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Autore: Old Fashioned    31/12/2019    24 recensioni
Tornano i due poliziotti de "La notte dei Lemming", questa volta alle prese con la magia nel Santo Natale, tra battute dissacranti, imprecazioni, violenza gratuita e qualche sprazzo di reciproco affetto.
Seconda classificata al contest “Calendario dell'Avvento” indetto da Carmaux e Soul_Shine sul forum di EFP, a pari merito con "Da allergia ad amnesia il passo è breve", di leila91
Genere: Azione, Commedia, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'SS'
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Salve a tutti,
per chi l’avesse letta, questi sono i due sbirri ignobili di “La notte dei lemming”, più che mai cinici e politicamente scorretti, data la ricorrenza natalizia.
Chiaramente, chi legge sa già, dati i personaggi, che si prenderanno in giro minoranze, si diranno battute orribili e cose del genere.
Chi non gradisce il genere può benissimo evitare di leggere, la storia è volutamente sopra le righe, ha talvolta i toni della commedia dissacrante e non pretende di essere uno spaccato della società o che altro. Vale sempre il solito discorso: se qualcuno si sente offeso, sappia che anch’io mi sento offeso da un sacco di cose, ma non per questo mi sento in diritto di andare in giro a rompere le balle alla gente. Semplicemente leggo altro e siamo più felici in due.
Per chi invece apprezza il genere: enjoy!







NOTTE D’ARGENTO







Il direttore dell’albergo abbassò la cornetta e chiese: “Se n’è accorto qualcuno?”
Il suo vice scosse la testa. “Nossignore. Gli ospiti sono tranquilli come sempre.” Fece una breve pausa, quindi col tono pacato di chi sta gestendo un piccolo inconveniente di nessun conto, soggiunse: “Ho fatto bloccare l’ascensore che porta alla terrazza con la scusa di una manutenzione e ho messo un paio di uomini sulle scale.”
“Ah, molto bene,” approvò l’altro, “molto ben fatto, così nessuno può capitare là sopra e vedere.” Si alzò e andò alla finestra, sogguardò all’esterno. Svariati piani più in basso, nel piazzale, i parcheggiatori stavano discretamente indirizzando una macchina della polizia verso una zona poco illuminata.
Tornò alla scrivania, emise un sospiro e disse: “Ma tu guarda che razza di sfiga: dopo la faccenda del Mandalay e quella della Stratosphere, doveva capitare proprio qui, quella svitata?”
L’altro si strinse nelle spalle.
“E sotto Natale, poi!” rincarò il primo. “Sotto Natale un problema del genere non ci voleva proprio. Chi è che le ha dato una stanza, a quella? Non si sono accorti che era una svitata?”
“Beh, signore, non è che possiamo chiedere la cartella clinica a tutti quelli che vogliono stare da noi, non le pare?”
“Certo,” replicò il direttore in tono velenoso, “e poi ci troviamo con la squilibrata di turno che vuole farsi fuori saltando dalla terrazza.”
Tra i due calò un silenzio carico di tensione, rotto solo dal fioco squillare di qualche telefono nelle profondità dell’area degli uffici.
Il direttore pensò agli abeti, alle luminarie, ai babbi natale, alle renne e alle tonnellate di palline colorate che aveva fatto acquistare. Aveva voluto fare le cose in grande, eguagliare o magari superare il leggendario allestimento natalizio del Bellagio, che ogni anno attirava frotte di visitatori… e proprio mentre aveva la hall piena di famiglie che scarrozzavano in giro i bambini, arrivava una pazza con la pretesa di rovinare tutto. Rivolse uno sguardo sconsolato al piccolo abete che la segretaria gli aveva collocato all’angolo superiore sinistro del sottomano e sospirò: “Ma che cazzo ho fatto di male nella vita?”
Il vice si voltò a guardarlo. “Prego?”
“Dicevo: che cazzo ho fatto di male, che Dio mi punisce mandandomi questa stronza in piene festività natalizie del cazzo? Lo sai quanto perdiamo, se quella riesce a saltare?”
“Non si preoccupi, signore,” fu la disinvolta risposta, “dalla centrale di polizia fanno venire due esperti.”
Il volto del direttore si accese di un barlume di speranza. “Due esperti?”
“Sì, signore. Sono quelli che nella faccenda della Stratosphere catturarono il capo della setta.”
“Meno male.”
“Sono due che sanno il fatto loro.”
A quel punto squillò il telefono interno. Il direttore sollevò la cornetta. “Sì?”
“Signore, gli agenti sono arrivati,” annunciò la segretaria.
“Li porti qui, ma senza dare nell’occhio.”

Di primo acchito, i due agenti non gli parvero degli esperti, qualunque cosa significasse. Gli parvero anzi due poliziotti normalissimi: tra i venticinque e i trenta, ben piantati, uniforme kaki e giubbotto invernale scuro, pistola, manette.
Ne aveva visti a decine, di poliziotti del genere.
“Agente Schneider,” si presentò il più alto dei due, che sembrava anche il più vecchio. Indicò il collega e aggiunse: “E questo è l’agente Stevenson.”
“Buona sera, signore,” salutò in tono professionale il chiamato, ricevendo in risposta un cenno del capo.
A quel punto, il primo poliziotto chiese: “Qual è il problema, signore?”
Il direttore alzò gli occhi al cielo. “Ho una tizia seduta sul parapetto della terrazza panoramica. Dice che si vuole buttare.”
“Tipico,” considerò Schneider senza scomporsi particolarmente.
“Come vi comportate in questi casi, agente? Mandate gli psicologi? Fate venire un elicottero?” Il direttore fece una pausa, quindi in tono di apprensione soggiunse: “Non farete mica transennare la zona, vero?” E già si immaginava scene di panico, giornalisti che si aggiravano ovunque, gente che abbandonava il suo albergo in favore di posti più tranquilli…
La voce dell’agente interruppe quel fiume di considerazioni angosciose: “Non ce ne sarà bisogno.”
“Davvero? Questa è una bellissima notizia.”
Tranquillo come se stesse parlando del tempo, Schneider disse: “Niente di tutto questo, signore. Quella gente cerca importanza, altrimenti si ammazzerebbe senza fare tanto casino, non le pare?”
A quel punto intervenne l’altro agente: “E quindi, signore, meno attenzione diamo loro, meno saranno interessati a proseguire la loro messinscena.”
“Ah, magnifico,” annuì l’uomo con sollievo. “Si vede proprio che siete degli esperti.”

