Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: crazy lion    03/01/2020    4 recensioni
Dal testo:
La verità, e Monica l’aveva capito allora, è che le parole “tumore maligno” terrorizzano, bloccano chi le dice e chi le ascolta. Fanno tremare con violenza il corpo, sentire freddo fin nei recessi più profondi e nascosti dell’anima, vibrare corde che non si sapeva neanche di avere. È difficile comprenderle davvero, almeno per qualche secondo, perché fanno troppa paura, così tanta da non sembrare reali. Poi assalgono con la loro forza distruttrice ed è allora che si ritorna alla dura e cruda realtà. In quel momento, la mente si riempie di domande ed esclamazioni di terrore.
Quanto è grave? È grande o piccolo? Cosa si può fare? Starai bene, vero? Guarirai? Non morirai, ti prego, dimmi che non morirai!
Ma questi pensieri rimangono tali, non si trasformano in parole. Monica avrebbe voluto esprimerli, quella sera di ottobre di due anni prima, ma la sua parte razionale le aveva fatto capire che la mamma non sarebbe stata in grado di risponderle. Anche lei brancolava nel buio di quei dubbi e di tali paure, come tutti.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
DOLORI E INCERTEZZE


Monica si alzò dal letto sentendo male alla schiena e si stiracchiò. Decise poi di svolgere alcuni esercizi che le aveva insegnato il suo fisioterapista alcuni mesi prima, quando ci era andata per dei forti dolori alla schiena e alle spalle. Una volta fatto si avvicinò alla libreria. Era non vedente dalla nascita, per cui non aveva bisogno di accendere la luce, conosceva benissimo ogni angolo della sua casa a memoria. Alzò le mani e arrivò al secondo scaffale, toccando uno dei tanti peluche che aveva. Si trattava di un coniglietto, non ricordava di che colore, trovato nell'uovo di Pasqua qualche anno prima. Un regalo di sua madre.
Uscì in corridoio e ascoltò i suoi genitori russare nell'altra stanza a poca distanza dalla sua. Dopo il secondo intervento la mamma aveva dormito pochissimo per un periodo, ora per fortuna sembrava aver trovato un po' di pace. Si era ammalata di cancro più di due anni e mezzo prima, il tumore era in un brutto posto e, nonostante due interventi - uno dei quali abbastanza rischioso - i medici non erano riusciti a toglierlo tutto e le avevano detto che le possibilità di guarire erano praticamente nulle, anche se quello che restava era pochissimo e la situazione era stabile.
"Ho un tumore maligno in testa. A un basso grado di malignità, ma maligno" le aveva detto Rebecca anni prima, ripetendo quella parola come per sottolinearla, per farla capire del tutto ad entrambe.
La verità, e Monica l’aveva capito allora, è che le parole “tumore maligno” terrorizzano, bloccano chi le dice e chi le ascolta. Fanno tremare con violenza il corpo, sentire freddo fin nei recessi più profondi e nascosti dell’anima, vibrare corde che non si sapeva neanche di avere. È difficile comprenderle davvero, almeno per qualche secondo, perché fanno troppa paura, così tanta da non sembrare reali. Poi assalgono con la loro forza distruttrice ed è allora che si ritorna alla dura e cruda realtà. In quel momento, la mente si riempie di domande ed esclamazioni di terrore.
Quanto è grave? È grande o piccolo? Cosa si può fare? Starai bene, vero? Guarirai? Non morirai, ti prego, dimmi che non morirai!
Ma questi pensieri rimangono tali, non si trasformano in parole. Monica avrebbe voluto esprimerli, quella sera di ottobre di due anni prima, ma la sua parte razionale le aveva fatto capire che la mamma non sarebbe stata in grado di risponderle. Anche lei brancolava nel buio di quei dubbi e di tali paure, come tutti.
E per tre giorni Monica non aveva dormito pensandoci e continuando a ripetersi:
"Mia mamma ha il cancro, mia mamma ha il cancro."
Non riusciva ad accettarlo, a comprenderlo, a crederci. Fino a poco tempo prima le era sembrata una cosa così lontana da loro ed ora li aveva investiti come un fiume in piena.
