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Autore: Hoel    09/01/2020    9 recensioni
Questa macabra vicenda ebbe luogo nell'estate del 1612 sotto il governo del Serenissimo Principe nostro Marco Antonio Memo, vicenda che Jacopo ed io giurammo sul sangue nostro di non condividere con nessuno, portandoci a Dio piacendo questo segreto nell'Aldilà.
Ciononostante, voi che deambulate di notte in campo San Barnaba, fate attenzione ...
[Racconto liberamente ispirato all'omonima leggenda veneziana]
Genere: Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Non avrei mai creduto di dover un giorno conferire l’aggettivo di pazzo al mio amico Jacopo Morexini, eppure eccolo là, a guardarmi fisso e stralunato, con occhiaie da vecchio e il volto non dissimile ai lenzuoli appena usciti dalle ceste dell’energiche lavandaie.

“Ma ne sei sicuro?”, inquisii per l’ennesima volta, scuotendolo leggermente per l’avambraccio, quasi a richiamare l’equilibrio mentale palesemente perduto. “Il tuo servitore si sarà e sbagliato e tu … insomma, eri appena rientrato dalla festa per celebrare il nostro nuovo Serenissimo Principe e non scommetterei, conoscendoti, della tua sobrietà in quel momento!”

Jacopo si scostò da me, lo sguardo d’un tratto astioso. “Quale vantaggio trarrei nel mentirti?”, ringhiò, “pensi che mi diverta, confessarti tali …”

“… baggianate?”

“ … orrori?”

Sbuffai snervato. “Jacopo, in tutta onestà, posso crederti senza dubitare di una tua follia quando mi racconti come la mummia esposta nel Gabinetto delle Curiosità [1] si sia mossa e ti abbia parlato?

“Invece mi devi credere!”, sbottò il mio amico, balzando in piedi frustrato e con altrettanta esasperazione si passò la mano tra i folti capelli castani. “Per la Crose Sancta, m’internerei io per primo all’ospedale, se fossi veramente matto! Eppure, su quel che vuoi, ti giuro che non è così! Io ho visto quella dannata mummia muoversi, ne ho udito le parole e soprattutto le minacce e quant’è vero Iddio, quella camera rimarrà ben chiusa finché sarò in vita checché ne dica mio padre!” e si sedette pesantemente, stremato dalla sua medesima collera, la pelle a chiazze  e stringendo convulso la chiave della stanza al petto, proprio quella che si rifiutava di cedere malgrado le insistenze del genitore.

Slungandomi sulla poltrona, non potei evitare un profondo sospiro sconsolato, mordendomi tuttavia dubbioso il labbro: conoscevo Jacopo Morexini da una vita, ne stimavo il carattere sì allegro e incline agli scherzi ma al contempo giudizioso e pragmatico e dunque non mi capacitavo di vederlo ora così spiritato, fuori di sé.

Tutto era incominciato quando nel corso dei lavori di abbattimento di una vecchia cappella presso Campo San Barnaba era stato ritrovato sotto l’altare - cosa rara! – il corpo mummificato di un antico guerriero. Poiché la proprietà del fondo apparteneva alla famiglia del mio amico e non essendoci lapidi che indicassero la parentela del morto, i Morexini avevano deciso di rivendicarne il possesso onde esporre il misterioso cavaliere nella Camera delle Meraviglie del loro palazzo, un po’ come fanno i Gonzaga con la mummia dell’ancestrale nemico Passerino Bonacolsi [2] ch’io vidi di persona a cavallo di un ippopotamo durante una mia recente visita a Mantova.

Mentirei grassamente se ora negassi la mia fascinazione dinanzi a quei resti perfettamente conservati, il giorno in cui Jacopo mi aveva presentato tutto entusiasta al nuovo pezzo della collezione di famiglia.

“Un cavaliere crocesegnato, di sicuro”, mi aveva confidato orgoglioso. “Forse a seguito dell’impresa del nostro Doge Errico Dandolo [3]. Chissà, potrebbe trattarsi di uno dei cavalieri che di ritorno da Antiochia portò il Sacro Graal nascosto nel trono di San Piero [4] e che qui morì!”

