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Autore: Roberto Turati    04/01/2020    1 recensioni
Una storia che dedico a Maya Patch, mia amica e mentore.
 
Per capire del tutto questa storia del mio AU, è meglio se leggete la storia di Maya, prima di questa.
Mentre la tribù dei Difensori si sta ancora riprendendo dall'assedio dei Teschi Rossi, Aurora attende con impazienza il ritorno di Lex da Ragnarok per poter continuare ad indagare con lui sugli indizi sparsi per l'Isola. Tuttavia, fa una scoperta inaspettata: rinviene un antico oggetto portato nel mondo delle Arche da un'altra dimensione. Studiandolo, scopre il luogo d'origine del suo defunto proprietario: ARK, l'isola preistorica.
 
Aurora e Lex vi si perderanno loro malgrado. Saranno in grado di trovare un modo per ritornare sulle Arche, nonostante tutti gli ostacoli che ARK riserva per loro?
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Aurora si svegliò alle prime luci dell’alba: aveva lasciato la finestra aperta, perché da fuori entrava una piacevole aria fresca. Il letto di Acceber era così comodo che si era addormentata quasi subito. Con la bocca impastata e i capelli ancora più arruffati del solto, si mise seduta e notò di essere sola: Lex era già uscito. Diede un’occhiata fuori: di notte si era rannuvolato, ma non stava piovendo. Il cielo era bianco, l’aria era uggiosa e c’era una foschia che nascondeva in parte le sagome delle case. Decisa a cominciare la giornata e curiosa di visitare l’Apoteosi, si vestì e scese le scale. Sentì delle voci e trovò Lex e Acceber che parlavano:

«Buongiorno, che mi sono persa?» chiese.

«Le stavo solo chiedendo una cosa» rispose Lex.

«Il tuo amico ha visto la mia collana e gli è sembrata familiare, gli stavo raccontando da dove viene»

Acceber, seduta al tavolo e intenta a sgranocchiare noci, si tolse un ciondolo che portava collo e lo mostrò ad Aurora. Era un pendente grigio e lucente, a forma di aereo militare, con una piccola gemma rossa incastonata al centro. Il materiale di cui era fatto era inconfondibile e Aurora se ne stupì:

«Ma quello non è TEK?» chiese a Lex.

Il biondo annuì, affascinato:

«Proprio così. Come l’hai avuta, Acceber?»

«Me l’ha regalata la mia amica Diana, sei lune fa. È a capo di una truppa di soldati stranieri dalle armature scintillanti con ogni sorta di strumento miracoloso. Vengono qui ogni mezzo anno per catturare bestie selvatiche, poi svaniscono nel nulla dopo sei lune» spiegò.

Aurora guardò Lex e lui le restituì l’espressione attonita.

«Ti ha mai detto perché lo fanno?»

«È stata la prima cosa che le ho chiesto! Mi ha raccontato che vengono dal futuro. Da dove vengono, il mondo si è ridotto a una landa desolata, così stanno creando delle isole finte nel cielo per salvare la natura. Ma siccome hanno perduto tutti gli animali, vengono su quest’isola per procurarsi le bestie»

Aurora si godé l’espressione che fece Lex dopo quella rivelazione: dire che era affascinato sarebbe stato l’eufemismo del secolo. Il suo amico la guardò e non perse un secondo per rimuginare su ciò che aveva appreso:

«Sembra che questo mondo abbia forti somiglianze col nostro: anche qui, sul pianeta c’è o ci sarà una società basata sul TEK che andrà incontro a una catastrofe globale e, proprio come nel nostro universo, ha intenzione di costruire le Arche!»

Aurora ebbe un dubbio: questo significava che il mondo fuori da quell’isola era già andato perduto? Volle subito una conferma:

«Aspetta, Acceber. Allora sai com’è il mondo fuori da ARK? È come l’ha descritto la tua amica Diana?»

La ragazza scosse la testa:

«Non per tutti»

«Che intendi?»

«Vedete, nessun figlio di ARK ha mai lasciato l’isola, ma sembra che il muro invisibile al largo della costa faccia strani scherzi col tempo. Tutti i naufraghi che approdano qui provengono da epoche diverse, ognuno ha storie uniche da raccontare»

Ora Lex era ancora più rapito:

«Incredibile: in un modo o nell’altro, quest’isola è piena di dettagli in comune col nostro mondo. Persino i sopravvissuti da epoche diverse! L’unica cosa che mi sembra diversa è il contesto dietro tutto ciò»

Aurora si sfregò le mani, eccitata e soddisfatta:

«Caspita, è solo il nostro secondo giorno di visita e abbiamo già così tanta carne al fuoco! Ne è davvero valsa la pena. Ammettilo, Lex: ti stai immaginando la faccia di Nick quando gli mostreremo tutto»

Il biondo fece spallucce, mentre si alzava dal tavolo:

«A me interessa venirne a capo, quella soddisfazione sarà il contorno. Comunque, devo andare: mi sono accordato con Drof per seguirlo e fargli qualche domanda»

«Giusto, intanto io parto con Aurora. Vi porto da mio padre» disse Acceber.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

Uscirono dalla casa e seguirono la ragazza lungo le vie del villaggio. Quando giunsero alla piazza, videro Drof che li aspettava ai margini. Era in compagnia dello stesso carnotauro della sera prima, mentre tutt’intorno era sdraiata una muta degli stessi lupi giganti che vivevano sulle Arche. Adesso che era mattina, in giro per il villaggio c’erano molte più persone, oltre alle bestie che gironzolavano in libertà. L’uomo accolse la figlia con un sorriso:

«Ah, eccovi!»

