciò che potesse essere contaminato. Gli scarti della cena cinese, ammucchiati nel salone, le avevano ricordato lapidi di carta.
Avevano trovato i loro ospiti davanti al televisore, intenti a concludere una partita di Mario Kart.
Bobo e Chiozza, sentinelle ai due lati di Nicola, urlavano e inveivano gli uni contro gli altri, srotolando un elenco di bestemmie lungo quanto la Bibbia ed aggiungendovi, di tanto in tanto, variazioni creative, secondo il loro gusto. Nicola si ergeva sulla pila di cuscini che avevano adagiato sul pavimento, sporgendosi verso lo schermo della tv come a volerci entrare dentro, mentre stringeva al petto il controller, divenuto ormai una protesi del suo corpo.
Clara si era trascinata dietro il proprio borsone, aiutando anche Stecca con i suoi bagagli.
«Ma no, prego, restate pure comodi.»
Per tutta risposta, Nicola l’aveva zittita, sventolando il joystick come sul punto di lanciarglielo addosso.
Tra le grida generali, era emerso un: «Guarda quel maledetto di Yoshi!»
A quel punto, anche Nicola era scattato in piedi, urlando: «Tiragli il guscio azzurro! IL GUSCIO AZZURRO!»
Lo schermo, diviso in più parti, catturava gli ultimi attimi della corsa sfrenata verso il traguardo – lo striscione della vittoria già visibile all’orizzonte – con l’alter-ego di Chiozza che eseguiva un sorpasso, cinguettando con voce trionfante. Un altro personaggio era stato tramortito da una buccia di banana, intrappolato ora in un loop di giravolte su se stesso.
Clara si era piazzata accanto al trio, a braccia conserte, rendendosi conto solo in quell’istante dell’insolito silenzio di Stecca. Da quando erano partiti, non aveva fiatato più del necessario, richiuso nel guscio del sedile accanto al suo, senza un commento, una battuta, un aneddoto che lei avrebbe eclissato come irrilevante. Perfino il notiziario della radio l’aveva sorpassato alla stregua di semafori e guardrail che sfrecciavano nel riflesso dello specchietto.
Divisa tra il tacere e l’interrogarlo sulla questione, Clara aveva trovato salvezza nell’urlo bestiale di Chiozza.
«Vi ho stracciati, cazzo! Vi ho stracciati», aveva esultato, saltando su di una sedia e battendosi il petto a mo’ di gorilla. «King Kiozza!»
E se Bobo non si era rassegnato alla sconfitta, mugugnando altre bestemmie sottovoce, Nicola invece aveva provveduto a spegnere l’apparecchiatura e ribadito che non era una vittoria meritata.
Finalmente, si era deciso a considerare i nuovi arrivati.
«Ragazzi,» aveva sorriso piazzando ad entrambi una mano sulla spalla, «come state?»
Il volto di Clara era rimasto per qualche secondo impassibile, salvo poi sgretolarsi in un’ondata di rabbia.
«Male! Questa città è uno schifo.» Poi, gettando un’occhiata in giro: «Questa casa è uno schifo».
«Anch’io sono contento di rivederti, Clara.»
 
 
 
