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Autore: _Lisbeth_    04/01/2020    2 recensioni
– Suonavi… Cosa suonavi?
- Il pianoforte.
- E non suoni più?
- No. Problemi col proprietario.
- Non eri pagato abbastanza?
- No, non per quello. – sospira, appoggiandosi al divanetto scuro e giocando coi capelli lunghi. – Se devo dire la verità, ero ben retribuito. Sono riuscito a racimolare un po’ di soldi. Il fatto è che secondo lui eravamo troppo giovani e inesperti sai… Non venivamo nemmeno da una famiglia ricchissima, quindi puoi ben capire come è andata a finire.
Vede l’espressione di Babette farsi più cupa. – E non avete provato a restare?
- Oh, certo. Più insistevamo, peggio facevano. E se mi fanno entrare è solo perché li pago.
- Non dovresti. – dice la ragazza, con la fronte aggrottata. – Sai quanti bar esistono così! Anche migliori e con gente più simpatica. Oh, sai che “Sumire” significa “violetta”?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Jake sospira pesantemente, la guancia appoggiata sulla propria mano e lo sguardo fisso sul posa bicchiere rosso alla sua destra, che sta sfiorando, girando e rigirando con l’indice. I toni caldi di quel locale dovrebbero rilassarlo, in teoria. Le pareti ornate di disegni orientaleggianti, di un tenue marroncino misto all’arancione, le poltroncine tinte di giallo scuro e il pavimento di legno, i divanetti color castagna. Però tutto ciò che sente è una gran malinconia mista a un leggero rancore. E alla voglia di bere.
Guarda la gente attorno a lui sorridere e chiacchierare amichevolmente, ma soprattutto sente le note della familiare musica jazz viaggiare per la stanza. E non capisce neppure se gli diano fastidio o gli piacciano. Ora che ci pensa, non sa neanche per quale assurdo motivo sia tornato lì dentro. Non passa neppure alcun cameriere. Una birra, solo e soltanto una birra, non chiede niente di più. Ed è probabile che in un posto come il Sumire Bar possano guardarlo male nel vederlo ordinare solo una misera birra. Però ha anche guardato il menù. Cocktails e intrugli talmente strambi ed elaborati da fargli frullare nella testa l’idea che nessun ingrediente c’entri con l’altro. E i prezzi esorbitanti non sono mica da meno.
Non ci aveva fatto caso, quando si esibiva lì dentro. Forse perché era lì per farsi pagare, non per pagare. E guadagnava anche un bel po’ di soldi. Perché, si sa, il pezzo forte di un Lounge Bar è proprio la musica: la musica giusta, quella che crea atmosfera, che rilassa o mette allegria. Poteva dire anche di cavarsela.
Sospira ancora, più forte. Si slega la sciarpa dal collo, iniziando a sentire caldo. Si rifiuta persino di guardare gli strumenti musicali e i musicisti. Guarda il tavolino rotondo davanti a sé, per poi essere distratto da una voce acuta e un po’ affaticata. Distrattamente alza gli occhi, trovando nella propria visuale una ragazza dai capelli scuri e raccolti disordinatamente in cima alla testa, piccoletta, con le gote rosse e un cappotto grigio e lungo, da una strana forma a uovo e dai bottoni giganteschi. Una sciarpa rossa, aria trafelata e un po’ persa.
Il giovane pianista schiude le labbra, balbettando appena. – Oh, ti serve… ti serve una mano? – le domanda un po’ incerto.
Vede la ragazza puntare lo sguardo su di lui e battere ripetutamente le palpebre, prima di scuotersi. – Io… Posso sedermi qui?
Jake alza le sopracciglia, inclinando appena la testa. Una richiesta un po’ strana, si dice. Perché, in effetti, non è solito che una sconosciuta ti chieda di sedersi di fronte a te. Senza nemmeno controllare che ci siano altri posti disponibili annuisce, liberando il tavolo dalle proprie cose e appoggiando tutto sul divanetto su cui è seduto. Vede la ragazza allargare un enorme sorriso e appoggiare il cappotto sullo schienale della poltroncina, liberando un maglioncino azzurro e una decina di collane.
Quando si siede allunga una mano verso di lui, stringendogliela. – Grazie, davvero! Mi hanno detto tutti di no… Sono stati davvero bruschi. – sospira, sistemandosi meglio sulla sedia e lasciandogli la mano. – Io sono Babette. E’ un nome tedesco, infatti anche il mio cognome lo è. Però io sono nata qui a Detroit. Mia madre è americana e mio padre è di Berlino.