Il mattino seguente, Monica si svegliò dopo una notte quasi insonne intrisa dei pensieri di poche ore prima. Andò in bagno, si lavò la faccia e si pettinò i lunghi capelli castani che le arrivavano fino a metà schiena. Toccò lo specchio davanti a sé e si domandò come appariva il suo riflesso, se i propri occhi grigio-verdi fossero stanchi, se le sue forme un po' generose la facessero sembrare brutta. Tutti le dicevano di no, che era carina, e anche se non aveva mai avuto problemi con il suo corpo avrebbe desiderato vedersi, oltre a farlo con mille altre cose. Scese in salotto quando non c'era ancora nessuno e, dopo aver appoggiato la vestaglia sulla sedia vicino al tavolo della sala, toccò la sella della cyclette e vi salì. Pedalò per dieci minuti a velocità abbastanza sostenuta. Lo faceva da qualche mese per perdere un po' di peso, oltre a seguire da più di un anno una dieta datale dalla nutrizionista che comprendeva un po' di tutto. Perdeva ancora il fiato in fretta e lo odiava, non fu facile arrivare alla fine, ma quando il timer sul suo cellulare suonò scese, tutta sudata, e lo spense. Andò di sopra a rinfrescarsi e cambiarsi, poi tornò di sotto a prepararsi la colazione. Già che c'era lo fece anche per i genitori, le pareva un modo per dare loro una mano. Aiutava sempre in casa per quel che poteva. Era il 3 gennaio 2020 ed entrambi erano a casa quel giorno. Suo fratello di solito non faceva colazione, ma mise ogni cosa anche per lui.
"Ciao, amore" la salutò la madre arrivando in quel momento.
Era una signora sulla cinquantina, con i capelli neri e corti e gli occhi castani, anche lei un po' in carne anche se meno della figlia.
"Ciao, mamma. Ho preparato le cose per la colazione" rispose la ragazza con voce vellutata.
"Oh, ti ringrazio. Dormito bene?" chiese Rebecca.
Sembrava allegra.
"Insomma, tu?"
"Abbastanza, ma ora ho mal di testa e sono già stanca. No, tranquilla, non mi sento male come l'estate scorsa o due anni e mezzo fa" aggiunse la donna, riferendosi a due episodi nei quali aveva avuto varie serie di crisi epilettiche in casa, la prima delle quali aveva permesso ai medici di scoprire, dopo qualche mese di esami vari un tumore che, in realtà, era presente da molti anni ma si era manifestato solo in quell'occasione.
Monica si era spaventata tantissimo in entrambe le situazioni, soprattutto durante la seconda nella quale si era trovata da sola e aveva dovuto sostenere la mamma che si era sentita male quand'era stata in piedi. Il suo cuore aveva perso diversi battiti mentre non aveva saputo cosa fare, cme comportarsi e le era stato difficile non farsi prendere dal panico e non scoppiare a piangere. Trattenere le lacrime aveva fatto male, un male anche fisico. Quando poi il padre, tornato a casa, aveva portato la mamma in ospedale, Monica era scoppiata in un pianto isterico.
“Uffa,” si lamentò Rebecca, “la mattina ho voglia di caffellatte ma poi mi sembra che non mi piaccia più come una volta.”
Quella, assieme ad altre, era una conseguenza dell’intervento e in parte della malattia.
“Mi dispiace” sussurrò Monica.
“Tranquilla, non è una cosa così importante.”
“Lo so, ma dev’essere brutto non godersi più i cibi come prima.”
“Lo è, ma non ci posso fare niente.”
Dopo colazione la ragazza prese i suoi farmaci. Un anno prima le era stata diagnosticata una leggera depressione unita ad un disturbo ansioso. In realtà lei non la sentiva affatto leggera, però per fortuna il medico di base e lo psichiatra erano riusciti a trovare quasi subito le pastiglie giuste per la sua situazione. Avevano detto che il bullismo subito alle superiori e la malattia della mamma erano state tutte esperienze che pian piano l'avevano portata dalla tristezza alla vera e propria depressione e che per guarire ci sarebbero voluti tempo e pazienza. C'erano giorni nei quali Monica si sentiva meglio, positiva, credeva di poter guarire, altri nei quali invece pensava che non ci sarebbe riuscita mai, che tutti gli sforzi fossero vani. Da dieci anni andava da una psicologa ogni due settimane e vedeva lo psichiatra una volta al mese.
Lei e la mamma decisero di andare a fare una passeggiata, ma già dopo cento metri - e abitavano in pianura - Rebecca era stanca e aveva perso il fiato.
"Vuoi che torniamo a casa?" le domandò la figlia.
"No, tranquilla, continuiamo."