La terrazza era fredda, appena illuminata dal riverbero delle luci natalizie multicolori. Spirava un vento gelido e carico di umidità.
Accanto alla porta, con i giacconi invernali sopra le uniformi di servizio, due cameriere tenevano d’occhio una terza persona, mantenendosi a rispettosa distanza.
A bassa voce, una di esse spiegò: “È là immobile, non fa altro che ascoltare sempre la stessa canzone.”
Indicò una donna che sedeva sul parapetto, coi piedi penzoloni nel vuoto e lunghi capelli biondi che le fluttuavano sulle spalle. Portato dal vento, giunse lo spezzone di una strofa: Here, lonely and marooned… here, howling at the moon...
“Cos’è questa lagna?” chiese Stevenson.
Schneider rispose: “Una che si vuole ammazzare non ascolterà certo Ramalama Daisy, non ti pare?”
“Si vede proprio che sei un esperto,” replicò in tono sarcastico il collega, poi soggiunse: “Sembra carina.”
“Non farti ingannare: dietro liceo, davanti museo.”
“Dici che in realtà è una vecchia?”
Schneider alzò le spalle. “Boh. Non si può mai essere sicuri, al giorno d’oggi.” Si rivolse al direttore: “Quanti anni ha?”
“Quaranta,” rispose pronto l’uomo. “Susan Brodd, di Coyote Springs. Ha preso una stanza questa mattina, se n’è stata in camera tutto il giorno, e adesso...” La indicò come una massaia avrebbe indicato il gatto colpevole di aver cagato sul tappeto.
La canzone frattanto continuava a risuonare: Here, not a single light. Here, in the darkest night...
“Andiamo a vedere,” concluse Schneider. Si rialzò il bavero della giacca. “Freddo del cazzo,” brontolò.

“’Sera, signora,” salutò l’agente portandosi due dita alla visiera del berretto. “Si gode il panorama?”
“Non cerchi di fermarmi,” lo ammonì la donna senza nemmeno voltarsi.
“Chi se ne frega di fermarla, signora, ma ha notato il casino che sta combinando?”
Alla domanda seguirono alcuni secondi di silenzio, poi la donna si voltò lentamente, rivelando un volto ancora giovane, anche se segnato dal dolore.
“Ci sono delle macchine, là sotto, c’è della gente. Ha pensato a cosa succede se lei decide di fare il volo d’angelo, signora?”
Susan emise un lungo sospiro. “Succede che smetto di soffrire.”
“Per quello bastava un treno merci. Si sarebbero accorti di averla travolta alla stazione successiva, l’avrebbero scrostata via dalla motrice e tanti saluti a tutti. Così invece mi dà l’idea che lei non abbia voglia di ammazzarsi, ma di rompere i coglioni.”
La donna si limitò a rivolgergli una lunga occhiata triste. “Io ho il cancro,” disse alla fine.
Schneider rimase impassibile. “E quindi?” Scambiò uno sguardo con il collega, che alzò le spalle.
“Non voglio soffrire.”
La canzone nel frattempo era finita. Ci fu qualche secondo di pausa, poi ricominciò: Here, lonely and marooned...
“E basta con quella lagna,” disse il poliziotto.
La canzone si interruppe. Sulla terrazza calò un silenzio appena turbato da una vaga eco di musichette natalizie.
“Vuole saltare? Vada a farlo di là, signora,” Indicò la parte della terrazza che dava sulle installazioni di servizio, “oppure vada a cercarsi un bel treno merci e non rompa i coglioni a chi sta lavorando.”

“Che testa di cazzo,” brontolò Schneider.
“Veramente una stronza,” replicò Stevenson.
La hall era desolatamente vuota, qualche aiuola di poinsettie era stata calpestata, i babbi natale di polistirolo erano finiti gambe all’aria, qua e là rotolavano palline. Da fuori proveniva il lampeggiare rosso e blu di ambulanze e macchine della polizia.
Schneider adocchiò una barella coperta da un telo bianco e disse: “Quella è la classica stronza che vuole morire rompendo i coglioni al prossimo più che può. Ma un bel treno merci? Una bella pistola in bocca in mezzo al deserto? No, deve saltare dalla terrazza di un albergo di Las Vegas nel bel mezzo di tutte le cazzate natalizie. Certa gente bisognerebbe ammazzarla.”
I due si imbatterono nel direttore. Schenider assunse un’espressione da esequie di stato e disse: “Ha visto anche lei: abbiamo tentato in ogni modo.”
L’altro annuì. “Certo, agenti. Vi ringrazio per il vostro intervento.”
Scambiarono ancora qualche convenevole, poi i poliziotti uscirono. Schneider infilò le mani in tasca. “Freddo del cazzo,” ripeté, “a momenti non sento più le dita.” Fece girare un’occhiata torva tutt’intorno, poi brontolò: “Fanculo al Natale. Ormai non fa in tempo a finire Halloween che cominciano a romperci i coglioni con le renne e gli abeti del cazzo.”
“Una merda,” assentì Stevenson. “Che fai la notte del 24?”
“Mi sono fatto mettere di servizio, almeno potrò prendere a calci qualche ubriaco per sfogarmi. E tu?”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Non parlarmene, amico: mi toccano i miei vecchi, la famiglia, i nipotini del cazzo e tutte le rotture di palle.”
“Andiamo a prendere un caffè da Hooters?”
“Sì, vedere un po’ di tettone fa sempre piacere.”