«Padre, quale bestia mi consigli prendere per portare Aurora all’Apoteosi?»

Drof si strofinò la barba con aria pensierosa per qualche istante, per poi suggerirle:

«E se facessi sgranchire le zampe ad Anitot? Ormai è vecchia, concedile qualche viaggio»

Sua figlia ridacchiò:

«Hai ragione: finché regge ancora lo sforzo…»

Acceber, allora, si portò le dita alla bocca ed emise tre brevi fischi in rapida successione. Di lì a poco, furono raggiunti da uno smilodonte dal pelo arruffato e scolorito, pieno di cicatrici di battaglia e dallo sguardo mesto. Dopo che Acceber l’ebbe accarezzato un po’, le due ragazze montarono sulla sella del grosso felino, si congedarono e partirono. Quando se ne furono andate, Lex si avvicinò a uno dei lupi e gli accarezzò il muso. Il lupo gigante rotolò sul dorso e tirò fuori la lingua, felice dei grattini.

«Sono tutti tuoi, giusto?» chiese Lex.

«Sì. Sono la nostra famiglia di lupi: i genitori e i loro figli» disse Drof.

«Bello. Qual è il padre di famiglia?»

Drof indicò l’unico lupo del tutto bianco. Lex si avvicinò a quel magnifico esemplare e accarezzò anche lui. Il lupo pretese subito più carezze appena cessarono: mostrava una certa altezzosità che gli altri lupi non davano a vedere. La muta era composta da cinque esemplari, che Drof indicò uno alla volta: c’era il padre, candido come la neve, poi la madre, che invece era nera, e i loro tre cuccioli, tutti colorati con sfumature di grigio diverse. Quando vide tutte quelle carezze, il carnotauro chinò il capo, strofinò le spalle di Drof col muso e gli sbuffò in faccia.

«Ehehe, non cambi mai, vero?» ridacchiò Drof.

Si mise una mano in tasca e ne tirò fuori una striscia di carne essiccata. Il carnotauro la osservò con la bava alla bocca e il suo padrone gliela porse. Se la portò alla bocca con la lingua, con una delicatezza inaspettata. Lex incrociò le braccia e constatò:

«Sembra che ci sia tanto affezionato»

Drof controllò tutte le fibbie della sella e batté con affetto i palmi sul collo del carnotauro. Iniziò a guidarlo verso l’uscita dal villaggio e Lex li seguiva a ruota, circondato dalla famiglia di lupi. L’Arkiano fece un sorriso fiero e confermò:

«È così. Onracoel è la mia prima cavalcatura: l’ho addomesticato durante la mia prova della prima doma e, da allora, io e questo testone ingordo siamo inseparabili»

«La prova della prima doma? È una tradizione che avete?»

«Sì. È un rito di passaggio che i membri di tutte le tribù devono superare a diciotto anni. Serve a dimostrare che un giovane Arkiano è pronto a sopravvivere all’isola senza l’aiuto dei suoi genitori»

«Bene, ho trovato il primo argomento da approfondire!»

«Come vuoi, ma ora partiamo»

In quel momento, uscirono dal cancello del villaggio. Dopo alcune centinaia di metri al passo, Lex salì sulla schiena del lupo bianco e Drof spronò Onracoel. Le bestie partirono di corsa e iniziò la traversata della prateria. La cavalcata fra le rade macchie di betulle e i cristalli rosati si protrasse per un paio d’ore, su e giù per i dolci rilievi.

«Dove stiamo andando?» chiese Lex.

«Ci aspetta una caccia grossa: ho accettato un favore»

«Di che si tratta?»

«Dobbiamo uccidere un giovane spaccaossa. Si avvicina troppo ai campi della mia tribù e ha preso l’abitudine di attaccare le mandrie del villaggio per avere prede facili. Qualcuno deve occuparsene»

«Capisco»

«Dimmi, su queste Arche da cui vieni hai esperienza con la caccia?»

«Ma certo: ho affrontato creature molto più pericolose dei tirannosauri»

«Bene. Non mi è mai capitato di cacciare con uno straniero. Sono proprio curioso di vedere come te la cavi»

Lex ridacchiò, divertito:

«Allora spero di non deluderti. Nel frattempo, ti dispiace se inizio a farti qualche domanda?»