Ma le fu molto difficile passeggiare per un altro quarto d'ora, anche se non andavano forte. Continuava ad ansimare, si faceva aria con le mani, sudava, le doleva il petto come se tanti spilli lo stessero pungendo affondandoci lentamente dentro e, una volta tornata a casa, crollò sul divano, sfinita. Tutto ciò non accadeva perché non era allenata, era un insieme di cose: forse la menopausa che stava iniziando, ciò le era stato detto dalla radioterapista e avrebbe dovuto fare dei controlli a breve, il post intervento - si era operata la seconda volta a febbraio dell'anno prima - che era più impattante di quanto si sarebbe aspettata, e il tumore stesso che faceva la sua parte.
Il mal di testa di Rebecca aumentò, tanto che non riuscì più a parlare e dovette prendere un antidolorifico anche se non avrebbe voluto. Oltre alla pastiglia della pressione assumeva anche quattro antiepilettici e per lei erano già troppi farmaci.
"Vai pure in camera, amore, adesso mi riprendo" disse alla figlia cercando di sorridere.
Ma la sua voce era diversa, roca e più bassa, Monica l'aveva notato. Ce l'aveva così solo quando stava male. Quella doveva essere una delle sue giornate no. Tuttavia, non volendo assillarla, decise di fare come le aveva detto. Era difficile vederla stare così, sapendo che più di rimanerle vicino e aiutarla in casa non poteva fare altro. Sentirsi impotenti in queste situazioni è forse una delle sensazioni peggiori.
Salì nella sua stanza e una sola, singola lacrima solcò il suo viso, ma bruciò come fuoco vivo. Aveva pianto così tanto, in quegli anni, che a volte credeva di non avere più lacrime. Non la asciugò, lasciò che le bagnasse il collo e i vestiti, che scorresse fredda su di lei. Che cos’altro poteva fare quando si sentiva impotente se non piangere? Si rannicchiò a terra, come aveva fatto a volte quando aveva avuto attacchi di panico e rimase lì a lungo a singhiozzare, quella lacrima pareva aver dato vita ad un vero e proprio fiume di pianto.
“Perdonami, mamma” mormorò. “Non posso fare niente per te.”
“Cancro”, “impotenza”, “niente”. Tre parole che entravano nell’anima ferendola piano, lasciando segni indelebili. Se Monica fosse stata lucida, si sarebbe resa conto che Rebecca non aveva niente da perdonarle e che semmai era proprio lei a dover perdonare se stessa. La maggiore sapeva benissimo che la ragazza le stava accanto, la ascoltava, digeriva frasi pesanti che diceva come “Chissà se arriverò a sessant’anni, so bene dove questa malattia potrebbe portarmi.” La stava a sentire, abbracciandola e consolandola, dava una mano in casa, la incoraggiava, faceva tutto il possibile. Ma per Monica, questo non era abbastanza. Non lo sarebbe mai stato.
“Potrei fare di più” si diceva.
Ma non sapeva cosa.
Dopo essersi asciugata alla bell’emmeglio gli occhi e il viso, si mise accanto al letto. Dopo l’impotenza arrivava la rabbia, sentimento che la sua psicologa aveva definito positivo perché esprimeva un’emozione più che lecita. L’importante era che Monica riuscisse ad incanalarla in qualcosa. Strinse di più i pugni fino a quando le mani le fecero male, poi cominciò a battere sul cuscino. Dopo il primo si sentì un po’ meglio, ma non era abbastanza. Ne diede un secondo, poi un terzo, un quarto e così via, fino a quando le braccia le dolsero e si sentì stanca. Respirava meglio, però, le pareva di aver scaricato un po’ dell’energia negativa, se così poteva essere definita, e di sentirsi più leggera.