Accomodato sullo schedario della sala briefing della Centrale c’era un orsacchiotto di pezza vestito come un poliziotto, ma con il cappello da babbo natale e un sacco di iuta sulla spalla. In un angolo c’era un albero sintetico bianco e blu con un giro di lucette intermittenti multicolori. Accanto al bricco del caffè, Clerici, un agente italoamericano, aveva allestito un presepe. La madonna era una barbie di sua figlia e san Giuseppe un’action figure di He-Man. Al posto del bambinello c’era un pupazzetto di pezza trovato nell’abitazione di un gruppo di haitiani clandestini. Prima di metterlo nella mangiatoia – un bicchiere di Starbucks tagliato a metà per il lungo – aveva dovuto sfilargli certi strani spilloni, ma riteneva che facesse comunque un’ottima figura.
Schneider gettò un’occhiata sprezzante all’allestimento, quindi si avvicinò al mobiletto sul quale si trovavano le tazze e ne prese una col logo della polizia di New York, frutto di uno scambio tra colleghi. La riempì di caffè, la sollevò come per un brindisi e disse: “Fanculo a tutta la merderia natalizia, addobbi e buoni sentimenti mi hanno già rotto le palle.” Bevve un sorso, arricciò il naso e ringhiò: “Cazzo, fa più schifo del solito.”
Stevenson occhieggiò a sua volta i recipienti, poi disse: “Quella che piacerebbe a me non viene mai portata dai colleghi in visita.”
“Perché, come sarebbe quella che piace a te?” gli chiese Schneider.
L’altro gli rivolse un sorriso compiaciuto e spiegò: “fatta a torso femminile, con le tette.” Digitò qualcosa sullo smartphone, quindi girò il display nella sua direzione. “Pere enormi e niente testa: la donna ideale.”
L’altro sogghignò. “In effetti...”
A quel punto entrò nella stanza Clerici, che andò al suo presepe e affettuosamente sistemò meglio il bambinello nella mangiatoia, poi passò all’albero e mise a posto anche i festoni luccicanti.
“Quella roba starebbe meglio in discarica,” lo apostrofò Schneider.
Il collega si voltò a guardarlo con aria perplessa. “Tra un po’ è Natale,” gli ricordò. La voce aveva un tono di vaga premura, come se davvero stesse spiegando a uno Yanomami o a un Bororo il significato di quegli strani allestimenti.
“E dove sta scritto che quando arriva il 25 dicembre bisogna rincretinirsi?” replicò il primo. “Io non ne posso già più di tutte queste stronzate.”
Clerici scosse la testa come di fronte a un bambino capriccioso con cui però ci vuole pazienza, poi disse: “È tradizione. Le tradizioni sono belle, mantengono in contatto con le proprie radici.”
Schneider alzò le spalle. “Siamo sbirri, non giardinieri, e tutta questa paccottiglia rompe solo le palle.”
“A te non piace il Natale?”
“Mi fa cagare. Buoni sentimenti posticci, gente che ti regala stronzate perché deve comunque rifilarti qualcosa, parenti sconosciuti che vengono a rompere i coglioni dopo che per un anno non si sono fatti sentire, e che poi non si faranno più sentire per un altro anno. È la fiera dell’ipocrisia buonista.” A quel punto si girò verso Stevenson, che stava finendo di bere il suo caffè in una tazza della Polizei tedesca, e disse: “Andiamo a guadagnarci la paga, prima che tutta questa melassa mi faccia venire il diabete.”