Li aveva sistemati in camera propria.
Bobo e Chiozza avrebbero condiviso la stanza del primo, mentre Nicola si sarebbe adattato al divano-letto. La proposta, però, era stata bocciata da Stecca, impuntatosi sulla sua occupazione del divano. Dal momento che era un ospite, diceva, toccava a lui il posto più scomodo.
Nic l’aveva scrutato a metà fra il divertito e l’allibito: «Ma cos’è? Il Manuale delle Giovani Marmotte?»
Clara si era limitata a scrollare le spalle, invitandolo a glissare anche su quello. C’erano questioni più rilevanti di cui discutere.
Gli altri due inquilini erano usciti da poco, ma Stecca aveva insistito perché Nic chiudesse comunque la porta, isolandoli dal resto dell’appartamento. L’avevano accontentato.
Clara se ne stava in contemplazione del nuovo assetto conferito alla stanza.
Poster dei System of a Down avevano fatto la loro strada fin sulle pareti, ritagliandosi degli angoli accanto a quelli di film d’animazione, polaroids ingiallite che ritraevano fasi d’eclissi lunare, il disegno in bianco e nero di uno scheletrico fenicottero – poteva benissimo essere appena uscito da un film di Tim Burton – e trecce di luminarie spente.
«L’hai riarredata, eh?»
Nicola lanciò uno sguardo al manifesto degli Iron Maiden, quasi del tutto nascosto dai recenti acquisti.
«Eh, già», annuì, notando subito dopo gli indumenti rigurgitati dalla cassettiera, in corrispondenza del poster.
L’idea di richiudere i cassetti lo sfiorò e abbandonò in meno di un secondo.
Si accomodò piuttosto sulla trapunta, accanto a Clara, arrotolando alla bell’e meglio le lenzuola.
Nic non era cambiato di una virgola: sempre la solita aria sciatta, la barba un po’ incolta e le camicie scozzesi extralarge che avrebbero potuto fargli da vestito intero.
Si conoscevano dai tempi del liceo, quando con Irene, Sienna e Tommaso formavano il nucleo indivisibile della comitiva. Stecca, che era una new entry al confronto, ci aveva legato subito, trovando in lui un fan sfegatato di fumetti e videogiochi.
«Allora, a cosa devo la piacevole visita?»
«Stecca non ti ha detto?»
Nic aggrottò la fronte. «Mi ha parlato di un’emergenza.»
«Una specie», assentì l’altro, intento a scrutare gli oggetti che ingombravano la scrivania. Delle custodie di videogames, presumibilmente vuote, avevano attirato la sua attenzione. Sollevò la scatola plastificata raffigurante quello che sembrava un gladiatore romano, con la restrizione ai soli maggiorenni inquadrata in un angolo, al termine di una lancia.
«Siamo qui per Irene», spiegò Clara. «Tu l’hai più vista o sentita nell’ultimo periodo?»
Il ragazzo scosse il capo. «Non la sento dallo scorso mese, credo. Perché?»
«Secondo Stecca è irreperibile da circa una settimana. Si è preoccupato.»
«Ma no, Arturo», lo tranquillizzò Nicola. «Irene ha dei momenti di ritiro, come una cosa spirituale. Le serve per ricaricare le batterie.»
Clara, ascoltando quelle stesse parole dall’amico, si sentì rassicurata. Era l’identico pensiero che aveva espresso lei, la sera dell’arrivo di Stecca, eppure nelle ultime ventiquattr’ore qualcosa, nel suo animo, si era incrinato, lasciandola scivolare verso scenari più catastrofici.
L’inquietudine venne distesa insieme alle pieghe del letto.
«Quel che ho detto anch’io», confermò.
Stecca li guardava entrambi con un’espressione incomprensibile. Gli sembrava di trovarsi davanti a due ragazzini ingenui, oppure a dei perfetti idioti. Tenne quella riflessione per sé, consapevole che avrebbe solo innescato una sterile discussione.
Uno spiraglio di luce si era fatto spazio attraverso una crepa tra le nubi, colpendo in un bagliore la finestra.
Che fosse tutto inutile?
Il suo impegno, la sua partenza improvvisata, l’imbucata a casa di Clara, il viaggio in auto fino a lì, il proprio trolley che soggiornava nel salotto di Nicola, un carico di speranze che si era portato dietro nella disperazione di un tentativo, un unico tentativo. Voleva solo saperla sana e salva, al sicuro.
Ma in fondo, sapeva di essere un semplice codardo.