Accese il computer. Contemporaneamente partì anche la barra braille, un dispositivo rettangolare di plastica e metallo attaccato al PC sul quale, quando un non vedente legge o scrive, si alzano i puntini che formano la scrittura braille. Questo permetteva alla ragazza di leggere e rispondere alle email, leggere libri o pagine internet - anche se, ormai lo sapeva, non tutti i siti erano utilizzabili dai non vedenti - e le aveva reso possibile studiare. Si era laureata quasi due anni prima in Lingue, Culture e Letterature Moderne alla triennale, poi non aveva più voluto proseguire, anche perché era andata fuori corso e ci aveva messo cinque anni a farne tre, per cui alla fine si era stancata dell’ambiente universitario. Aveva fatto alcuni concorsi e uno stage ed era ancora in cerca di lavoro come traduttrice o centralinista. Aprì la cartella che conteneva le sue storie, ne scelse una e, dopo aver fatto un po' di brainstorming, cominciò a scrivere. Amava la scrittura. Era magica, un mezzo con il quale riusciva ad esprimere ciò che voleva quando la voce non ne era in grado. Scriveva storie originali, poesie e fanfiction e le pubblicava su un sito di scrittura amatoriale da qualche anno, cosa che l'aveva fatta crescere e migliorare nello stile grazie ai consigli e alle critiche costruttive dei suoi lettori. Sapeva già come quella One Shot originale sarebbe andata a finire, ma non significava che andare avanti fosse facile. Scriveva velocissimo, usava il computer fin dalle scuole medie e conosceva tutti i tasti a memoria. Oltre alla barra braille a volte usava anche una sintesi vocale, un programma vocale installato sul suo PC, ma non le piaceva molto. La voce era molto simile ad una reale, ma la utilizzava solo per leggere libri o, in passato, l’aveva fatto nei momenti in cui aveva dovuto ripassare qualcosa che conosceva già bene. Ad ogni modo spesso leggeva con le mani perché le piaceva di più. Dovette fermarsi varie volte a pensare, appuntarsi diverse idee su un altro file e ascoltare un po' di musica per rilassarsi. In particolare le faceva bene sentire la voce di Demi Lovato, la sua cantante preferita e che l'aveva aiutata durante tante notti insonni in quei due anni e mezzo.
Si rese conto solo in quel momento di non aver mai sorriso per davvero quel giorno. Spesso le capitava di farlo in automatico ma poi capiva che non erano sorrisi veri, di felicità o di serenità, bensì fatti per rendere felici le persone intorno a lei. Avrebbe tanto voluto che tutti vedessero come stava davvero, ma non riusciva ad essere diversa, sorrideva inconsciamente. L'aveva fatto spesso, per darsi forza, anche in tutti quei giorni del liceo nei quali i suoi compagni l'avevano presa in giro.
"Sei cieca, fai schifo" le avevano detto tra le altre cose, usando quella parola, "cieca", che da allora in avanti per lei aveva assunto una connotazione negativa.
Non solo. A volte le avevano tirato pezzi di carte e gomma addosso ridendo e pensando che lei non se ne fosse accorta, rubato la merenda, un compagno le aveva fatto di nascosto un video ma per fortuna una ragazza se n’era accorta e l’aveva riferito al professore, buttato a terra il computer e detto che era stato uno sbaglio… Ma più che altro si era trattato di offese alle spalle che Monica, dopo tempo, aveva imparato a riconoscere come rivolte a lei.
“Lavati, puzzi tantissimo” era un’altra frase ricorrente, detta tra l’altro un giorno anche da una sua compagna che si trovava nel banco dietro di lei.
Ma la ragazza non era mai riuscita a rispondere, il cuore le era sempre battuto troppo forte, i muscoli si erano tesi e tutto aveva preso a girare. La paura era sempre stata più forte di se stessa.
Anche se spesso aveva pensato che facendolo le conseguenze per lei sarebbero state peggiori, a volte ne aveva parlato con gli insegnanti e i genitori - ora se ne rendeva conto, non abbastanza -, raccontando alcuni episodi, ma alla fine non era cambiato molto. Ogni giorno era andata a scuola sapendo che sarebbe stata offesa e i bulli l'avevano indotta a pensare che fosse quella la sua normalità, la sua quotidianità, che fosse giusto per lei vivere nella paura.
Dev'essere colpa mia aveva pensato ad un certo punto la ragazza. Devo aver fatto qualcosa di orribile, altrimenti non mi farebbero tutto questo. Magari hanno ragione loro, non valgo niente.
Ma cosa, di preciso? Non l’aveva capito.
Aveva perso il conto dei pianti che si era fatta da sola, nel letto, la sera. E le ci era voluto un lungo, lunghissimo lavoro con la psicologa durato anni per arrivare a capire che lei non aveva nessuna colpa, che non era la responsabile di chi le aveva fatto del male. Ancora adesso, quando pensava a tutte quelle cose non stava bene, ma sapeva di essere più forte di prima perché aveva fatto pace con la se stessa che si sentiva sempre in colpa, che si dava colpe che non aveva, e che aveva capito anche grazie a Demi Lovato che la cosa fondamentale quando si subisce bullismo è parlare. Monica si era interessata per caso alla sua vita privata, non era mai stata una vera fan di nessun cantante, e aveva scoperto che Demi era stata vittima di bullismo da piccola e, ad un certo punto, ricoverata in una clinica per disturbi alimentari e autolesionismo. Ascoltandola cantare e parlare attraverso alcune interviste, la ragazza aveva capito ancora meglio che lei andava bene così, che stare male non era una colpa, che era bellissima per come era e che, semmai, avrebbe dovuto cambiare per se stessa e non per gli altri. Non era una di quelle ragazze o ragazzine che crede che una canzone o un cantante possa salvare.