«Va bene, però dopo. Ora pensiamo a cacciare»

«D’accordo»

Sembrava che Drof sapesse già dove cercare la loro preda, quindi Lex si limitava a seguirlo. A un certo punto, i lupi cominciarono ad annusare l’aria e piegarono le orecchie all’indietro: avevano fiutato il bersaglio. I due si lasciarono guidare dal branco. I lupi si fermarono davanti a un masso pregno di liquido che odorava di carne marcia e sale: il tirannosauro aveva urinato lì e, dato che il liquido fumava ancora, era vicino. Drof prese un arco e una faretra dalla sella di Onracoel e la passò a Lex:

«La sai usare?»

«Altroché»

«Molto bene. Le frecce sono piene di veleno di ape»

Lex conosceva bene l’effetto di quei pungiglioni. Capì subito la strategia:

«Oh, quindi il piano è paralizzarlo?»

«Esatto. Allora sei davvero esperto!»

«Da dieci anni» specificò Lex.

Drof prese un arco ricurvo, molto più robusto ed elaborato di quello che aveva rifilato a Lex, e sorrise:

«Sai, potremmo andare molto più d’accordo di quanto pensassi, Lex. Uno straniero che la sa quanto un vero figlio di ARK? Perché no!»

Lex ridacchiò e ringraziò, quindi chiese se potevano andare. Drof lo esortò a scendere dal lupo e lasciar andare il branco. Lex obbedì e i lupi cominciarono subito a proseguire da soli: stavano bassi e fiutavano con attenzione il terreno. Drof ordinò di stare in attesa anche dopo che svanirono alla vista. Lex non era del tutto certo di quale fosse la strategia, ma volle fidarsi. Poco dopo, i lupi tornarono indietro e guardarono i due umani con trepidazione, in attesa che li seguissero. Drof scese da Onracoel e diede il via. Quindi, con calma e in silenzio, si misero a seguire la muta.

Erano controvento, quindi il loro odore non avrebbe raggiunto il tirannosauro prima che fosse alla loro portata. I lupi raggiunsero il bordo di una sporgenza su una collina e si accucciarono. In mezzo al prato, in fondo al colle, c’era il tirannosauro. Drof e Lex si distesero sull’erba per essere meno visibili, mentre Onracoel fece un passo indietro per non stare in vista. Il teropode, che dava loro le spalle, stava spolpando la carcassa di un diplodoco, nel mezzo del prato.

«Sta mangiando, avrà la guardia abbassata» commentò Lex.

«Esatto. Inoltre, intorno a lui l’erba è molto alta e ci sono alcuni massi: possiamo agire come da piano senza problemi»

Fece un cenno al lupo bianco, che a sua volta diede un ordine alla sua famiglia. La muta, allora, scese con agilità dal pendio e si inoltrò nell’erba alta, fino a scomparire alla vista. Drof disse a Onracoel di stare dov’era, quindi fece segno a Lex di seguirlo. Scesero a loro volta, si nascosero nell’erba alta e si rifugiarono dietro uno dei massi, il più vicino al tirannosauro. Il vento era sempre a loro favore, quindi il teropode non si accorse di niente e non smise di mangiare.

Piano piano, i lupi lo circondarono. Il padre si appostò oltre la carcassa, attese il momento giusto e partì all’assalto: usò il diplodoco come trampolino e balzò sul dorso del tirannosauro, che aveva tutta la testa immersa nel fianco spolpato della preda. Affondò i denti nel collo del dinosauro e strinse con forza, prima che il tirannosauro iniziasse a guardarsi intorno, in preda alla confusione. Quando capì di avere qualcosa sulla schiena che lo mordeva, si dimenò e lo scaraventò a terra con un energico scossone. Il lupo bianco ululò e anche gli altri attaccarono.

«Si comincia, Lex!» esclamò Drof.

I due prepararono gli archi, mentre tenevano d’occhio il combattimento. La prima cosa di cui Lex si accorse fu che i lupi non stavano cercando davvero di abbattere il tirannosauro. Mentre schivavano gli attacchi del dinosauro furioso, lo punzecchiavano mordendo con forza gli stessi punti fino a ferirlo, per poi ripiegare subito. Uno azzannò la caviglia e scappò prima di farsi schiacciare; un altro balzò, afferrò una zampa anteriore e la strattonò fino a staccare una delle minuscole dita; un terzo si accanì sul costato e aprì diverse ferite superficiali ma fastidiose sul fianco.

Il tirannosauro si infuriava ogni secondo di più e le provava tutte per ucciderli: menava la coda a destra e a sinistra, tentava di calpestarli, cercava di afferrarli con le fauci; ma i lupi erano agili ed evitarono tutti i colpi, finché una femmina non commise un’imprudenza: imitando il padre, salì sul diplodoco morto e si appese con gli artigli e le zanne al collo del bersaglio. Il tirannosauro la vide arrivare e scosse il capo fino a sbilanciarla; la lupa cadde a terra, il tirannosauro la afferrò per i fianchi e strinse la presa. I suoi denti appuntiti squarciarono gli organi e frantumarono le ossa. La lupa era già morta, quando fu gettata lontano. In compenso, aveva allargato una ferita già inflitta prima dal lupo bianco.