Avrebbe potuto optare per la scelta più ovvia, anziché montare un caso attorno al silenzio che Irene gli aveva opposto; prendere la strada più veloce, quella che lo avrebbe condotto sotto il palazzo di Irene, anziché a pregare, come un bastardo, alla porta di Clara. E invece no, si erano arenati lì, i suoi sforzi. Ad una dannatissima serata in centro.
Se solo Irene non gli avesse detto quelle cose, se solo lui non avesse…
«È sparita», rispose asciutto. «Voglio solo la certezza che stia bene, che non le sia accaduto nulla di orribile.»
«Perché mai dovrebbe esserle capitato qualcosa, Stecca?»
Clara aveva riacquistato il solito baluardo di razionalità. La storia della nonna, ora, iniziava a leggerla sotto un’altra luce, facendola incastrare perfettamente nella sua ricostruzione mentale: Irene portava ancora su di sé i segni del recente lutto, per quello voleva starsene da sola. L’ultima cosa di cui aveva bisogno erano le loro sciocche indagini.  Sarebbero risultati d’intralcio, un ingombro inutile e deleterio.
L’idea di telefonare alla madre, di coinvolgere il signor Zanetti, le apparvero assurdi.
Come avevano potuto anche solo pensare di introdursi nell’abitazione di un’anziana – oltretutto defunta – per immischiarsi in faccende familiari che non li riguardavano?
Si era lasciata trascinare dall’isteria di Arturo, perché era stanca, perché era stressata, perché ancora le bruciavano sulla pelle i postumi della serata trascorsa con Robert e avrebbe fatto di tutto pur di scacciare quei ricordi.
L’aveva trascinata fino a Padova, ma adesso Stecca doveva smetterla con quelle assurde teorie complottiste.
«Allora,» Nicola scrutò prima l’uno poi l’altro, prudente, «siete venuti solo per una gita?»
«Sì», annuì lei. «Anzi, non solo.»
Estrasse dalla borsa una busta bianca, che porse ai ragazzi.
Nic la rigirò sottosopra, controllando la scritta sul retro. Qualcuno vi aveva impresso, in una perfetta grafia in corsivo, il nome della destinataria, contornato da ghirigori e svolazzi eccessivamente pesanti.
Dalla busta spuntarono dei biglietti: erano due ingressi liberi per un concerto di musica classica, presso il Teatro Stabile di Padova con scadenza fissata al termine della stagione.
«Me li avevano regalati l’anno scorso, per il compleanno.» Un sospiro le sfuggì dalle labbra, rapido e incontenibile. «Sarei dovuta andare con…»
Clara si rialzò in piedi, scrollandosi dai jeans delle finte sporcizie invisibili.
Non c’era bisogno di specifiche ulteriori. L’immagine del presunto accompagnatore era vivida nelle menti di tutti i presenti.
«Era per non sprecare l’occasione.»
Nicola ci rifletté pochi istanti. «D’accordo.»
«D’accordo?»
Anche Stecca si unì alla perplessità generale, dal suo angolo di ritiro.
«Ci andiamo», ribadì Nic con calma. Passò in rassegna il contenuto del proprio guardaroba, considerando che non l’avrebbero mai ammesso in tenuta sportiva, pantaloni stracciati e magliette scure con fotografie di band impresse sopra. «Anche se penso di non avere un vestito adatto.»
Si diresse in cucina, a recuperare il portatile. «Vediamo cosa c’è in programma, stasera.»
Clara lo anticipò. Aveva controllato la scaletta già a casa, prima di mettersi alla guida.
La busta con i biglietti era rimasta per mesi incastrata in uno degli scomparti del comodino, dimenticata per la maggior parte del tempo, terribilmente presente nel rimanente.
Specialmente nelle serate in cui si gettava sotto alle coperte, distrutta, desiderando solo di rimanere al letto con il proprio portatile e una serie tv a distrarla dal caos del reale, quella dannata busta si ripresentava. Allungava una mano gelida, crudele, fino al suo petto, costringendole il miocardio in una morsa dolente. “Sola”, le ripeteva, “sei tutta sola, Clara”.
Per decidersi a portarla con sé, tra volere e disvolere, aveva impiegato una dozzina di minuti.
Prenderla avrebbe significato concederle potere, renderla più reale di quanto già non fosse; ma lasciarla lì, un’occasione sprecata, a ricordarle in futuro della propria debolezza sarebbe stato di gran lunga peggio.
Così l’aveva cacciata in fondo alla borsa, dando uno sguardo rapido al programma del Teatro Verdi, dal proprio cellulare.
«Mozart», disse. Un sorriso amareggiato le increspò le labbra. «Il suo preferito.»
 