Alla guida dell’auto di servizio, Stevenson disse: “Hai ragione, questa roba fa veramente schifo.” Indicò un albero di Natale alto almeno cinque metri, grondante di palline brilluccicose, festoni, lampadine, bastoncini di zucchero filato, caramelle e altra paccottiglia. Poco lontano c’era un palco sul quale alcune ballerine in costume vagamente natalizio si producevano in danze a tema. “Almeno quelle sono fighe,” commentò.
Schneider dedicò alle ragazze uno sguardo svogliato. “Potremmo andare a controllare lì intorno,” propose.
Stevenson mise la freccia e accostò lentamente al marciapiede.
Scesero tra la folla, che a malapena fece caso a loro, e si avvicinarono al palco schivando gente che trasportava pacchi regalo e bambini che correvano strillando. La neve non c’era quasi mai a Las Vegas, ma più di un negozio aveva allestito file di luci che simulavano la caduta dei fiocchi o le candele di ghiaccio. Dappertutto c’erano decorazioni a tema, luminose o semplicemente luccicanti.
Schneider alzò lo sguardo sulle ballerine e disse: “Almeno quelle si lasciano guardare.”
“Hanno le tette piccole,” commentò Stevenson.
“Hai mai visto una ballerina con le tette grosse?”
“È per quello che preferisco le cameriere di Hooters.”
Girarono un po’ lì intorno. Dietro il palco c’era l’ingresso di un centro commerciale. Entrarono nell’atrio, di nuovo senza praticamente venire notati nella frenesia di acquisti che ferveva ovunque.
Da una parte c’era un villaggio di Babbo Natale. Un omone vestito di rosso, con una gran barba bianca posticcia, sedeva su una specie di trono e i bambini facevano la fila per essere presi in braccio da lui. Genitori orgogliosi riprendevano la scena con il telefonino.
In un altro angolo della sala era stato allestito un candelabro ebraico per la festa di Channukkah. Tutt’intorno c’erano tavoli da fiera con sopra dei vassoi, un tizio con la kippah in testa e un microfono in mano stava dicendo qualcosa. A ogni frase, gli astanti rispondevano all’unisono.
Un barbone era riuscito a infilarsi nella celebrazione e nel generale raccoglimento stava sbafando a quattro palmenti.
Schneider si guardò intorno e scosse la testa con disappunto. “Guarda tutti questi stronzi,” disse al collega. “Normalissimi figli di puttana tutto l’anno, che però sono pieni d’amore verso il prossimo dal 20 al 25 dicembre.”
Passarono davanti a un negozio di dischi. In vetrina c’era la foto di quattro tizi vestiti di nero, con la faccia color ricotta. Una scritta recitava ‘The Rasmus’.
Here, lonely and marooned... risuonava nell’aria.
Stevenson alzò gli occhi al cielo. “Di nuovo quella lagna,” disse.
Una donna che reggeva una cassetta per offerte li fermò. Aveva l’aspetto di una signora bene di mezz’età, di quelle che frequentano attivamente la loro chiesa. Sul bussolotto c’era scritto qualcosa a proposito di piccoli africani da salvare.
La signora esibì un sorriso da madrina buona delle favole, quindi si rivolse a Schneider e gli chiese: “Agente, le piacciono i bambini?”
Gelido, il poliziotto rispose: “Dipende da come sono cucinati.”
D’istinto la signora aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a proferire parola, perché in un angolo della sala esplose una salva di strilli. Subito dopo echeggiarono due colpi di pistola, gli strilli si moltiplicarono, la folla ondeggiò.
“Porca puttana!” esclamò Schneider, disinteressandosi della signora e della sua eventuale risentita replica. Estrasse il revolver e si diresse verso la provenienza dei clamori.
Individuò subito un Babbo Natale che correva con una borsa sportiva in una mano e una pistola nell’altra. Dietro di lui correva un pupazzo di neve.
“Polizia! Fermi!” urlò.
I due si separarono. Babbo Natale partì a testa bassa verso il suo omologo sul trono, mandò a rotolare per terra un paio di persone, travolse e abbatté una scenetta di elfi intenti a impacchettare regali, fece volare via una renna e si lanciò di corsa verso l’uscita, spintonando e sgomitando.
Schneider gli corse dietro. “Polizia!” ripeté.
La folla intanto si stava disperdendo, la gente si assiepava verso le porte. “Via tutti!” urlò Schneider, quindi sparò un primo colpo. In una cacofonia di strilli terrorizzati, il Babbo Natale cadde, rotolò, si rialzò e riprese a correre.
L’agente però aveva nel frattempo guadagnato terreno. “Via!” urlò di nuovo, quindi sparò un altro colpo.
La testa del tizio esplose come un cocomero, lanciando frammenti e schizzi tutt’intorno. Si scatenò l’apocalisse: gente che urlava, che vomitava, che sveniva. Bambini che strillavano, donne in preda a crisi isteriche.
Un albero di natale alto come un palo della luce ondeggiò e cadde in uno sfacelo di palline e candeline, il trono del Babbo Natale ufficiale si ribaltò, le casette degli elfi collassarono come castelli di carte.
Schneider stabilì che il suo rapinatore non era più un problema. Si guardò intorno alla ricerca del collega e lo vide correre dietro al pupazzo di neve. Questi si stava dirigendo a tutta velocità verso il gruppetto intento alla celebrazione ebraica.
“Polizia! Fermo o sparo!” disse come da regolamento Stevenson. Il barbone si eclissò come per incanto, non prima di essersi riempito tutte le tasche con quello che era riuscito ad arraffare, gli altri si girarono verso la provenienza dei clamori e fecero a loro volta per andarsene, ma il pupazzo di neve stava già correndo a tutta velocità verso di loro.
“Tutti a terra!” urlò l’agente, e tanto per far capire come stavano le cose sparò un paio di colpi in aria, facendo cadere dal soffitto stelline, palline e festoni. “A terra!”
Sparò di nuovo, esplose un lampione vittoriano con finta neve.
“Fermo!”
Altro colpo, una renna di plastica schizzò contro una vetrina di pupazzetti di cristallo, che si sfracellò in un casino da fine del mondo.
Stevenson vuotò poi il tamburo sparando gli ultimi due colpi in successione. Il pupazzo di neve fece una capriola in aria, si torse e si abbatté al suolo, dove dopo due sussulti giacque immobile.
A quel punto sulla scena calò un silenzio attonito, rotto solo da qualche singhiozzo qua e là e dalla canzone lagnosa, che imperterrita continuava a uscire dall’altoparlante del negozio di musica.
Cominciarono a farsi udire sirene in lontananza.
“Arrivano i colleghi,” disse Schneider. Si avvicinò a Stevenson e proseguì: “Certo che spari proprio di merda, eh.”
L’altro si voltò verso il pupazzo di neve, che giaceva in una pozza di sangue in quello che restava del candelabro ebraico e dei tavoli rovesciati. Dolcetti tipici erano rotolati ovunque.
“Il tizio l’ho preso, no?”
“Potresti fare richiesta a Wilkes che invece del revolver ti dia in dotazione un M-16.”
“Sei il solito stronzo. Il tuo l’hai steso?”
“Gli è scoppiata la testa come una zucca, peccato solo non essere a Halloween.”
A quel punto le sirene della polizia si erano moltiplicate, da fuori proveniva già il riflesso di innumerevoli lampeggianti. “Ora verranno a romperci le palle,” ringhiò Schneider rivolgendo uno sguardo torvo alle luci rosse e blu.
“Hanno sempre qualcosa da dire,” brontolò l’altro. “Chissà, magari avrebbero la pretesa che fermassimo i delinquenti con tanto amore, convincendoli che stanno sbagliando.”
Schneider si guardò intorno, sembrava che nella hall del grande magazzino fosse passato un tifone. Adocchiò l’unico tavolo che era rimasto approssimativamente intatto, lo raggiunse e raccolse un dolcetto da un vassoio. Cominciò a sgranocchiarlo distrattamente.
Stevenson si avvicinò. “Che roba è?”
L’altro alzò le spalle. “Boh, non è male. Assaggia.”
Nel frattempo si stava avvicinando il sergente Wilkes in persona. “Che cazzo avete combinato, voi due?” li apostrofò da lontano.
Schneider rimase imperturbabile. Diede un altro morso al dolcetto, quindi chiese: “Vuole favorire, capo?”
L’altro, che nel frattempo li aveva raggiunti, a voce più bassa sibilò: “Vi favorisco un’azione disciplinare, brutti stronzi. Cos’è questo cazzo di casino che avete combinato?”
L’agente assunse un’espressione costernata. “Signore, trovandoci fortunosamente sul posto, abbiamo sventato una pericolosa rapina.”
“Avete fatto secchi due tizi in mezzo ai bambini che andavano da Babbo Natale!”
“Non si sono fermati alle intimazioni.”
“E i bambini?”
L’espressione di Schneider divenne quella del virtuoso ingiustamente perseguitato. “Preferiva che magari ne prendessero qualcuno come ostaggio? E invece no! Due eroici agenti di polizia hanno evitato che ciò accadesse.”
“Schneider, sei uno stronzo. Non te n’è mai fregato un cazzo dei bambini.”
“Se me ne fosse fregato avrei fatto il maestro in un asilo, non lo sbirro.”
Wilkes si limitò a scuotere la testa e ad andarsene brontolando cose indistinte ma indubbiamente poco gentili.

I due uscirono fianco a fianco. All’esterno, oltre a un capannello di curiosi e ad almeno una decina di auto della polizia e mezzi di soccorso, c’erano anche le macchine di un paio di emittenti locali.
Una giornalista li vide passare e subito li avvicinò. “Agenti, permettete alcune domande?”
I poliziotti si scambiarono un’occhiata, quindi Schneider rispose: “Tutte quelle che vuole, signorina.”
“Può dirmi cos’è successo là dentro?”
L’agente assunse l’espressione di chi è tristemente consapevole di quanto male ci sia nel mondo. In tono grave dichiarò: “Signorina, io e il mio collega abbiamo salvato dei bambini.”