Serbando per me i miei scetticismi circa tali fiabe da balia (noi Veneziani saremmo anche dei mangia-preti, come ci chiamano a Roma, tuttavia coi tempi che corrono meglio comunque tacere la propria opinione, non si sa mai), avevo preferito invece concentrarmi sullo studio della mummia, convenendo solo sul fatto che sì, forse poteva aver vissuto ai tempi dell’astuto Dandolo. Contrariamente poi al pessimo gusto del Duca di Mantova e del Monferrato, il padre di Jacopo aveva posto la sua mummia in un sarcofago di vetro ben sigillato, da dove si poteva tuttavia ammirare ciò che rimaneva della cotta di maglia, dell’elmo e brandelli di stoffa giallognola, forse un tempo bianca?, e ovviamente la pelle incartapecorita e circondata dai capelli rossicci del guerriero, giacente con le gambe incrociate e le mani intrecciate al petto, così come gli operai l’avevano trovato, impacchettato e consegnato al N.H. Morexini. La vera chicca, però, risiedeva nella spada sulla cui elsa ancora si leggevano le seguenti parole: Nicodème de Besant-Mesurier e sulla lama, quasi incise di fretta e sgraziate: d…n… le d…sh…nneur, j’at…nds.

“Dans le déshonneur, j’attends”, nel disonore, attendo. Le parole che ora Jacopo, ripreso a camminare invasato avanti e indietro dinanzi a me, seguitava a ripetere peggio di un ossesso, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive alla porta sbarrata là dove si trovava il corpo disseccato del cavaliere.

Era stata sua madre, la N.D. Morexini, ad avermi convocato d’emergenza, confidando nel mio buonsenso e amicizia onde sanare il figlio apparentemente uscito fuori di senno.

Da quanto avevo compreso dal racconto sconclusionato del mio amico, un mattino, a seguito di una festicciola in cui un Jacopo assai alticcio aveva esposto il macabro trofeo alla curiosità e al dileggio dei suoi altrettanto ebbri compari, il servitore Zamaria, riassettando la stanza, aveva notato come stranamente le braccia e le gambe della mummia avessero cambiato posizione. Dapprincipio titubante, egli aveva pensato aver preso un abbaglio sennonché tre giorni dopo ecco che il cadavere di nuovo sembrava essersi spostato e stavolta Zamaria era corso ad avvisare il padroncino che, temendo una manomissione da parte dei visitatori, aveva deciso di rinforzare le chiusure del sarcofago.

Invano: a quanto pareva, nonostante le nuove precauzioni, il fatto s’era ripetuto sempre più frequentemente al punto che, ogni mattina, prima di colazionare, Jacopo tra lo stupore e la crescente preoccupazione dei genitori e parenti scendeva nel Gabinetto delle Curiosità a controllare il cavaliere, uscendo con una tal faccia da scambiar lui per una mummia.

“Sicché hai deciso alla fine d’ivi trascorrere la notte onde vigilare di persona?”, lo interrogai per l’ennesima volta, tentando d’infondere della sana e robusta logica in quell’assurda vicenda.

Jacopo annuì freneticamente. “E non avvenne nulla. Assolutamente nulla”, narrò ma prima che potessi interromperlo, proseguì in affanno: “Quand’ecco, appena appena albeggiava, che udii un fastidiosissimo stridore non dissimile a quello che si produce graffiando …”, deglutì, a malapena trattenendosi dal rabbrividire, “graffiando con le unghie sui vetri. E dopo, uno scatto metallico e un altro e … e un altro ancora! Erano gli scatti dei lucchetti! Corsi per controllare e ... e il sarcofago si aprì! Capisci? Si aprì! Lo scoperchiò lui, Nicodème il cavaliere crocesegnato, il quale, levandosi in piedi e guardandomi con occhi di bragia m’apostrofò ricolmo d’ira: Scellerato, perché mi tormentate e mi schernite sì crudelmente? Non pagai già abbastanza con una tomba anonima e il disprezzo del mio parentado? Io, Nicodème de Besant-Mesurier, che sarei dovuto salpare per la Terrasanta con il vostro Principe Serenissimo e Duca,  io la sera prima della partenza m’ubriacai e caddi in uno dei vostri insidiosi canali, ove trovai la morte annegando. Vergognosa di tal infamante decesso, la mia famiglia si lavò le mani di me e neppur si premurò di rimpatriare questo povero mio corpo, condannato all’oblio in una misera tomba spoglia. Vedi come agili e robuste sono le mie membra, seppur disseccate? Possiede una mummia occhi sì umidi dal pianto di rabbia e vergogna? Maledetto! Sì, io son maledetto da questa mia morte disonorevole, senza la consolazione dei sacri riti, e in tal inferno io rimarrò in attesa dell’Ultimo Giorno a meno che io non compia una nobile impresa che mi riscatti. Ma so già che è impossibile. Pertanto, giovine irrispettoso, abbi almeno la pietà di lasciarmi in pace, di non espormi al ludibrio altrui e dunque ti avverto ora a chiare parole: il prossimo che entrerà in questa stanza, pagherà con la vita! E da quella notte, ogni notte, lo sento, lo sento muoversi e camminare avanti e indietro in quella dannatissima stanza!