 
 
 
 
*    *    *
 
 
 
 
«Io non vengo.»
Arturo era stato lapidario al riguardo. Inutili i tentativi di convincerlo, inutile l’offerta di comprare cumulativamente un terzo biglietto per non dividersi, inutile l’ironia di Nicola su quanto si prospettasse avvincente la serata che li aspettava. Inutile, tutto inutile. La cocciutaggine di Arturo si era incagliata su quelle tre parole e, come per la questione del divano-letto, non vi era modo di smuoverlo dalla sua posizione.
Li aveva accompagnati in cerca di un completo per Nicola, aveva consumato una spremuta insieme a loro ad un locale che i suoi amici frequentavano da adolescenti, aveva contribuito perfino alla spesa per l’affitto dell’abito, ma, alle otto in punto, si era dissociato dal trio.
«Va bene,» aveva concesso Nicola scherzosamente, «vuoi goderti Padova by night. Evita soltanto di perderti e di finire in qualche casino. Okay?»
L’altro aveva sorriso, lì per lì, ma nella battuta non trovava alcunché di divertente; men che meno ora, che se ne stava assorto davanti alla basilica di Sant’Antonio, con la facciata per metà obliata dalle impalcature per i lavori di ristrutturazione in corso.
Di arte ne aveva capito sempre poco, eppure la monumentalità dell’edificio, quel rosone a forma di margherita che sembrava un occhio ciclopico, fermo ad osservarlo – a condannarlo – lo lasciavano senza fiato. La statua del santo, incuneata nella nicchia sopra il portone principale, custodiva chissà quanti segreti.
Segreti di gente che giungeva in pellegrinaggio, di passanti transitori come quelli che anche ora tagliavano la piazza in sella alle loro bici; conosceva i segreti diurni e notturni della città, del mondo, perfino dell’ignoto.
Un gruppo di ragazzi stava costeggiando il perimetro dello spiazzo; incatenati gli uni agli altri, costituivano una montagna di cappotti scuri e capelli.
La risata di una delle sconosciute scoppiò nell’aria, esplodendo in una miriade di frammenti, alcuni dei quali sfiorarono il collo di Arturo, strappandogli un brivido. Era identica alla sua, a quella di Irene.
Si voltò di scatto, bruciato dalla rivelazione, convinto di trovarla lì, davanti a sé.
E in effetti, la ragazza non aveva preso in prestito solo la risata, ma anche la capigliatura sbarazzina di Irene, quella ingarbugliata matassa di capelli scuri, che profumava sempre di shampoo all’ibisco.
Avvertì una stretta al petto, una contrazione involontaria che risucchiò l’aria circostante.
I ricci confusionari di Irene, morbidi, serici, che si snodavano sul giubbotto che indossava quella sera… l’ultima volta che l’aveva vista. Ricordava il triangolo del maglioncino color lilla che spuntava da sotto la zip del cappotto in similpelle, il riflesso spezzato dell’insegna al neon del bar, restituito dall’unico orecchino che portava. Eppure, più di ogni cosa, ricordava quel profumo, quella semplicissima fragranza di fresco, di pulito, di fiori e libertà, che lo avvolgeva dalla sedia metallica su cui Irene era sprofondata.
Si era smarrito, poi, nel cercare sul viso della ragazza quella libertà, quell’ideale di intatta purezza e gioventù, che portava indosso, legato al polso insieme al suo braccialetto di perline.
No, non aveva trovato niente di puro, giovane, fresco, in quel volto. Non c’era niente di… sano.
Mentre annientava l’illusione con l’odore di nicotina, consumando l’ennesima sigaretta della serata, Irene espirava rumorosamente, incatenando anelli di fumo concentrici tra di loro.
Seguiva un proprio disegno mentale, sorridendo come una bambina davanti al risultato ottenuto.
Arturo ricordava che i suoi lineamenti, aggraziati e fanciulleschi, erano sfioriti: la mandibola risucchiava le guance, gli occhi colavano, in una pioggia di mascara, verso labbra avvizzite; le mani, avvinghiate al pacchetto di sigarette, tremavano, così come anche le gambe.
Quel gesto, quel movimento convulso della caviglia sotto al tavolino, che si protraeva finché i loro amici si divertivano a fare i buffoni in strada, lo aveva turbato.
Ne era rimasto inquietato, perché Irene rideva, si sganasciava dalle risate sopra al tavolino; portava in avanti la chioma avvenente – il suo punto forte, come lo definiva lei –  liberava una scarica di risa e poi, con uno scatto felino, gettava il capo all’indietro. Era estasiata dallo spettacolino che stavano inscenando.
Sotto al tavolo però, quella gamba traballava.
Il tremito, l’impazienza che scandiva il tempo, lo centellinava come se vi fosse qualcosa di più urgente di cui avrebbe dovuto interessarsi.