«Maledetto!» imprecò Drof.

Fece un rapido fischio e Onracoel partì di corsa. Sfrecciò giù per il pendio e attraversò il prato in un lampo, con le corna puntate in avanti. Travolse il fianco del tirannosauro proprio mentre si scrollava di dosso la lupa nera, la madre. Il carnotauro lo centrò al ginocchio e il grande predatore si lasciò sfuggire un gemito uggiolante, mentre barcollava indietro e con la zampa dolorante. Mantenne l’equilibrio per un soffio. Onracoel scrollò il capo e ruggì, in segno di sfida, quindi si allontanò di corsa per preparare una seconda carica.

«Ora possiamo cominciare a tirare!» annunciò Drof.

A quel punto, con una velocità stupefacente e una mira precisissima, iniziò a scagliare le frecce nelle ferite del tirannosauro. Non sbagliava un colpo, nonostante il bersaglio si muovesse di continuo. Lex era più lento, ma cercava di compensare prendendo la mira meglio che poteva. Mentre le sue ferite si riempivano di frecce avvelenate, il tirannosauro afferrò un altro lupo e, con una stretta delle fauci, lo squarciò in due.

Il teropode sputò la vittima; gli colavano cascate di sangue dalla bocca aperta. I lupi si scagliarono su di lui con tutta la loro ferocia: il padre gli saltò alla gola e vi rimase appeso per i denti, la madre azzannò e incise il tendine d’Achille e un’altra femmina graffiò la pancia. Fuori di sé, il tirannosauro tentò di atterrare anche loro, ma d’un tratto cominciò a traballare e muoversi a fatica: la tossina sulle punte di freccia stava iniziando ad agire. Nel panico, il teropode ruggì e fece per scagliarsi a peso morto sui lupi, quando la sua zampa fu travolta di colpo con una potenza devastante. Lex udì lo scricchiolio delle ossa persino da lì.

Stavolta, Onracoel era partito alla carica da molto più lontano di prima. Dopo quell’impatto, il tirannosauro mise la zampa in fallo e si rovesciò su un fianco. A quel punto, la tossina prevalse e il predatore non riuscì più a muoversi. Il carnotauro, allora, raggiunse la sua gola e la morse. Serrò le fauci e strappò la trachea con uno strattone vigoroso. Dopo qualche minuto di sospiri gorgoglianti, il tirannosauro spirò. Nonostante la morte di due lupi, la battuta di caccia era finita bene. Drof e Lex scesero dal macigno e si avvicinarono al loro trofeo con le armi a tracolla. L’Arkiano guardò con tristezza i due lupi morti ed esaminò le carcasse ancora calde.

«Peccato per loro, erano ottimi esemplari» affermò Lex.

«Altroché»

Il lupo bianco, la lupa nera e i loro figli si sederono in cerchio intorno alle due carcasse, quindi iniziarono ad annusarle e guaire con sguardi tristi. Il branco era in lutto per le sue perdite. Drof e Lex osservarono la scena in silenzio, dispiaciuti. Con un sospiro, l’Arkiano si sedé su una roccia e disse:

«Dicevi di avere domande. Ora puoi farne quante ne vuoi»

«Oh, grazie»

Il biondo iniziò a riflettere su tutto ciò che voleva sapere nei dettagli, passeggiando avanti e indietro e tenendosi il mento fra il pollice e l’indice. Una volta che ebbe raccolto le idee, si leccò le labbra a prese fiato: sarebbe stata una lunga intervista.

ArkCanon1 by RobertoTurati

Apoteosi by RobertoTurati

Cavalcare Anitot era un’esperienza buffa: vecchia e acciaccata com’era, la sua andatura dava ad Aurora la costante sensazione di stare per cadere. Aurora contò sei cicatrici sul corpo dello smilodonte; c’era il segno di un taglio sul tendine della zampa posteriore destra, il che spiegava la goffaggine. Acceber raccontò che suo padre, per non far perdere smalto ad Anitot, ogni tanto la dava in prestito come bestia da guardia per case e accampamenti da caccia.

La figlia di Drof era piena di aneddoti interessanti, tanto che ad Aurora il viaggio sembrò molto più breve di quanto si aspettava, a forza di ascoltarli. Ogni tanto, per ricambiare, raccontava a sua volta momenti specifici della sua vita alla base dei Difensori. Le descrisse i suoi compagni di tribù e i migliori momenti che aveva trascorso con ciascuno di essi, oltre a spiegare la situazione sull’Isola: raccontò dell’attacco dei Teschi Rossi e delle misure che Nick stava prendendo per aumentare le difese. Acceber ascoltava rapita, con uno sguardo sognante. Ad Aurora si scaldava il cuore, al pensiero della sua nuova amica che provava a immaginare tutto.