Non resistetti più e scoppiai in una fragorosa risata.

“Che mummia prolissa, tutto questo sermone ti sei dovuto sorbire? E poi che male fa a sgranchirsi quelle ossa centenarie? Anzi, spaventa pure le pantegane!”, risi di gusto, asciugandomi le lacrime agli occhi e provocando un moto di stizza in Jacopo, che avanzò con veemente impeto verso di me, indeciso se pigliarmi a schiaffi o, congiungendo le mani, supplicarmi di salvarlo da quella, secondo me, paradossale situazione.

“Alvixe, amico mio, ti prego, in nome della Beata Vergine almeno sforzati di credermi! Non comprendi? Il prossimo che entrerà in questa stanza, pagherà con la vita! Cosa dovrebbe accadere, se per caso dovessero entrarvi i miei genitori? O i miei fratelli e sorelle? Non voglio, non voglio che quel mostro li uccida!” e, inginocchiatosi, singhiozzò disperato sul mio grembo, suscitandomi una gran pena in petto nonché la triste consapevolezza che sì, il mio povero amico s’era sul serio ammattito.

“D’accordo, ti credo”, cedetti onde sollevarlo dal pianto angoscioso che lo sconquassava. Jacopo alzò il volto rigato di lacrime, sbattendo le palpebre sorpreso e sorridendomi timidamente speranzoso. “Dopo che avrò visto coi miei occhi questo morto-resuscitato!”

La mandibola del mio amico s’afflosciò e la sua bocca penzolò quasi come quella d’un Asburgo.

“No, Alvixe, neppure per tutto l’oro del Perù!”

Gli tesi scocciato la mano: per colpa delle sue stramberie, Jacopo mi aveva fatto perdere l’intero pomeriggio e già le prime luci vespertine riflettevano sul multicolore pavimento a seminato, colorando le pareti di un pallido scarlatto e allungando le ombre del mobilio. “Suvvia, poche storie: cedimi la chiave”, gli intimai severo e forse eccessivamente aspro, ché il mio amico s’ingobbì sulla difensiva. “Non c’è bisogno che tu entri con me; basterà che tu stia di guardia alla porta e se mi sentirai bussare che tu l’apra immediatamente.”

Non mi sfuggì il furioso conflitto che s’agitava nel cranio del mio amico, valutando delle mie parole ogni pro e contro, soprattutto se sussisteva la possibilità di finire smentito e ridicolizzato.

“D’accordo”, acconsentì infine, seppur con lentezza estrema neanche sperasse che  nel frattempo cangiassi d’opinione. Come no! Non era mai stato mio costume di risolvere questioni in vane parole. Sarei entrato in quel Gabinetto degli Orrori, pardon, delle Curiosità e avrei dimostrato a Jacopo di quali bislacche chimere si fosse nutrito.

Ciononostante, entrando nella stanza, pur trovandoci in piena estate trattenni a stento un brivido, l’aria stantia e fredda, anzi, umida similmente alle cripte delle chiese. Ma giustificai tale aria mefitica figlia delle lunghe settimane senza ventilazione e pulizia da parte dei domestici. Forse, ecco, forse avrei dovuto attendere una luce migliore per questa mia impresa: in effetti, le ombre calanti della sera rimodellavano i contorni e le forme di tutte le stravaganze e animali impagliati ed esposti nel Gabinetto delle Curiosità, conferendo loro un’impressione di sinistra vitalità. Ciò mi persuase della bontà della mia idea, ovvero che sia il servitore Zamaria sia Jacopo a causa dei chiaroscuri dell’alba fossero state le ignare vittime di tale illusione ottica.

Accedendo le candele di un candelabro, mi portai allora al centro della camera, là dove mi attendeva il sarcofago di vetro dove riposava la mummia di Nicodème il cavaliere e anche in quel frangente ne rimasi ammaliato come la prima volta. Il corpo umano, lo confesso, sin dalla tenera infanzia mi aveva affascinato, quando assistetti al doloroso raddrizzamento di una gamba di un contadino ferito; da allora, a Padova e qualche rara volta a Bologna, coglievo ogni occasione per assistere alle dissezioni e prendere appunti e solo l’ostinata contrarietà di mio padre m’aveva impedito d’intraprendere seriamente gli studi di medicina.