Anche il bicchiere di birra, con lo stampo del suo rossetto, agonizzava, per metà pieno; il mozzicone di sigaretta riluceva tra le dita, consumate da detersivo per piatti. Dal momento che al tavolo erano rimasti solo loro due, si era fatto coraggio.
«Ire,» una schiarita di voce, «forse è il caso di rallentare con quelle, eh?»
Con un cenno del mento aveva indicato le Malboro che stritolava in un pugno.
«Mh?»
Accortasi dell’involontario soffocamento, aveva allentato la presa e nascosto il pacchetto in tasca.
«Ne ho fumate un paio, tranquillo.»
Gliel’aveva detto con serenità, con il tono tinto dall’ilarità suscitata dal resto del gruppo. Le sapeva servire bene, Irene, le menzogne.
Lo sguardo di Arturo era scivolato sul bicchiere dorato. Involontariamente, quasi per caso.
Il movimento non era, tuttavia, sfuggito all’altra. La mano era slittata attorno al vetro appannato, comprimendolo con forza. «La finisco», gli aveva comunicato, più fredda.
«È che, forse, sarebbe meglio evitare. Che dici?»
«Non sono ubriaca.»
«Lo so, lo so», si era affrettato a chiarire. Il modo in cui gli si era rivolta, lo aveva mortificato. Uno schiaffo verbale. «Non intendevo dire che…»
«Cosa volevi dire allora?» Lo aveva interrotto.
Gelida, tagliente, lo sguardo inchiodato sempre nello stesso punto. Non stava più controllando il progresso dei loro amici. Li guardava, senza assegnare alle mosse delle sagome sullo sfondo alcun significato: erano divenuti fantocci contro la parete del bar, a strofinarsi sull’edera e a dispiegare un ventaglio di gesti senza senso. «Volevi insinuare che non sono padrona di me stessa. Non è vero, Stecca?»
«No. Assolutamente no.»
«Solo perché hai visto qualcosa che non avresti dovuto vedere», aveva proseguito Irene, assaporando ogni parola della propria invettiva, «non puoi pretendere di sapere tutto. Conosci qualcosa, non tutto
Sembrava angosciarla particolarmente quella distinzione. Doveva ribadirlo, sottolinearlo con una matita scura, fino a scavare nella pagina, fino a distruggere il lembo di carta, aprendovi un buco.
La parte e il tutto: non erano concetti che Arturo capiva alla perfezione? Lui e la sua sciocca laurea in Fisica.
Lo aveva ripetuto almeno tre o quattro volte, prima che l’altro riuscisse a sollevare un’obiezione.
«E quel che hai visto,» aveva ripreso con accanimento, «non significa niente.»
«Lo so, mi dispiace se ti ho in qualche modo offesa, ma…»
Si era voltata a guardarlo, a fronteggiarlo direttamente con uno sguardo ricolmo di odio. «Erano cose private.»
A quel punto, il cervello di Arturo aveva smesso di funzionare, nonostante la rabbia, la preoccupazione, il timore di averla ferita in maniera irreversibile. Non era stato in grado di produrre altri suoni.
Poi, si erano susseguite altre bevande, altre sigarette, qualche superalcolico, il solito tavolino di metallo, un bignè alla crema ordinato da Gigi, il numero di telefono di una sconosciuta lasciato ad un altro giovane della comitiva.
Quel silenzio aveva resistito fino alla conclusione della serata. Irene era tornata la stessa di sempre.
Il pacchetto di Malboro, l’aveva terminato e gettato in un bidone, lì vicino.
Ricordava ancora le ultime parole che si erano scambiati, prima che lei salutasse gli altri e si avviasse verso il proprio appartamento. L’aveva trovata bellissima, anche così. Anche inaridita da qualcosa che non riusciva a spiegarsi, qualcosa di più grande di tutti e due, che la divorava goccia dopo goccia, di sigaretta in sigaretta.
Rimaneva la stupenda ragazza che aveva conosciuto, attraverso dei conoscenti, in università, intrappolata in una ragnatela di riflessioni. Irene giocava su una scacchiera in bilico, mosse e contromosse continue, in una partita tra sé ed un’altra parte di sé.
Le si era avvicinato, per parlarle a bassa voce, così da non farsi udire dagli altri. Non avrebbero capito.
«Ire, vuoi fermarti da me, stanotte?»
«Perché?»
Irene lo aveva guardato con ingenuità. Le enormi iridi da bambina, imbrattati dal trucco sfatto, rilucevano sotto alla campana elettrica del lampione.
«La tua coinquilina è partita.»
«Stecca,» gli aveva lasciato una carezza sulla guancia, «smettila di preoccuparti per me.»
Lui aveva scosso la testa, deciso. «Sai che ci tengo… a te, intendo.»
«Sì. E sai come la penso, al riguardo.»
Riflessiva, il suo sguardo aveva indugiato sul brecciolino per qualche attimo, prima di incontrare il suo. «Per questo, ti prego, non dire qualcosa di cui potremmo entrambi pentirci.»
Aveva salutato tutti, un bacio frettoloso per ciascuno. Quando era toccato a lui, si era fermata a ripulirgli dal mento dell’inchiostro con cui si era sporcato nel pomeriggio, in biblioteca.
«Ci vediamo presto, Stecca.»
Ma non l’aveva più rivista.
 