Jake la guarda per qualche secondo con la bocca socchiusa, ascoltando la sua veloce parlantina con qualche perplessità. Tuttavia, non gli dispiace. Se deve dire la verità, non gli dispiace mai chiacchierare con qualcuno. Solo, non si aspettava di chiacchierare, quella sera. Tantomeno di chiacchierare così tanto.
Accenna un sorriso, ricambiando la stretta di mano. – Jacob. Ma mi chiamano tutti Jake. Abito a Frankenmuth, una cittadina molto piccola qui, nel Michigan. – le risponde ridendo appena e vedendola rivolgergli tutta la sua attenzione.
- Cavolo, non avevo mai conosciuto gente così antipatica prima di entrare qui. Almeno ho trovato questo posto vuoto e qualcuno che non ha lo sguardo fisso su un maledetto telefono. – sbuffa Babette, facendolo annuire. – Mi hai fatto un bel complimento. E, be’, chi più di me può dirti che tipo di gente si trova qui. Ci ho lavorato per un po’.
- Come cameriere? Hai fatto cadere dell’Arneis sulla gonna di una vecchia signora?
Una risata sincera lascia le labbra di Jake, che scuote la testa e incrocia le braccia al petto. – No, a dir la verità. Ero lì. – indica il piccolo palco a destra del locale, che ora riesce a vedere meglio. Vede quel pianoforte a coda bianco su cui ha suonato decine e centinaia di volte e sospira, alzando le spalle. – esattamente lì.
La ragazza si sporge per guardare gli strumenti musicali e poi volge nuovamente l’attenzione al pianista. – Suonavi… Cosa suonavi?
- Il pianoforte.
- E non suoni più?
- No. Problemi col proprietario.
- Non eri pagato abbastanza?
- No, non per quello. – sospira, appoggiandosi al divanetto scuro e giocando coi capelli lunghi. – Se devo dire la verità, ero ben retribuito. Sono riuscito a racimolare un po’ di soldi. Il fatto è che secondo lui eravamo troppo giovani e inesperti sai… Non venivamo nemmeno da una famiglia ricchissima, quindi puoi ben capire come è andata a finire.
Vede l’espressione di Babette farsi più cupa. – E non avete provato a restare?
- Oh, certo. Più insistevamo, peggio facevano. E se mi fanno entrare è solo perché li pago.
- Non dovresti. – dice la ragazza, con la fronte aggrottata. – Sai quanti bar esistono così! Anche migliori e con gente più simpatica. Oh, sai che “Sumire” significa “violetta”? Me lo ha detto mia madre. Le piace il Giappone. E “Sumire” è un nome giapponese.
- E’ stata la prima cosa che mi ha detto mio fratello quando ci siamo entrati per la prima volta. – annuisce Jake, per poi scuotere le spalle. – Oh, non so nemmeno io perché sia venuto qui. –forse per far vedere che mi guadagno comunque da vivere.
- Hai un fratello?
- Ne ho tre. Uno dei tre, Josh, è il mio gemello, quello del nome del bar. Sam è il minore della famiglia. E poi c’è Veronica, la mezzana. Suonavamo insieme, qui. Il batterista però è un caro e vecchio amico.
Babette muove appena la testa su e giù, realmente interessata. E il pianista, nel frattempo, pensa che una sana e genuina chiacchierata possa migliorargli la giornata. E poi finalmente, Jake vede il barista avvicinarsi con il proprio taccuino e guardarli, prima lei e poi lui. E’ nuovo, nota il musicista. Nuovo e giovane. Non lo ha mai visto, e menomale.
- I signori vogliono ordinare? – chiede il ragazzo alto e biondiccio, la voce un po’ incerta, le mani tremolanti.
Sta per rispondere ma Babette lo precede, schiarendosi la gola. – Un tè freddo al limone.
Di sera?
Il cameriere appunta l’ordine e poi volge lo sguardo verso di lui, che ordina la solita Guinness.
- Conto unico? – domanda il ragazzo.
Jake dà un’occhiata alla ragazza davanti a sé, che velocemente risponde. – No, grazie. Separati.
Quando il novellino porta via i menù il pianista sorride, guardando la ragazza con aria interrogativa. – Tè freddo a limone?