Dopo tante ore di viaggio e chiacchierate, le due ragazze raggiunsero la Foce Cremisi, una vasta foresta di mangrovie dalle foglie scarlatte che ricopriva buona parte della costa orientale dell’isola. Per attraversarla, si mantenevano sugli atolli fangosi e nelle lingue di sabbia appena sommersa tra le radici delle mangrovie, per stare lontane dalle acque in cui potevano nuotare i predatori palustri. Aurora si infradiciò di sudore in pochi minuti: in quel posto, c’era una cappa di afa soffocante e dall’acqua si alzavano miasmi di vapore.

Dopo un po’ di tempo, uscirono dalla foresta di mangrovie rosse e giunsero alla costa, al cospetto di uno spettacolo mozzafiato: centinaia di enormi rocce così immense e vicine le une alle altre da coprire il cielo. Ciascuna fluttuava nell’aria a una quota diversa. Le più grosse lambivano la superficie del mare con la loro punta inferiore. Da molte delle rocce fluttuanti uscivano delle cascate. Enormi cristalli arancioni sporgevano dalle loro pareti, le quali erano avvolte da radici colossali che formavano una rete di ponti tra le isole volanti. Aurora notò cime di alberi che sporgevano oltre il bordo delle rocce e intuì che lassù doveva esserci un vero e proprio bosco.

«Incredibile!» mormorò Aurora.

«Non vedevo l’ora della tua reazione» ridacchiò Acceber.

Le ragazze scesero dal dorso dello smilodonte. Acceber indicò una tenda in pelle di rettile allestita poco lontano sulla spiaggia, al limitare della foresta di mangrovie. Spiegò all’amica:

«Lì vive il vecchio Oderffog, un uomo che presta il suo becco a punta a chiunque voglia raggiungere le isole volanti»

«Cos’è un becco a punta?»

«Eh? Oh, è una bestia volante. Mi pare che voi stranieri la chiamate pite… peta…»

«Pteranodonte?»

«Ecco! Grazie»

Detto ciò, Acceber prese un sacchetto che portava appeso alla cintura e lo passò ad Aurora. Spiegò che dentro c’era un piccolo tributo con cui pagare Oderffog per farsi prestare la sua cavalcatura. Aurora dedusse da ciò che l’amica voleva farla andare da sola e ne fu perplessa:

«Non vieni? Perché?»

«Il vecchio Oderffog chiederebbe un doppio pagamento, ma non mi sembrava il caso: l’ho già fatto molte volte, conosco bene l’Apoteosi. Inoltre, ci si gode meglio il paesaggio da soli» ammiccò.

«Se lo dici tu…»

«A proposito, sai cavalcare le bestie volanti?»

«Sì, certo»

«Bene»

Quindi, mentre Acceber dava un pezzo di carne ad Anitot, Aurora si avvicinò alla tenda con fare timido e chiese se c’era qualcuno. Ne uscì un anziano di corporatura minuta e dall’aspetto vispo e arzillo, con pochissimi capelli e una lunghissima barba pettinata. Aurora gli rivolse un saluto cordiale:

«Salve!»

Il vecchio sorrise e indicò le isole volanti col pollice:

«Salve a te, straniera. Vuoi andare lassù?»

«Sì. Pago subito»

Gli porse il sacchetto. Il vecchietto lo aprì, ne controllò il contenuto e la ringraziò. Quindi si portò due dita alla bocca ed emise un lunghissimo fischio. Pochi secondi dopo, dal cielo scese uno pteranodonte dal becco pieno di graffi e la cresta consunta.

«Puoi farlo atterrare dove vuoi, tutte le volte che vuoi: è molto obbediente» spiegò Oderffog.

«Grazie» rispose Aurora.

Il vecchio lanciò un boccone di carne allo pteranodonte, che lo afferrò al volo e lo inghiottì. Quando vide Aurora, girò la testa di lato per osservarla meglio, poi le arruffò i capelli con la punta del becco. Oderffog disse che era il suo modo di fare amicizia coi nuovi visitatori.

«Ehi, ciao! Vuoi essere mio amico, eh?» rise Aurora.

«Si chiama Yxag»

«Ciao, Yxag! Ti va di portarmi lassù?»

A quel punto, Aurora montò in sella e spronò lo pteranodonte, che gracchiò, spiegò le ali e decollò; sfruttò le correnti d’aria oceaniche per salire oltre le rocce fluttuanti. Una volta che poté ammirare l’intera Apoteosi dall’alto, la sopravvissuta ne fu meravigliata. Ogni isola volante era un angolo di paradiso, un boschetto tropicale come nessun altro. Ancora più sbalorditivo era il fatto che vi bazzicavano molte creature delle specie più variegate, dai kentrosauri ai brontosauri. Ne vide alcuni spostarsi da un’isola volante all’altra usando le radici giganti come ponti: era spettacolare.