 
 
 
 
 
*    *    *
   
 
 
 
 
«Che Mozart fosse il suo preferito non mi stupisce per niente.»
Clara sollevò un sopracciglio, ironica. «Ah, davvero?»
Nicola si sistemò meglio sulla poltrona accanto alla sua. «Certo. È così pretenzioso.» Dopo una piccola pausa, aggiunse: «Come lui, dopo tutto».
«È arrivato l’esperto musicale», lo provocò lei.
Nonostante dovesse concordare sull’indagine psicologica, era contraria all’etichetta utilizzata. Lei, un tempo, aveva condiviso quei gusti musicali e trovava irresistibile il modo in cui lui si dilettava a scegliere i dischi da farle ascoltare, nelle serate di pioggia trascorse in appartamento.
«Capisco poco di classica,» concordò Nicola, «ma conosco fin troppo bene i tipi umani. E il tuo ex era arrogante ogni oltre limite.»
«Va bene, va bene. Era un pochino presuntuoso.»
«Era uno stronzo: ecco cos’era.»
Clara assentì, concentrandosi sul presente.
Quando le sarebbe ricapitata l’occasione di sedere in un palco riservato del Teatro Verdi?
In verità, non aveva mai provato l’ebrezza di assistere da spettatrice ad un concerto di classica o di avere un palco tutto per sé. Era il genere di lusso di cui non sentiva un impellente bisogno.
Quanto le era piaciuto, però, mostrare il suo biglietto all’ingresso e farsi accompagnare fin davanti alla porticina che immetteva sul loro balconcino. Le sembrava di trovarsi nello scompartimento di un treno, con la riservatezza e l’intimità del luogo, ma giusto un paio di differenze: la scomodità di quelle poltroncine fiammeggianti e l’accecante brilluccichio del suo vestito. Non si metteva così in tiro da capodanno.
Lo shock più grande, al di là della bellezza del teatro, dell’atmosfera di seriosa sacralità che si respirava di arcata in arcata, era stato vedere Nicola in un completo blu scuro.
Avrebbe voluto affittare uno smoking, ma a lei era parsa una scelta eccessiva, considerata l’occasione. Sapeva bene con quanta e quale ironia avrebbe condito il proprio ingresso al teatro, se solo lei gliel’avesse permesso.
E forse, in un’altra occasione, l’avrebbe lasciato fare– se non altro come rivincita su alcune signore impellicciate, che credevano di trovarsi alla prima di chissà quale evento epocale -  ma stavolta desiderava fare le cose “per bene”, senza sprecare il regalo ricevuto.
Come se Leandro fosse qui, le aveva suggerito un pensiero intrusivo, scacciato subito dopo.
Ma non c’era un fondo di verità?
Tutta quella serie di rituali, quella serietà da adulti, da gente perbene, da persone colte e raffinate, così distanti dal loro abituale modo di essere – dai loro tipi umani, per citare Nic –  non era volta proprio a quello? Alla costruzione di un universo in cui tutto fosse rimasto intatto, perfetto.
La sua personale bolla di sapone, in cui ricreare il sogno di una vita, che invece era stato spezzato, martoriato, divorato, maciullato, spolpato, rosicchiato fino all’osso.  
Non era per lui? O per il ricordo di lui? Per onorare la memoria del suo sogno, infangato dalla realtà.
Sì, forse un po’ lo era.
Nicola si rigirava il programma della serata tra le mani, senza sapere come dove appoggiarlo. Ogni tanto gettava un’occhiata in giro per deridere un attempato gentleman o la sua consorte, una pomposa matrona di passaggio.
«Oh, guarda», commentò da una lettura della brochure, «sinfonia quaranta in G minore.»
Clara gli si accostò, seguendo il tracciato del suo indice.  «Allegro assai», recitò.
«Ti dice qualcosa?»
«Assolutamente no», ammise lui, strappandole una risatina. «Probabilmente ci saranno tanti archi.»
L’altra sghignazzò: «È il tuo pronostico?»
«Esatto. Bollettino della serata: si prevedono tanti archi sparsi.»
Nel pomeriggio, quando si erano aggiornati sugli eventi delle reciproche esistenze, e anche poco prima, in attesa di entrare nel teatro, Clara aveva descritto il suo ultimo periodo come una frana emotiva.
Adesso a Nic era tornata in mente quella definizione, incuriosendolo di nuovo.
«Questa serata tampona la tua frana emotiva?»
Lei ci rifletté per qualche istante. «Musica classica, teatro chic e settantenni che mi squadrano come se potessi contaminarli con la lebbra», ricapitolò. «Diciamo che si colloca in cima al crollo.»
«Ottimo.»
«Veramente, Ni?»
Il ragazzo annuì con vigore. «Certo. È un passo in avanti.»
«Beh, rispetto a Robert l’Impavido, qualunque cosa può esserlo.»
Lui stava per chiedere ulteriori approfondimenti, ma venne interrotto dalla voce registrata del teatro, pronta ad introdurre la serata e a raccomandarsi di silenziare o spegnere i cellulari.