- Oh, sì, stasera devo guidare. E considerando che me il mio cervello inizia a fare le bizze al primo bicchiere, non ho voglia di rischiare. E tu? Come te ne torni a Frankenmuth?
- Autobus. La macchina ce l’ha mia sorella, stasera.
- Ah, sorelle minori. La capisco. E mio fratello capirebbe te.
- Hai un fratello maggiore?
- Esatto. Si chiama Theo. Se devo dirti la verità, non so se sia un nome tedesco o meno.
- Theo come Theodore?
- Ah ah.
Non fa in tempo che il cameriere torna da loro, appoggiando il calice di birra di fronte a Jake e il tè al limone di Babette.
- Se per qualche assurdo motivo te lo stessi chiedendo, ho realmente versato dell’Arneis sulla gonna di una vecchia signora. – sbotta Babette con aria distratta, girando lo zucchero sul fondo del bicchiere con la cannuccia.
E Jake, non avendo idea del perché, non ne è nemmeno così sorpreso. Dà un sorso alla sua birra, sentendosi subito meglio. Paradossalmente più lucido. – Facevi la cameriera?
- No. Ero a cena con il mio ragazzo e i suoi parenti.
Ora è sorpreso. Ma solo leggermente. Alza gli occhi su di lei insieme alle sopracciglia, lasciando che sulla fronte si formino due leggere onde e sulle sue labbra un’increspatura divertita. – Immagino che ora la famiglia del tuo ragazzo abbia un po’ di problemi con te.
La ragazza si abbandona sulla sedia, scrollando le spalle. – Tanto ci siamo lasciati.
- Oh. Cavolo, scusami.
- Macché, l’ho lasciato io.
Il pianista si riprende dall’imbarazzo provato dopo la secca risposta di Babette. – Paranoico e iperprotettivo?
- No, in realtà. Voleva assolutamente un bambino.
- Come? – Jake strabuzza leggermente gli occhi, vedendo la ragazza così giovane. – Scusa, potrei essere indiscreto, ma quanti anni avete?
- Io ne ho ventidue e lui ventiquattro, ma il problema principale non è questo. E’ che, sai, ho altri progetti. Tante cose in testa che non si realizzerebbero facilmente con un bambino, mi spiego?  
- Certo. Se fossi stato in te avrei agito allo stesso identico modo.
- Anche tu hai progetti in testa?
A quel punto si blocca, senza avere un’idea precisa di ciò che vorrebbe dire. Li ha, sì, o almeno così crede. Ma qualcosa gli rende difficile la risposta, anche se non capisce esattamente quale.
Gli sembra che Babette se ne sia accorta. Infatti la ragazza smette di mescolare il suo tè, puntando lo sguardo su di lui. – Posso provare a darti una mano. Se non ti sono d’intralcio. – trae un respiro profondo, battendo appena il dito indice sul tavolo. – Dunque. Volevi diventare un importante pianista e hai optato per serate qui, in questo locale, per riuscire pian piano a emergere sempre più, ma ti hanno buttato fuori. Quindi ora hai perso la voglia di continuare a suonare perché sei stato demoralizzato.
Il pianista, a quel punto, stacca gli occhi dalla sua birra e annuisce, più a se stesso che a lei. Poi la guarda assottigliando gli occhi. – Sai, non è del tutto sbagliato. Ma nemmeno del tutto giusto. Sono cresciuto ascoltando i vinili che avevano i miei genitori in casa, e se devo dirti la verità il jazz non era il mio genere preferito. Ciò che mi faceva amare la musica erano persone come Eric Clapton e Jimi Hendrix, puntavo a diventare come loro, un giorno. E non c’era giorno che passassi senza prendere la mia chitarra tra le braccia. Volevo esibirmi nei grandi stadi, nei parchi. Però ho finito per accontentarmi anche di quello che facevo fino a poche settimane fa
Vede un sorriso spuntare sulle labbra di Babette, che prende un altro sorso dal suo bicchiere. – In effetti mi sembri più uno da stadio che da Lounge bar. Capelli lunghi, Chelsea boots, vestiti scuri. Però mi hanno insegato a non giudicare un libro dalla copertina. Anche se tu in teoria non sei un libro. A proposito, io ambisco a scrivere libri. Di qualunque tipo. Romanzi, libri per bambini, saggi. Di solito trovo l’ispirazione con il jazz. – la vede annuire, continuando a controllare se lo zucchero si sia sciolto. - E a dire il vero, l’ispirazione in questo momento un po’ ce l’ho. Oh, non ti ho ancora chiesto quanti anni hai.