Le isole volanti più gigantesche contenevano persino dei laghi a forma di anello e, su quella più vasta, il tutto era coronato dalla formazione di cristalli più gigantesca che Aurora avesse mai visto. Si stagliava in mezzo al verde, come una gemma scintillante incastonata in cima a una torre. La bellezza di quel posto era mozzafiato. Voleva godersi appieno quello spettacolo, dunque spronò Yxag e cominciò a planare sopra le singole isole volanti. Erano tutte splendide, ma nessuna poteva competere con quella più grande.

Era tentata di esplorarle tutte a piedi, comprese le caverne sotterranee che intravide fra le cascate, ma si rese conto che non sarebbe bastato un giorno intero. Così, con un sospiro di soddisfazione, tornò al punto di partenza, sulla spiaggia. Una volta che fu atterrata vicino alla tenda del vecchio e scesa dallo pteranodonte, si guardò intorno per diversi istanti e il suo sorriso si spese, quando vide che Acceber era sparita. Anche Oderffog non c’era più.

«Cosa? Ehilà! C'è qualcuno?» gridò, preoccupata.

Iniziò a sentirsi molto irrequieta: sentiva che qualcosa non andava. Poco dopo, Yxag trasalì di colpo. Sembrava terrorizzato, si guardava intorno con rapidi scatti della testa e tubava. A un certo punto, gracchiò e volò via di colpo. Ora il silenzio era totale, a parte il rumore delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga.

“Che sta succedendo?” pensò Aurora, agitata.

In quel momento, sentì un cigolio alle sue spalle. Si voltò e vide la testa di Oderffog fare capolino da una botola nascosta alla perfezione sotto la sabbia. Il vecchio, di cui poteva vedere solo la fronte, gli occhi e la mano che reggeva la botola, sembrava spaventato. Sussurrò a denti stretti:

«Scappa, straniera!»

E richiuse la botola. Aurora, disorientata, si inginocchiò e bussò sulle assi di legno per richiamarlo.

«Aspetta! Che succede?»

«Scappa, ho detto!»

«Dov’è Acceber?»

«La sua tigre è scappata e lei l’ha seguita. Fuggi anche tu!»

«Da cosa?»

«Corri e basta!»

«Non posso entrare anch’io?»

«No: c’è spazio solo per me. Salvati!»

Aurora non ci capiva più niente. Che stava succedendo? Perché tutto quel panico? A un certo punto, sentì un uggiolio allegro e al contempo inquietante dietro di lei. Aurora trasalì, si voltò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con un teropode che non aveva mai visto. Era snello e longilineo, come un raptor, ma della taglia di un carnotauro e con due piccole corna rivolte all’indietro. La stava fissando a bocca spalancata, con la lingua fuori e la coda che si agitava. Aveva l’atteggiamento giocoso di un cucciolo, ma le zanne appuntite e gli artigli affilati di qualunque predatore.

“Oh no! No, no no no no no!” pensò Aurora, nel panico.

Era stata già mangiata una volta; non avrebbe permesso che succedesse di nuovo, soprattutto non in un mondo parallelo. Quindi, anche se sapeva di non avere speranze, cominciò subito a correre all’impazzata. Aggirò il rettile e si inoltrò nella Foce Cremisi per seminarlo nella palude. Sentiva i passi pesanti e goffi del predatore nel fango e nell’acqua bassa, oltre ai versi divertiti che emetteva di continuo. Si aspettava, da un momento all’altro, di provare ancora quella sensazione atroce di essere sollevata, schiacciata sotto un’infinità di denti aguzzi e triturata viva.

Alla fine fu sollevata davvero da terra, ma avvertì solo un dolore lancinante alla schiena: il carnivoro aveva cercato di afferrarla, ma era riuscito prendere solo un lembo del suo vestito e le aveva lacerato il dorso con le punte dei denti. Aurora pendé a un metro da terra e sentì il vuoto sotto i suoi piedi, e gemé per il dolore alla schiena. Poi il dinosauro scosse la testa di lato, quindi il vestito si strappò e lei fu scaglita via per inerzia. Si schiantò in acqua e, di colpo, si ritrovò senza aria. Annaspando e sbracciandosi, tornò in superficie e si trascinò a riva, fradicia e infangata. Si guardò in giro a occhi strabuzzati e vide di nuovo il teropode ignoto: si stava rigirando il pezzo di vestito fra i denti, convinto di star masticando la preda.

Poi, però, si accorse dell’errore e si guardò intorno, disorientato. La individuò subito. Fece due passi verso di lei, ma un oggetto velocissimo lo colpì sul muso. Aurora guardò ai piedi dell’animale: era un sasso. Entrambi guardarono nella direzione da cui era venuto e la rossa vide Acceber a cavallo dello smilodonte, su un piccolo atollo sabbioso. La ragazza era armata di fionda e Anitot ringhiava, in posa difensiva. Il predatore emise un verso infastidito e partì all’assalto. Aurora tirò un sospiro di sollievo, col cuore a mille.