L’agente Foreman si versò una tazza di caffè, quindi chiese: “Allora è vero che stanotte gli SS non sono insieme?”
“Verissimo,” gli rispose l’agente Asher, facendosi girare tra le mani la tazza fumante. “Stevenson ha preso ferie, va dalla famiglia.”
“Ha una famiglia?” chiese l’agente Parker. “Io credevo che quei due li avessero fatti in un laboratorio nazista, e che alla fine se ne fossero liberati perché erano venuti fuori troppo bastardi anche per i loro standard.” Poi, dopo una pausa: “E comunque, chi è che fa coppia con Schneider stanotte?”
“Greenberg,” rispose Foreman.
“Non lo invidio,” disse Asher.
In quel momento arrivò Clerici, che per prima cosa andò a sistemare la sua Natività. Raddrizzò impercettibilmente l’action figure di He-Man, per l’occasione abbigliata con una specie di saio marrone, sistemò meglio il bambinello nella culla.
“Quella è una fottuta bambolina voodoo,” grugnì Parker dopo aver seguito per un po’ i suoi movimenti, “se non la levi di qui, come minimo esploderà la centrale.”
Foreman annuì e aggiunse: “Oppure stanotte Stevenson rientrerà in servizio assieme a Schneider e succederà qualche casino.”
Clerici assunse un’espressione pia, sistemò il velo azzurro sulla testa della barbie e rispose: “È un prodotto di artigianato etnico. Vuole significare che Gesù è venuto al mondo per tutti.”
Parker scosse la testa. “Per tutti tranne che per gli SS. Quando vede quei due, anche Gesù taglia la corda.”
“Avete sentito il casino che hanno combinato al centro commerciale?”
“Sì, e poi i due stronzi sono passati da eroi. Quelli che hanno salvato i bambini. Ma ce li avete presente, quei due, quando hanno a che fare con i bambini? Per me se li mangiano peggio dei comunisti.”
“I soliti pezzi di merda paraculi. Anche con la faccenda della Stratosphere alla fine passarono da eroi.”
“Oh, sì. Sono gli esperti di suicidi. In effetti, come fanno suicidare la gente loro...”

Stevenson si avvicinò all’auto di servizio e per un po’ rimase a guardare Schneider che sistemava nel bagagliaio il fucile a pompa, tre diversi expandable baton, un taser modificato che invece dei soliti cinquantamila volt era in grado di erogarne un milione, protezioni antisommossa e un tirapugni di acciaio cromato che sembrava una tagliola da orsi.
“Vai in servizio?” gli chiese.
L’altro smise di sistemare la roba. “Già.”
“Ho sentito che sei con Greenberg.”
“Affermativo.”
“È… passa per essere un bravo agente.”
“È solo per questa notte.”
Schneider chiuse il bagagliaio con un colpo secco. Stevenson strinse le labbra. “Comunque, volevo dirti...” cominciò, ma a quel punto gli suonò il cellulare. Lo tirò fuori dalla tasca. “Merda, è la mia vecchia,” brontolò. Rispose. “Pronto? Sì, mamma, adesso arrivo… stavo solo dicendo le ultime cose qui in Centrale… ma sì, ho detto che arrivo...” Si voltò indietro, Schneider stava salendo al posto di guida, fece in tempo a intravedere le sue spalle massicce.
Gli rivolse comunque un cenno di saluto e gli parve di cogliere un movimento in risposta nel retrovisore, ma quando si sporse per accertarsene, l’auto si stava già allontanando. “Sì, mamma,” sospirò nel telefono, “ho detto che arrivo.”



Schneider guardò l’orologio: le ventidue e trenta. Si voltò verso il collega, che sedeva al posto del passeggero in religioso silenzio. Non che lo disturbasse, il fatto che Greenberg non faceva casino. Nemmeno con Stevenson parlavano molto, ma il loro silenzio era diverso. Magari gli capitava di guardare qualcosa per la strada, poi si girava verso di lui e si accorgeva che stava guardando la stessa cosa. A quel punto si scambiavano un’occhiata ed era come se avessero fatto una conversazione di mezz’ora.
Greenberg invece stava zitto e basta, probabilmente pensando ai cazzi suoi e aspettando che il turno finisse. Anzi, gli venne il sospetto che con lui non volesse proprio parlare. Sapeva come chiamavano lui e Stevenson in centrale: SS, un po’ per via delle iniziali dei cognomi, ma un po’ - un bel po’ - perché in generale disapprovavano i loro metodi, considerandoli troppo violenti, sessisti e non rispettosi delle minoranze. Come le SS dei film, appunto.
Continuò a guidare lungo la strip in perfetto silenzio, gettando appena uno sguardo distratto alle onnipresenti decorazioni di natale.
A un certo punto, dalla radio provenne una chiamata: “Auto ventidue da centrale.”
Schneider premette il PTT. “Ventidue, avanti.”
“Ventidue da centrale, rissa familiare al trenta di Nevso Drive, si richiede il vostro intervento.”
“Ricevuto, centrale. Andiamo sul posto.”
Chiuse la comunicazione e mise i lampeggianti in maniera automatica, senza nemmeno voltarsi verso il collega.