- Ventitré. Ad aprile ventiquattro.
- E io a maggio ventitré.
- Potremmo essere dello stesso segno zodiacale.
- Toro.
- Toro anch’io. – ride il pianista, per poi accorgersi di aver, intanto, finito la birra.
Vede Babette frugare nella borsa e tirare fuori il borsellino, guardando il conto che il cameriere ha portato assieme alle bevande. – Dato che sei stato l’unico in questo locale a essere carino con me, ti offrirò la birra.
Jake batte le ciglia un paio di volte, scuotendo poi la testa e sporgendosi dal tavolo per prendere a sua volta il portafogli dallo zaino. – Non esiste, qui dentro costa tutto un occhio della testa!
- Tranquillo, ho rubato abbastanza soldi ieri sera a quell’avvocato.
L’espressione del ragazzo si fa ancora più sconvolta. – Che?!
- Sto scherzando. Mi guadagno da vivere come insegnante di basso.
E ancora, un altro solco si forma sulla fronte di Jake. – Suoni il basso e non me lo hai detto?
La ragazza ride, annuendo. – Basso, chitarra e pianoforte. Ma il mio cuore appartiene all’elegante bestione a quattro corde.
- Io ti batto. Ne suono altri tre.
- Batteria, sassofono e violoncello.
- Sbagliato. Batteria, ukulele e mandolino. E ho studiato anche un po’ il flauto.
- Traverso?
- No. Non potevo permettermelo.
- Ma ora potresti.
- Circa.
Lo scambio di battute così repentino fa ridere entrambi e Jake resta per un po’ a guardare il sorriso vispo della giovane scrittrice, che ne approfitta per sgusciare fuori dalla poltroncina e prendere tutte le proprie cose, correndo alla cassa.
Solo dopo un po’ il ragazzo capisce e inizia a correrle dietro, accorgendosi che sia lui che Babette sono guardati male dalla gente seriosa di quel locale. Ma in quel momento non gliene frega più di tanto, troppo concentrato a impedire alla ragazza di pagare al posto suo. Quando arriva alla cassa, però, è troppo tardi. Babette ha già pagato e lo aspetta alla porta con un sorrisetto soddisfatto a incresparle le labbra rosee. Jake alza gli occhi al cielo, facendosi a sua volta scappare un sorriso. Avvolge la gola nella sciarpa grigia, uscendo insieme alla ragazza e infilando le mani in tasca.
Il freddo di gennaio gli trafigge immediatamente gli occhi e la pelle, facendolo tremolare. Babette lo guarda, schiarendosi la gola. – Se pensi che ti farò aspettare qui l’autobus hai capito male.
Il pianista si affretta a girarsi verso di lei, prendendole d’istinto le mani come a volerla pregare, scaturendo un certo imbarazzo negli occhi e sulle guance di entrambi. La lascia subito dopo, mormorando delle scuse sotto alla sciarpa che ora gli copre anche le labbra. A quel punto la abbassa, suo malgrado, per parlare. – Oddio, no, non scomodarti anche per questo. Mi sentirò in colpa per tutta la vita.
Babette alza gli occhi al cielo e scuote la testa. – Ma che dici? Non devi sentirti in colpa. Se mi sto offrendo di darti un passaggio, vuol dire che ho voglia di farlo. Tanto, per tornare a casa, da Frankenmuth ci passo tutte le sere.
Jake è ormai talmente perplesso da sospettare di poter vedere la propria bocca cadere a terra da un momento all’altro. Non capisce per quale motivo quella ragazza sia così gentile e disponibile, addirittura da volergli dare un passaggio. Insomma, lui avrebbe potuto tranquillamente essere un pazzo e ucciderla da un momento all’altro lungo la strada. E, ora che ci pensa, potrebbe potenzialmente esserlo lei. Ma magari è solo gentile. E’ solo umana, empatica. E lui semplicemente non è abituato, in un mondo che pensa solo ai propri scopi, ai propri bisogni. Qualunque cosa sia, ad ogni modo, le è grato di poter ricevere quel benedetto passaggio.