“Siamo noi a doverci salvare” mormorò.
Il problema è che salvarsi, trovare la forza di farlo, è la cosa più difficile, anche se non siamo soli a lottare. Richiede una forza che non tutti, purtroppo, possiedono. Per tanti anni Monica aveva creduto di non averla, ora cominciava a pensare che forse, molto forse, potesse essere il contrario se era arrivata fino a lì. E pensava anche che le canzoni potessero comunque aiutare moltissimo. Per lei era stato così. Quelle di Demi, anche le più tristi, la sua voce, le avevano fatto compagnia in giorni e soprattutto notti di ansia, depressione, pianti e insonnia, momenti orribili che sembravano non passare mai. E sì, questo poteva affermarlo, se non ci fosse stata lei superarli sarebbe risultato quasi impossibile.
Ripensando al bullismo si disse che era molto felice che suo fratello l'avesse fatto quando gli era successa una cosa del genere in prima superiore. Per fortuna si era risolto tutto e Monica sorrideva al pensiero che, almeno lui, stava vivendo una buona esperienza al liceo.
Sospirò. Il macigno che le pesava sul cuore, dato di sicuro anche dalla depressione, quel giorno proprio non voleva andar via. Trascorse l'intera giornata sentendoselo gravare addosso, mentre una costante stanchezza le toglieva ogni energia o voglia di fare.
E poi quel pensiero arrivò, improvviso come sempre.
Perché non posso togliere a mia mamma quel brutto male? Perché non posso averlo io?
Erano cose che si diceva spesso, radicate nella sua mente e non facili da estirpare. Certo, la madre si sarebbe di sicuro spaventata di più nel sapere che era sua figlia ad avere il tumore, eppure Monica le avrebbe tolto volentieri quel peso.
Passò molte ore in camera e, nei momenti nei quali non lo fece, si trascinò a fatica in casa. Quando i suoi le chiedevano cosa non andava lei provava a spiegarlo, ma sapeva che non avrebbero capito del tutto dato che non sapevano cosa si prova a vivere con la depressione.
La sera, a letto, cercò di fare il bilancio della giornata. Cos'era successo di positivo? Sua mamma stava finalmente un po’ meglio, erano stati insieme tutti e quattro durante i pasti e in qualche altra occasione e… basta. Beh, era già qualcosa. Provò a pensare a qualche progetto per il 2020, ma si disse che da un po' di tempo a quella parte credeva che il cambio d'anno potesse portare con sé solo qualcosa di negativo. Non sapeva se fosse la depressione a scatenarle quei pensieri o anche un po' di pessimismo, ma qualunque fosse la ragione era così che la vedeva. Probabilmente lei non avrebbe trovato lavoro, non si sarebbe sentita meglio, la mamma avrebbe continuato a fare risonanze magnetiche e controlli dalla radioterapista, o magari il tumore sarebbe cresciuto e si sarebbe mosso e avrebbe dovuto cominciare a fare radioterapie - le chemio non funzionavano con quel tipo di cancro. E insomma, tutto sarebbe stato uguale o peggiore. Ormai il pensiero della malattia di sua mamma era annidato nella mente di Monica, arrivava anche quando avrebbe voluto essere più tranquilla. Lei cercava di non rifletterci sempre, di non pensare, ogni volta che stava con la madre, che era malata, ma era più forte di lei, non ci riusciva. Ne aveva parlato con qualche amico di suo padre che le aveva risposto che concentrarsi su altro era facile. Lo sarà stato per loro, avrebbe voluto vederli nella sua situazione. Stava lavorando anche su tutto questo con la psicologa. L'unica cosa bella era il pensiero della scrittura. Scrivere le faceva bene e sapeva già che avrebbe concluso una lunga fanfiction e scritto diverse One Shot, sia fanfiction sia originali.
Insomma, la sua vita era fatta più di dolori e incertezze che di altro. E rendersene conto, ammetterlo, faceva male e paura.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: crazy lion