Quando arrivarono al trenta di Nevso Drive, la porta dell’abitazione – una graziosa villetta a due piani – era spalancata. Alcune persone si aggiravano sul prato con l’aria di essere nella sala d’aspetto del dentista. La finestra del salotto era sfondata e oggetti di ogni genere, dai soprammobili ai piatti, erano disseminati a raggiera tutt’intorno.
Da dentro la casa provenivano i suoni di alcuni feroci litigi.
“Che cazzo di casino,” commentò Schneider. Scese dalla macchina, si guardò intorno, quindi andò al bagagliaio, lo aprì, soppesò i tre expandable baton che conteneva e ne scelse uno. Si infilò nel cinturone un flacone di peperoncino, poi si guardò le mani e grugnì: “Cazzo, ci vorrebbero un paio di guanti.”
Alle sue spalle, Greenberg finalmente si fece sentire: “Hai detto qualcosa?”
“Dicevo che ci vorrebbero dei guanti, se per caso capitasse di dover fare a pugni.”
“Usare la forza è l’ultima soluzione di chi non è capace di usare le parole.”
“Amen,” commentò Schneider in tono sarcastico, quindi si diresse verso la casa. Sebbene la porta fosse aperta, e da essa provenisse una tremenda cacofonia di urla e oggetti infranti, suonò diligentemente al campanello.
Dovette ripetere l’operazione due o tre volte, poi finalmente i clamori si placarono. “Suonano alla porta,” disse una voce infantile. Un’altra, che poteva essere quella di un adolescente, soggiunse: “Merda, sono gli sbirri.”
“Chi ha chiamato gli sbirri?” volle sapere un’altra voce, forse di una donna, “Sono stati quegli stronzi dei vicini?”
Schneider rimase impassibile.
Dopo qualche secondo, si fece avanti una donna sulla trentina, senza trucco, con una sottana svolazzante e una maglietta con un unicorno dalla criniera color arcobaleno. Non portava scarpe.
“È in casa suo marito, signora?” le chiese in tono professionale.
“Mia moglie è di là, sta cercando di calmare i bambini.”
L’agente strinse appena gli occhi. Conosceva ovviamente l’esistenza di froci e bruca-moquette che si sposavano fra di loro, ma ogni volta gli piaceva rifare la stessa scenetta. Assunse un’espressione perplessa e chiese: “Sua moglie, signora?”
“È di là,” ripeté la donna. “I nostri bambini sono molto agitati per colpa di quello che è successo.”
“Bambini suoi e di sua moglie, signora?”
“Certo, perché?”
“Nessun laboratorio di ricerca genetica ha ancora pensato di farvi rapire?”
L’altra lo fissò stupefatta. “Ma cosa sta dicendo?”
“Due donne che figliano insieme sono una specie di miracolo, direi. Qualsiasi scienziato darebbe un rene per potervi studiare.”
In tono tagliente, la donna replicò: “Ha mai sentito parlare di fecondazione assistita, agente?”
Con aria di perfetta serietà, Schneider rispose: “Certo, la fa spesso un mio amico. Metta che qualche marito ha le palle un po’ mosce...”
A quel punto, come normalmente capitava, la tizia lo fissò chiedendosi se la stesse prendendo in giro o fosse solo scemo, ma lo sguardo perfettamente neutro dell’agente non le consentì di giungere a una conclusione.
In tono professionale, il poliziotto chiese: “Qual è il problema, signora?”
“Venga, glielo spiegherà mia moglie.”
Lo condusse in una sala in cui si trovavano almeno una quindicina di persone di varie età ed etnie. Vi regnava una confusione indescrivibile: sembrava che sulla tavola fosse passato un enorme spazzolone. Cibi, piatti, bicchieri e bottiglie erano per terra tutt’intorno, mescolati a pot pourri colorati, rami d’abete, candele e palline. Alcune sedie erano gambe all’aria, una credenza aveva gli sportelli penzoloni ed era stata svuotata di ogni contenuto, di una vetrina rimanevano solo le strutture in legno, da cui pendeva qualche rimasuglio di vetro finto Tiffany.
Non ci voleva Sherlock Holmes per riconoscere nell’ambiente il teatro di una rissa furibonda.
Due mocciosi di sesso incerto, coi dreadlock e la faccia sporca, frignavano attaccati ai pantaloni camo di quello che sulle prime gli parve un camionista con problemi di sovrappeso.
“Mel, tesoro,” flautò quella che aveva aperto la porta, “è arrivata la polizia.”
Il camionista a quel punto si raddrizzò, rivelandosi una donna rasata a zero, con otto buchi a ogni orecchio, tatuata, con le tette a sacco di farina e una rispettabile pancia. Portava una maglietta bianca con un pacchetto di sigarette arrotolato in una manica.
“Lo vedo, porco cazzo,” berciò la tizia. Spinse via i due mocciosi, quindi si rivolse a Schneider, fissandolo come avrebbe fatto con una merda su un cuscino di seta. “Prova a toccarmi e ti denuncio per molestie,” lo ammonì rude.
“Può stare tranquilla,” le assicurò l’agente, quindi chiese: “Mi vuole spiegare quello che è successo, signora?”
“Intanto evita di usare questi termini fallocratici con me.”
Schneider, che cominciava a perdere la pazienza, si erse in tutta la sua rispettabile altezza e rispose: “Fino a prova contraria, signora, lei è registrata all’anagrafe come persona di sesso femminile, quindi le compete di essere chiamata così. E ora mi vuole dire cos’è successo, gentilmente?”
Di fronte alla stazza dell’agente, Mel ritenne opportuno non replicare. Indicò invece una tizia e disse: “Quella puttana ha portato in casa mia dei cadaveri!”
Sentendosi appellare in quel modo, la tizia scattò: “È il piatto preferito di Toby, ed è Natale!” Si rivolse a Schneider e in tono lamentoso chiese: “Perché il mio bambino non può avere il suo piatto preferito a Natale?”
Prima che l’agente potesse rispondere, la camionista scattò: “Perché è carne morta, puzza di cadavere. Io vomito quando sento quell’odore, ok?” Cominciò a mimare conati in modo talmente realistico che Schneider si fece discretamente indietro, e da una distanza che reputava di sicurezza si rivolse alla donna accusata di aver portato cadaveri: “Intanto chi è lei, signora?”
“Marla Hayes,” rispose quella, “sono la nuova compagna dell’ex marito di Darlene.”
“Di chi?”
“La moglie di Melanie.” Indicò la lesbica camionista, che nel frattempo aveva interrotto la performance. “Mel!” le disse quella. “Devi chiamarmi Mel, lo vuoi capire?” Poi, come parlando fra sé e sé, tra i denti soggiunse: “’Sta stronza succhiacazzi...”
“Meglio succhiacazzi che mangia-prato!” la rimbeccò quella.
Mel partì con un gancio che avrebbe sicuramente steso Marla, se Greenberg non si fosse precipitato ad agguantarla a mezzo corpo.
“Mi molesta!” urlò allora la donna. “Darlene, vieni subito qui a filmare, questo stronzo non deve passarla liscia!” Poi, rivolta all’agente: “Te ne approfitti perché sei un poliziotto, eh?”
Greenberg si fece indietro come se d’improvviso si fosse scoperto abbracciato a un barile di scorie tossiche, poi disse: “Forse lei mi ha frainteso, signora. Io stavo solo tutelando l’incolumità dell’altra signora.”
“Qui non ci sono signore, stronzo! Qui ci sono donne, ok? Nessuna di noi ha bisogno del vostro riconoscimento fallocratico per essere consapevole del proprio valore.”
“Ma certo, sign… ehm… Mel? Posso chiamarti Mel? Ho sentito che è il tuo nome.”
Visto che la faccenda minacciava di andare per le lunghe, Schneider si disinteressò dello scambio e si rivolse alla donna di nome Marla: “Mi vuole spiegare lei cos’è successo, signora?”
Quella controllò con una fugace occhiata dove fosse Mel, quindi spiegò: “Io sono la nuova compagna di Robert,” indicò un tizio alto e secco, con la barba e una maglietta con la faccia di Che Guevara, “Darlene ci ha invitati, e sapendo che Robert avrebbe portato anche Toby, ho pensato di preparare un po’ di pollo fritto.”
Mel, che sembrava assorta nella conversazione con il suo collega, si girò invece come un serpente e sbraitò: “Cadaveri! Carne morta! In casa mia quella roba non deve entrare!”
“Ma certo, Mel, certamente,” si prodigò Greenberg, “del resto, la dieta vegana è molto salutare, non è così?”
“È etica,” fu la risposta.
Schneider si disinteressò della faccenda e tornò a interrogare Marla: “E quindi, Robert è il suo ex marito...”
“No no,” lo interruppe la donna, “è il mio compagno, è l’ex marito di Darlene. Toby è il figlio che abbiamo avuto io e Robert, ma vive con Robert.”
“E lei con chi vive, signora?”
“Oh, io lavoro lontano, sa...”
“Dove, di preciso?”
“Gli altri bambini che vede qui sono Enu e Andile, e sono i figli di Darlene. La ragazzina, Eyleen, è figlia del primo matrimonio di Robert.”
“Signora...”
“E poi c’è Zelda, che è la sorella di Melanie, con i figli che il suo nuovo compagno ha avuto dal suo precedente matrimonio, Jillian e Jonathan. Il suo compagno stanotte lavora, e...”
A quel punto, Schneider sbottò: “Ma che cazzo è questo branco di scimmie? C’è qualche coppia normale, qui dentro, o chiunque si accoppia con chiunque altro a seconda dell’istinto?” La donna fece per replicare, ma lui la fermò con un gesto e proseguì: “Senta un po’ cosa facciamo, signora: adesso lei raccatta quel che le compete di questa tribù e se ne va a mangiare cadaveri al KFC.”
“Cosa? Ma io ho il diritto di stare qui! Robert è il mio compagno.”
Schneider alzò gli occhi al cielo. “Signora, faccia la cortesia, si levi dalle palle o qui facciamo mattina.”
“No, è una questione di principio. È lei quella che ha sbagliato, quindi se ne deve andare lei.”
L’agente inspirò a fondo ed emise il fiato con minacciosa lentezza. “Peccato che però sia a casa sua,” disse infine.
L’altra rimase in silenzio.
Schneider allora a quel punto disse: “Molto bene, adesso vi togliete tutti dalle palle tranne chi risiede regolarmente al trenta di Nevso Drive. Via, ‘raus, circolare! Entro cinque minuti qui dentro voglio vedere il deserto nel Nevada, al posto del branco di scimmie. Se per caso qualche stronzo rimane qui, si becca una denuncia per rissa e lesioni.”
Mel, che stava ancora discutendo con Greenberg, a quel punto abbandonò la contesa e sbraitò: “Tu non vieni a dettare legge a casa mia, sbirro di merda!” Partì con un destro.
Schenider, che non aspettava altro, esclamò: “Violenza contro un agente di polizia! Greenberg, sei testimone: questa è legittima difesa.” Subito dopo intercettò la donna con un cazzotto che sanciva la parità dei sessi ben più di qualsiasi quota rosa.
Melanie, che evidentemente non era ancora pronta a una così imparziale uguaglianza, andò giù come un sacco e rimase sul tappeto a pelle d’orso.
A quel punto, Schneider fece girare uno sguardo sull’ammutolita platea e disse: “Avete sentito: tutti fuori dalle palle o finiamo la notte santa in centrale.”