Mentre Acceber si faceva inseguire dal dinosauro, la sopravvissuta cominciò a camminare il più in fretta possibile attraverso la foresta di mangrovie, nella speranza di cancellare il proprio odore negli acquitrini salmastri. Non sapeva quanto proseguire, prima di nascondersi in mezzo alle radici intricate e aspettare Acceber, ma ora non le importava. Tuttavia, mentre arrancava nell’acqua bassa, si accorse che le mangrovie davanti a lei si stavano muovendo. Dalla vegetazione spuntò qualcosa di ben peggiore: un altro teropode, ma gigantesco.

Aurora si arrestò di colpo e si sentì mancare: era talmente enorme da adombrare la palude. Persino i giganotosauri di Nick erano più bassi di quel mostro, seppure di poco. Aveva le zampe posteriori tozze e il corpo robusto, ma il collo e il muso si assottigliavano in una forma longilinea. Aveva minuscoli occhi arancioni e due corna uguali a quelle dell’altro dinosauro, ma più sviluppate. Le somiglianze tra le due creature erano troppe per essere una coincidenza: Aurora intuì subito che quello di prima era davvero un cucciolo e che quella doveva essere la madre. Il mostro si accorse subito dell’umana e i loro sguardi si incrociarono.

«Merda!»

Il mostro gigantesco la osservò per un attimo e reclinò il capo, in apparenza incuriosito; ma gorgogliò e iniziò ad avvicinarsi. Ora sì che Aurora rischiava di fare la stessa fine che aveva fatto sull’Isola, quando era stata divorata da quel giganotosauro. In mancanza di alternative, fuggì nella direzione opposta e corse a perdifiato fra mangrovie, pozze e atolli. L’acqua, che le arrivava alla cintura, la rallentava e la sfiancava; davanti a sé non vedeva altro che un muro di vegetazione rossa. Ma niente di tutto questo le importava: voleva solo salvarsi la pelle.

Riusciva a percepire l’inarrestabile presenza del colossale predatore, alle sue spalle: prima o poi l’avrebbe raggiunta. Non poteva illudersi di avere scampo, ma valeva la pena provare. Si sentiva i muscoli in fiamme, ma la scarica di adrenalina le diede la forza di continuare la fuga. Si sentiva impotente e spacciata, eppure la disperazione la spingeva a lottare per la sopravvivenza fino all’ultimo. All’improvviso, però, inciampò in una radice sommersa e cadde nella fanghiglia.

Sputò l’acqua e il fango e guardò in alto: il mostro enorme si preparava già a chiudere le fauci su di lei. Gridò in preda al terrore, si rannicchiò e si coprì la testa. Tuttavia, il dinosauro fu interrotto da un fragoroso ruggito. Era un richiamo tonante, rauco e profondo. Aurora si coprì le orecchie, sconcertata, poi si accorse che il grande carnivoro la stava ignorando. Non perse tempo e si rialzò, quindi si mise a correre ancora più veloce di prima. Due minuti dopo, la foresta di mangrovie si aprì e cedé il posto a un canale di acqua dolce.

“E adesso?” si chiese.

Il corso d’acqua era troppo largo e profondo: tentare di guadarlo era troppo rischioso. Poco dopo, il predatore riapparve dietro di lei e la fissò con famelicità. Se fosse scappata a destra o sinistra, l’avrebbe raggiunta, ora che non c’erano più mangrovie: era la fine. Ad Aurora venne da piangere per il terrore e la disperazione. Tuttavia, anche questa volta sentì il ruggito sconosciuto e il dinosauro si immobilizzò per fissare la foresta sulla sponda opposta; sembrava preoccupato. Aurora si domandò cosa potesse mai intimidire un carnivoro così grosso e minaccioso. Osservò l’altra riva a sua volta e sbarrò gli occhi: dalla vegetazione stava apparendo un’enorme creatura maestosa e terrificante al contempo. Al suo passaggio, gli alberi si inclinavano e stormi di dimorfodonti volavano via dagli alberi.

La bestia raggiunse finalmente la sponda del fiume e Aurora la vide bene: un imponente gorilla alto una ventina di metri, dalla pelliccia nera macchiata qua e là di sangue rappreso e la schiena argentata. I suoi occhi bruni erano stretti in un’espressione minacciosa, rimarcata dalle zanne scoperte. Tutto il corpo era una suggestiva mappa di cicatrici, prove di battaglie passate. Aurora era impietrita, ma anche affascinata. Il grande predatore rivolse un ruggito incerto allo scimmione, che rispose con un grugnito intimidatorio e pestò un pugno a terra. I due giganti si scambiarono altre intimidazioni, ma non si spinsero oltre: sembrava che il gorilla gli stesse solo intimando di lasciarlo in pace.