Poco dopo, le luci in sala vennero smorzate con delicatezza e il sipario lasciò il posto a puntatori luminosi, aureole attorno al capo dei musicisti già in posizione.
Nicola le diede una piccola gomitata, mimando con le labbra: «Guarda il maestro».
Il direttore d’orchestra entrò a passo veloce, prendendo possesso della scena con la naturalezza di una prima attrice. La sua comparsa doveva portare l’età media dei presenti in sala sulla sessantina. Per quanto incravattato, stretto in un corpetto che lo imbalsamava in una posa innaturale, il maestro appariva sveglio e arzillo. Avrebbe potuto prenderlo sul serio, non fosse stato per quella specie di puzzola morta che calcava in testa.
Clara si portò una mano alla bocca, trattenendo un sorriso. Nicola stava insistendo a bisbigliare: «Sembra uno degli animali impagliati di Psycho».
In breve, le sue parole vennero sommerse dalla mareggiata di musica e Mozart si impadronì delle loro menti, trasportandoli in un’altra dimensione. Clara sentì che il buio del palchetto, intorno a sé, stava assorbendo gli spiacevoli ricordi di Robert e qualunque altro elemento d’intralcio alla sua serenità.
Per un’ora o due, poteva concederselo.
L’impalcatura costruita dal suo cervello e lo scudo musicale resistettero, tuttavia, per appena quarantacinque minuti. Quando la sinfonia numero quaranta in G minore, l’Allegro Assai, la colpì, tale e quale ad un pendolo di memoria, le sue difese traballarono.
Con la coda dell’occhio, notò che Nicola era stranamente attento a ciò che accadeva sul palco – forse per accertarsi che l’abbondanza di archi, da lui prevista, si realizzasse prima o poi. Tra la sua sedia e quella dell’amico si contavano pochi centimetri di distanza, ma in tutta quell’oscurità Clara ebbe la sensazione che si fosse aperta una voragine intera, a dividerli.
Il palco-scompartimento le appariva più stretto, impacchettato. Claustrofobico.
Vedeva le mani dei violinisti muoversi, rapide, simili a ragni, sugli strumenti; il profilo del direttore si stagliava contro la platea di ombre e respiri, che gli fasciavano le spalle.
Clara si chiese chi fosse seduto alla base del palco, davanti alla cassa toracica di legno che sosteneva i loro intrattenitori. Provò ad immaginarsi qualche volto incipriato, l’ennesimo spettatore snob, senza rendersi conto di aver perso la presa sulle note musicali.
La sinfonia cresceva nel teatro, lievitava di secondo in secondo, ma tutto ciò che la interessava rimaneva quel dannatissimo volto in prima fila, l’individuo costretto a sorbirsi la schiena del maestro d’orchestra – e la sua meravigliosa puzzola – per due ore.
E, d’improvviso, la sua memoria fece un doppio salto mortale all’indietro.
Indietro nel tempo, nei ricordi, nei mesi.
Si risvegliò nel proprio letto, nel vecchio appartamento che divideva con Irene, a Roma.
Un urlo l’aveva strappata al sonno, di per sé abbastanza leggero.
Per un minuto o due, rimase completamente immobile, in balia delle lenzuola e del sottile filo di sudore che le incorniciava la fronte. Con lentezza, scricchiolio dopo scricchiolio, stava riacquistando possesso dei propri arti indolenziti, intorpiditi dal materasso scomodo.
Se la prendeva comoda, stiracchiandosi, roteando il polso, controllando la cifra impressa sulla sveglia analogica. Le 3:05 del mattino.
Chi poteva urlare alle tre del mattino? Doveva esserselo sognato.
Come a leggerle nel pensiero, mentre si rigirava su di un fianco e abbassava le palpebre, un secondo urlo – ben più chiaro e acuto del precedente – trafisse la notte. Gli occhi si aprirono di scatto.
Clara si rovesciò dal letto, cuscini e coperte che ruzzolavano sul parquet e la inseguivano, per poi raggiungere la camera di fronte alla sua, a piedi scalzi.
L’aria fredda e il contatto con il pavimento le assestavano ghiacciate scariche elettriche, lungo la spina dorsale. Affrettò il passo. Spalancò la porta.
Irene era sveglia, raggomitolata contro la spalliera, per metà riparata dalle lenzuola. Aveva indosso la solita maglietta azzurra che d’estate utilizzava come pigiama; l’avevano comprata insieme ad una svendita e, non appena individuatala, si era elettrizzata per il motivo della t-shirt, che ricordava quella di una squadra di hockey americano.
Ampie chiazze la irrigavano, ora, completando un quadro di disperazione: il sudore le impregnava collo, fronte e capelli, attaccati alle guance come alghe.
«Ire, cos’è successo?»
La raggiunse con apprensione, spalmandole un palmo proprio sulla fronte, per verificarne la temperatura: marmo. Era più fredda del pavimento su cui aveva corso poco fa.
Dapprima, Irene non fu in grado di fornire una spiegazione logica.