Stevenson cercò per l’ennesima volta di digitare un messaggio col telefonino, ma di nuovo dovette rinunciare. In piedi sulla porta della cucina, zia Ethel lo stava chiamando.
“Che c’è zia?” le chiese intascando l’apparecchio.
“Tesoro, saresti così gentile da portare il punch in salotto?”
“Certo, zia.”
Raccolse l’enorme ciotola a semisfera, colma di una bevanda rossa di cui la donna custodiva gelosamente il segreto, e cercando di non inciampare nei figli di sua sorella che si azzuffavano sul tappeto la portò sulla tavola apparecchiata.
In un angolo del salotto c’era un albero di Natale circondato da regali. Come da tradizione, era stato anche acceso il caminetto che scoppiettava allegramente. Nell’aria risuonavano Carol of the bells e altri cori festosi.
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori: lungo la strada stava passando una macchina della polizia. Gli sfuggì un sospiro.
Si voltò indietro e per prima cosa gli prese una voglia prepotente di mollare due schiaffi per uno ai mocciosi di merda che continuavano a correre e a fare casino. Uno di essi inciampò nel contenitore della legna, lo rovesciò spargendo pezzi ovunque, poi cominciò a frignare. Zia Betsie mollò quello che stava facendo e corse a prenderlo in braccio. “Io l’avrei lasciato lì, quell’idiota,” brontolò fra i denti l’agente. “Anzi, gli avrei fatto raccogliere tutto.”
A quel punto suo padre disse: “Vieni, Paul: mamma ha appena portato in tavola l’arrosto!”
Si udirono gli strilli dei mocciosi che correvano verso le rispettive sedie.
Ripensò all’episodio del grande magazzino, con la danarosa dama della carità che chiedeva a Schneider se gli piacevano i bambini. “Dipende da come sono cucinati,” disse fra sé e sé, e non poté evitare un sorriso.
Tirò fuori il telefonino. Si avvicinò alla tavola imbandita e disse: “Mi hanno appena chiamato dalla centrale: devo andare in servizio.”
Si udì un coro di espressioni di disappunto. “Ma come?” protestò sua madre, “Stiamo per cominciare a cenare.”
“Io non ho sentito nessuna suoneria,” gracchiò Arabella, una tredicenne brufolosa figlia di qualche suo cugino.
Stevenson ghignò. “L’ho silenziata per non disturbare, principessa, ma un agente è sempre reperibile.”
“La mia compagna di classe, che è figlia di un poliziotto, dice che non è vero.”
“La tua compagna di classe spara cazzate, tesoro,” replicò serafico Stevenson, quindi staccò il giaccone dall’attaccapanni e si eclissò.