E improvvisamente si rende anche conto di aver praticamente dimenticato il motivo per cui era contrariato. Alla fine sospira, ringraziandola con un sorriso.
 
La strada che percorreva quasi tutte le sere prima di essere sbattuto fuori dal locale gli sembra meno buia e più corta. In radio c’è “Sunshine of your love” dei Cream, che cantano entrambi ridendo quando uno dei due sbaglia qualche parola.
E poi, sperduto, in mezzo al nulla più totale su un prato chilometrico, un pianoforte a coda bianco. Jake batte un paio di volte le ciglia, come per rendersi conto di essere sveglio.
Strizza gli occhi e lo indica alla ragazza alla guida. – Ma lo vedi anche tu, quello?
Babette si volta nella direzione che Jake sta indicando e aggrotta la fronte, accostando. Il pianista la vede sgranare gli occhi, parcheggiare la macchina sul primo posto che le capita e scendere dall'auto talmente repentinamente che a Jake sembra stia per cadere. Confuso, resta in macchina vedendo dove la ragazza sia diretta, dove abbia intenzione di andare. Lo sportello alla sua destra si apre, la mani piccola e calda della ragazza circonda il suo polso e lo trascina fuori insieme a lei. La vede cominciare a correre e cerca di starle al passo mentre si avvicinano sempre più a quel maestoso pianoforte, di cui Jake continua a chiedersi la provenienza e i perché.
Da vicino è probabilmente più bello: il legno è leggermente ammaccato, non gli sembra essere nuovo. I tasti sono appena rovinati ma completamente integri, e c’è addirittura anche lo sgabello. Sgabello su cui Jake viene trascinato, vedendo Babette guardarlo sorridente e curiosa come una bambina.
- Non ti ho ancora sentito suonare!
E quell’esclamazione, il ragazzo la sente come una richiesta. E’ incerto, non tocca un pianoforte da quando è stato mandato via dal Sumire bar. Però poi, per qualche motivo, l’espressione corrucciata sul suo viso si trasforma in una risata leggera, mentre posa le dita sul pianoforte. Prova a buttare giù un tasto, facendo suonare un “La” nel buio interrotto solo dal bianco del pianoforte.
- Hai richieste? – chiede, volgendo lo sguardo a Babette.
La ragazza scuote la testa mentre guarda l’enorme pianoforte.
Le dita di del ragazzo permettono alle familiari note di “Everybody needs Somebody to love” di risuonare nelle orecchie della giovane scrittrice, che scoppia a ridere con lui, per poi cominciare a correre e a saltellare attorno allo strumento musicale con le braccia alzate e un sorriso stampato sul volto. L’elastico che le raccoglie i capelli scivola via, liberando dei riccioli scuri e disordinati. Jake la guarda e sorride, pensando a che piega strana abbia preso quella serata da quando Babette ha preso il posto davanti a lui a quel tavolino. Una serata che si era prospettata noiosa, forse anche un po’ triste, è finita con lui a suonare un assurdo pianoforte in mezzo ad un prato, in un’assurda situazione e con quella ragazza che, rispetto a tanta gente noiosa, era anche lei, a sua volta, un po’ assurda.
E il ragazzo si alza poi dallo sgabello, raggiungendola e iniziando a ballare a sua volta con una musica che è solo nella loro testa, ma che permette a entrambi di ridere. Babette gli afferra la mano, corre facendo svolazzare i capelli e la sciarpa rossa fino a cadere insieme a lui sull’erba. Insieme a lei, Jake ride, senza fiato e con il cuore che, un po’ più leggero, batte più forte.
Come due bambini si rotolano insieme sul prato lucido di pioggia, non preoccupandosi di sporcare i propri vestiti in quella che a loro sembra una serata calda, con una musica in testa.
E le loro dita si intrecciano, mentre gli occhi di entrambi incontrano la mezzaluna e le stelle nel buio della notte.
Ancora una volta, Jake pensa “che strana serata”.

Infatti, lo penso anch’io. Ho realmente dato una forma all’ispirazione di cui parlai a quel giovane pianista quella sera, prima che tutto prendesse quella piega così strana e assurda.
Non l’ho più rivisto, non ci siamo mai scambiati i numeri di telefono e non so il suo cognome.
Stasera, però, credo che farò un salto al Sumire Bar. Ho voglia di un tè al limone.
- Babette.
   
 
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