Tremava e continuava a tremare, respingendo le sue mani, che cercavano di tranquillizzarla.
Semplicemente assecondava quel tremore, quasi fosse stato parte di sé, seguendo una musica che veniva riprodotta nella sua mente. Quando i singulti si ridussero, riuscì a parlare.
«I… i… il letto.»
«Cosa?»
Clara setacciò l’ambiente attorno. La camera era un acquario di blu, bianchi e violetti. L’armadio, gigante silente addossato alla parete frontale, respirava a fatica tra il termosifone e la specchiera di Irene.
Nel riflesso, due giovani adulte spettinate, con le gambe acciambellate sul letto.
«S-s-s-sotto il letto.»
Clara la guardò fissa negli occhi, cercando di comprendere. «Sotto il letto?»
L’altra aveva digrignato i denti, esasperata dalla stoltezza dell’interlocutrice. Le sembrava di affermare verità incontrovertibili, che si aspettava fossero note anche a Clara.
«È sotto il letto.»
«Chi?»
«Non lo so. È… qualcosa.»
Clara aveva aggrottato la fronte: «Hai sognato, Ire. È stato solo un incubo».
«No.»
Irene tirò un cuscino a sé, abbracciandolo con forza. Si dondolava sul posto, al tempo stesso paralizzata all’idea di poter compiere qualunque altro movimento, come accendere la luce o abbandonare il suo rifugio.
«Mi c-c-c-chiamano. Di continuo. La notte.»
«Chi ti chiama?»
La ragazza si strofinò il viso, asciugando via del muco con la manica. Seguiva con gli occhi un suo percorso, saettando da un punto all’altro dell’ambiente.
«Loro mi… mi… cercano.» Si assicurò con un’occhiata che l’amica le credesse, ma rimase delusa. «S-s-s-sono degli… Non so cosa sono, ma uno di loro è qui sotto. Proprio qui sotto al letto.»
«Ire, non c’è niente sotto al letto.»
Mentre recitava quelle parole, Clara si sentì una pessima attrice dentro un film dell’orrore. Chissà quante volte erano capitati a lei, da bambina, incubi simili; era scappata nel letto matrimoniale dei genitori, cercando rassicurazione da parte loro. Le ripetevano che si trattava di pura immaginazione, nulla di più; niente di reale, niente di minaccioso. Era al sicuro.
E andava subito meglio, nella coltre di coperte e calore, non più esposta alla fitta incertezza dei suoi incubi.
Probabilmente, per Irene era stato lo stesso. Un’indigestione, qualche preoccupazione eccessiva, niente di più.
«Ire, non c’è alcun pericolo. Era un incubo, ma è finito.»
Si avvicinò alla sponda del letto, sporgendovisi. Irene le bisbigliò di fare attenzione. 
Accostando il capo alle mattonelle, le fu sufficiente sollevare il lembo della trapunta di pochi centimetri e scrutare nell’ombra, per assicurarsi di avere ragione.
«Stai attenta», ribadì l’amica.
Clara frugò tra cianfrusaglie e polvere, spostando di lato un paio di box e recuperando delle matite che erano rotolate lì casualmente, chissà quanti mesi prima. Al termine della ricognizione, riemerse con un sorriso debole. «Visto? Non c’è niente là sotto.»
Cinse il viso della ragazza con entrambe le mani, sollevandolo appena. Fronte contro fronte, provò un’ultima volta a rassicurarla, cercando le frasi che aveva interiorizzato da piccola.
Stavolta in un sussurro: «Non c’è niente, Ire. Sei al sicuro».
L’altra appariva più calma – i tremori erano cessati, così come il mordicchiare unghie, labbra, mani - ma non per questo meno convinta della propria teoria. Non voleva dormire, né alzarsi.
Come compromesso, cedette il cuscino, riponendolo al proprio posto.
Clara fece per rimettersi in piedi. «Ti preparo un infuso. Valeriana? Melissa?»
Irene, però, le afferrò un braccio, bloccandola sul posto. La ghermiva come per non lasciarla scappare, nel timore che anche lei fosse solo frutto della sua fantasia e, una volta svanita, dovesse tornare a gestire i propri incubi da sola.
Durò pochi istanti.
Infine, lasciò la presa, sbadigliando: «Camomilla».
Mentre si occupava del bollitore, Clara ripensò quella stretta.
C’era un particolare che non le quadrava, qualcosa che le rallentava il flusso sanguigno nelle vene al solo pensiero.
Irene l’aveva guardata con occhi spenti, iridi fosche. Più che trattenerla e implorarla di rimanere al sicuro, nel fortino del letto, sembrava che volesse piuttosto verificarne la solidità, l’umanità. Come a testare il suo battito. La cosa, il suo mostro sotto al letto la teneva in ostaggio e lei non sembrava determinata a osteggiarlo. Lo temeva troppo, per poter credere di avere una possibilità di vittoria.
Desiderava che Clara rimanesse lì, sopra al materasso, così da ingabbiarla, ma non certo per combattere.
Per morire insieme.
 
   
 
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