Schneider e Greenberg sedevano l’uno accanto all’altro al bancone di un vecchio bar. Il posto era deserto, a parte loro e una cameriera di mezz’età con il berretto da Babbo Natale.
“Altro caffè?” chiese la donna.
Schneider spinse il bicchiere nella sua direzione, ella lo riempì fino all’orlo.
Il poliziotto recuperò il recipiente e bevve un sorso. Al solito, Greenberg stava zitto.
“Vi spiace se ascolto un po’ di musica?” chiese la cameriera. Senza attendere risposta accese la radio.
There’s footprints in the snow… I’ll follow wherever you go...
Schneider guardò la superficie del caffè, su cui si riflettevano le luci intermittenti che ornavano la porta del bar.
Here, lonely and marooned, I will wait in silence, silence, silence...
“È una bella merda,” commentò, senza staccare lo sguardo dal bicchiere di carta, e non sapeva neanche lui a cosa si stesse riferendo. A tutto? A quella notte stupida, in cui la gente credeva che succedesse chissà che cosa e invece era sempre la solita merda? Al fatto che Stevenson l’aveva mollato con una merda di collega per passare la serata in famiglia?
Prestò un orecchio distratto alla canzone e si chiese se in quella notte, che d’argento aveva ben poco, a qualcuno potesse venire in mente di cercare le sue tracce nella neve.
E subito dopo si diede dello stronzo, quasi vergognandosi di aver formulato pensieri così melensi.
A quel punto, il cellulare di Greenberg squillò. Egli rispose, scambiò due frasi a bassa voce, quindi disse: “Esco per telefonare. Tu finisci con calma e poi raggiungimi in macchina.”
“Ok,” rispose Schneider, senza nemmeno voltarsi.
I’ll follow you wherever you go… in the silver night.
Notte d’argento un cazzo, pensò. Finì il caffè, lasciò la mancia alla donna e uscì.
Rabbrividì nell’aria fredda, si rialzò il bavero e infilò le mani in tasca masticando un’imprecazione. Era mezzanotte, per strada non c’era nessuno. Intravide un agente di spalle accanto alla macchina e immaginò che fosse il collega, ancora impegnato nella sua telefonata.
Si avvicinò. “Ehi, Greenberg, è ora di rientrare in servizio.”
L’altro si girò. “Che si dice, bello?”
Schneider aggrottò le sopracciglia. “Stevenson? Che ci fai qui?”
“Troppo casino dai miei vecchi. Mocciosi, canzoncine stupide, i soliti parenti che si fanno vivi solo per Natale e poi scompaiono… insomma, volevo starmene in pace e ho telefonato a quel cazzo moscio di Greenberg per fare cambio con lui.” Fece una risatina. “Non gli è parso vero, a quello stronzo.”
“Ok,” disse semplicemente l’altro, dopo alcuni secondi di un silenzio meditativo. “La pausa è finita, salta in macchina che andiamo.”
Entrarono nell’auto, Stevenson si guardò fugacemente intorno, ma la strada rimaneva deserta. Anche se non nevicava, c’era comunque un gran silenzio. Tirò fuori dalla tasca del giaccone un piccolo involto realizzato con un foglio della fotocopiatrice e ingentilito con qualche pagliuzza luccicante. “Per te,” disse porgendolo al collega.
Questi si fece indietro come se l’altro gli stesse offrendo una bomba a mano senza sicura. “Cos’è?” chiese, fissando diffidente il pacchettino.
“È per te,” si limitò a ripetere Stevenson.
“Cosa sarebbe?”
“Guardalo, no?”
Schneider lo prese con la disinvoltura con cui avrebbe maneggiato una fiala di antrace. Se lo rigirò fra le mani con le sopracciglia aggrottate. “Che cos’è questa cazzata?” borbottò.
“Se non ti vanno li posso cambiare.”
A quel punto, l’agente aprì il pacchetto. “Guanti?”
“Con le nocche rinforzate in kevlar. Ci puoi sfondare una vetrata senza problemi.” Stevenson fece una pausa, quindi soggiunse: “E poi tengono caldo.”
“Che significa?” chiese Schneider.
L’altro alzò le spalle, nel buio si colse solo il baluginio delle luci esterne sulle sue mostrine. “Non ti aspettare una richiesta di fidanzamento,” ghignò. “Ero solo stufo di sentirti ripetere che hai freddo alle mani.”
Tra i due calò il silenzio.
“Andiamo?” propose alla fine Stevenson.
“Apri il cassetto,” replicò l’altro.
“Il cassetto? Perché?”
“Tu aprilo.”
Stevenson fece scattare il meccanismo e aprì il piccolo vano. Ne trasse un involto irregolare ma di forma vagamente rotondeggiante, avvolto in carta da regali azzurra decorata con orsetti in pigiama, chiuso da alcuni giri di nastro adesivo. “E questo cos’è?” chiese.
“Niente, una cazzata.” Schneider si voltò verso il finestrino con l’aria di disinteressarsi completamente della faccenda.
“Cos’è?” ripeté il collega.
“Se non ti piace la posso cambiare.”
Stevenson strappò con qualche difficoltà la carta: ne emerse un torso femminile con due grandi tette lucide di ceramica. “La donna ideale!” esclamò.
“È per il caffè,” disse il collega, sempre ostinatamente rivolto all’esterno.
“Grazie, Rolf, è proprio la tazza che volevo.”
L’altro a quel punto si girò a fissarlo. Rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse: “Ora provo questi guanti, ok?”
“Se non ti vanno li cambio.”
“Per me vanno bene.”

A quel punto, la radio si attivò: “Auto ventidue da centrale.”
Schneider premette il PTT. “Ventidue, avanti.”
“Auto ventidue, si richiede un intervento al numero trenta di Nevso Drive.”
L’agente aggrottò le sopracciglia. “Centrale, conferma trenta di Nevso Drive?”
Dall’altra parte giunse la risposta: “Ventidue, c’è una rissa in corso, si segnala un principio di incendio. Altre due unità stanno convergendo sul posto assieme a un’ambulanza e ai vigili del fuoco.”
“Centrale da ventidue: ci attiviamo immediatamente.”
Schneider chiuse la comunicazione, poi si voltò verso il collega e semplicemente disse: “Figata.”
“Che cosa?” chiese l’altro.
“Famiglia arcobaleno, due bruca-moquette vegane con bambini di sesso incerto e una tribù di parenti. Siamo già andati sul posto con Greenberg, ma quel cazzo moscio non è come noi. Garantito che stavolta li imbarchiamo tutti e li portiamo in centrale, mocciosi compresi, così imparano a rompere i coglioni!”
Stevenson sorrise beato. “Una famiglia arcobaleno? Cazzo, lassù qualcuno ci ama. Metti le sirene, non voglio rischiare di perdermi la festa!”
“Puoi scommetterci, bello.”
La macchina scattò in avanti ululando nella notte, le gomme stridettero nella curva. I lampeggianti rossi e blu parvero ai due la più bella delle luminarie.
“Dà gas, Schneider!” lo incitò il collega.
“Tranquillo. E quando abbiamo finito con quel branco di stronzi, una bella colazione da Hooters. Le tradizioni vanno rispettate.”

   
 
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