Aurora, intanto, approfittò della sua distrazione per nascondersi in un canneto vicino, dove si immerse nell’acqua stagnante fino al collo, nella speranza di passare inosservata. Le due creature si sfidarono ancora un po’ e, alla fine, il teropode chinò il muso: aveva gettato la spugna. Lo scimmione, in risposta, grugnì con uno sguardo arcigno e si sedé, per poi cominciare a bere l’acqua del canale con una mano a coppa. Il dinosauro enorme si voltò, si avvicinò alla foresta di mangrovie e cominciò a lanciare richiami. Continuò così per una manciata di minuti che ad Aurora parvero un’eternità.

Alla fine, dalla palude apparve il cucciolo, che adesso stringeva un dilofosauro in bocca: Acceber doveva averlo deviato verso un’altra preda. Sotto lo sguardo vigile del gorilla gigante, madre e piccolo si strusciarono il muso con affetto, quindi si allontanarono risalendo la corrente del fiume. Poco dopo, lo scimmione finì di bere, si asciugò il muso bagnato e se ne andò. Aurora era finalmente sola e salva. Le sembrava di svenire.

CrystalISLAND 2 by RobertoTurati

L’attesa sembrò interminabile, ma alla fine fu trovata da Acceber. L’Arkiana si scusò per quel terrificante imprevisto, ma Aurora le disse di non preoccuparsi: in fondo, non poteva certo sapere cosa sarebbe successo. La figlia di Drof le domandò come aveva fatto a sfuggire alla madre del cucciolo; tuttavia, per quanto Aurora tentasse di rispondere, riusciva a malapena a farfugliare: troppo forte lo spavento, troppo travolgente il miscuglio di terrore e sollievo che ancora le offuscava la mente e le faceva tremare le gambe. Alla fine, però, riuscì a ricostruire l’accaduto, una frase risicata dopo l’altra. Acceber rimase a bocca aperta:

«Caspita! Kong!»

Aurora si limitò a fissarla, disorientata. Ormai non capiva nemmeno cosa le succedeva intorno. L’Arkiana tentò di spiegarsi:

«Ti sei salvata grazie a Kong! Il re di ARK in persona! Per noi Frecce Dorate è un onore come pochi, sai? La mia tribù lo adora e lo riverisce da secoli»

Di nuovo, la rossa rimase in silenzio; si mise a fissare il vuoto, in preda ai tremiti e al batticuore. Ormai era concentrata solo sul tentare di calmarsi e farsi passare l’affanno, siccome le faceva ancora male il petto. Acceber le si mise davanti, preoccupata:

«Ehi! Va tutto bene?»

Aurora si sentì intontita per una manciata di secondi, prima che tornasse del tutto coi piedi per terra. Solo allora riuscì a formulare una risposta e fare un tentativo di alleggerire l’atmosfera:

«Eh? Oh! Sì, certo, sto da favola. Di certo a Lex farà piacere sapere di questo re di ARK»

«Altroché! Non avrei parole, se mi raccontassero che un’amica si è salvata da un distruttore grazie a Kong!»

«Cosa? Parli di quel predatore gigante?»

«Sì, quello. Scusa di nuovo, non mi abituo mai alla questione dei nomi. Credo che voi stranieri li chiamate… uhm… non ricordo bene, ma di certo inizia con “giga”»

A quelle parole, ad Aurora venne un tuffo al cuore: quello era un giganotosauro? Com’era possibile? Era ben diverso da quelli che conosceva fin troppo bene sull’Isola. Era più grande, più imponente, molto più terrificante e minaccioso. La sorprendeva che i giganotosauri di quell’isola avessero un aspetto diverso e fossero ancora peggiori. Forse non le era andata poi così male sulla spiaggia, il suo primo giorno sull’Isola. Fu riportata di nuovo alla realtà da Acceber, che schioccò le dita davanti ai suoi occhi:

«Ehilà! Ci sei?»

«Ah! Sì, scusami»

«Ti capisco, sei sconvolta. Andiamo via da qui, ti va?»

«Ottima idea»

Appena si incamminarono, la rossa avvertì una fitta lancinante alla schiena e le sfuggì un gemito. Acceber controllò subito e si allarmò, quando vide la ferita inferta dal piccolo giganotosauro. Prese uno straccio dalla sella di Anitot e diede una prima, grossolana ripulita ai tagli. Dopodiché, affermò che non c’era tempo da perdere ed esortò l’amica a montare in sella. Aurora annuì ma, prima di muoversi, le capitò di infilare la mano nella tasca in cui aveva messo la sfera e impallidì: non c’era. Impallidì, si tastò tutti i vestiti e si guardò in giro: niente da fare, era sparita.

«Oh, no!» esclamò.

«Che c’è?»

«Dov’è la sfera?!»

Non poteva essere vero. Le doveva essere caduta durante la fuga. Ma a che punto della fuga? Era spacciata: ora come poteva ritrovarla, nella vastità della Foce Cremisi? Il pensiero di doverlo dire a Lex la terrorizzava più del giganotosauro. Come avrebbe fatto a dirgli che, per colpa sua, non potevano più tornare nel mondo delle Arche? Il panico e la vergogna si impadronirono di lei.

   
 
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