Ben protetto alla stregua delle reliquie della nostra Santa Lucia, la mummia mi ricordò per la levigatezza delle mani e dei piedi le statue di legno che avevo ammirato sugli altari delle chiese in Cadore, conservando un curioso accenno di umanità che mai avevo scorto nei cadaveri i quali, dopo all’incirca quindici ore, diventano tutti uguali a dimostrazione che è l’anima ciò che definisce questo nostro guscio mortale. Del viso di Nicodème potevo scorgere ogni ruga, leggervi quasi un’espressione e sebbene antico, si presentava incredibilmente integro, incorrotto.

Pertanto, mi dispiacque assai (al punto da sfiorare il fastidio) veder tale prezioso miracolo alterato da una vestizione posticcia della mummia, infilato in una tunica bianca e sul capo un nuovo elmo ripescato chissà dove. Per un folle istante, mi sorse una gran rabbia e volli scoperchiare la bara; già in mano stringevo un lucchetto ma subitaneamente mi fermai, incredulo io per primo di questo sentimento a me sì alieno.

Mi pizzicai la radice del naso, imponendomi di rafforzare lo spirito e di non cedere a bizzarre pulsioni dettate, certamente, da tutte le suggestioni inculcatemi da quel matto di Jacopo.

Allontanandomi quindi a malincuore dal sarcofago, mi sedetti su di una poltrona poco distante onde averlo nel mio campo visivo, proteso in avanti in caso (suvvia!) avessi dovuto difendermi dal morto. Neppure le ciglia sbattevo pur di non perdere un singolo movimento all’interno di quella stanza e il mio respiro si faceva più flebile e distante del fine eco dello sciabordio delle onde dei canali.

La noia mi colse, assieme ad un certo fastidio ai muscoli della schiena. Fino a quando avrei dovuto assecondare questa carnevalata?

Non sapendo che altro fare, con la guancia appoggiata sulla mano mi concentrai sul rumore dell’acqua.

Thàlassa, Thàlassa,

credo sia mio destino amarti e in te morire.

Amata inquieta e capricciosa, sei tu dunque gioia e tormento?

Singolare canzone! Si trattava forse di un gondoliere che transitava davanti al palazzo?

Lo sciabordio, quell’atavica nostra nenia, si faceva sempre più vicino e rumoroso …

Ah, povero sciocco! Cosa domandi?

Né a me né ai venti si comanda.

Nessuno m’imbriglia, con me ci s’accompagna.

La calle è buia, sporca e scivolosa. Soffocante, talmente diversa dai luoghi in cui sono nato e cresciuto.

Ah! Casa! La rivedrò mai? Rivedrò mai il castello sovrastante il borgo, circondato dal penetrante olezzo degli infiniti campi di lavanda? Anche lì l’aria si mescola col salino del mare, ma è pura, mentre quest’aria marina è impregnata di sangue e denaro. Thàlassa per questa città è la moglie, Pecunia l’amante.

La gente qui mi fissa obliqua, onnisciente, quasi sapesse del mio destino e pare deridermi ad ogni mio gesto e parola. Sibilano e cantilenano, serpenti e sirene. Sorrisi spietati!

Avrò stasera per questo alzato il gomito più del solito? D’altronde, qui tutto è buono, ogni pietanza cotta con spezie rare e specialmente il vino che si fanno venire da Candia e Cipro e quelle donne dagli ammalianti occhi neri …

Barcollo, le vertigini mi assalgono.

Dove sono? Non vedo più niente!

Aspetta, non ero già passato per di qua? Questo piccolo altare credo d’averlo già visto …

Inciampo … su cosa? Che si è mosso?

Soffoco! Il mondo gira! Quale maleficio mi ha colto in questa città maledetta?

Un rumore?

Cos’è? Finalmente una qualche anima pia venuta a guidarmi in quest’inferno? Chi sei ...?

Sì! sì! Aspetta! Aspetta! Aspet –

Thàlassa è a caccia di nuovi amori,

sei lei ti sceglie, ti fa re!

Forzala e nel suo abbraccio soffocherai …

Acqua.

Acqua ovunque.

Acqua bruciante nei polmoni.

Acqua che mi …

Giovine ardito, sposo diletto,

Sei mio, sei mio per sempre.

Annaspai, scattando in un movimento talmente inconsulto e scoordinato che poco ci mancò che caddi rovinosamente dalla poltrona, il cuore un tamburo di guerra che mi rimbombava nel torace.

Di riflesso, postomi in piedi, tesi l’orecchio alla ricerca del rumore delle onde: niente, lontanissime da dove mi trovavo, non c’era alcuna possibilità che potessero ghermirmi …

“Ghermirmi?”, domandai a me stesso ad alta voce, l’unica cosa viva in quell’esibizione di natura morta (in ogni senso). “Ghermirmi?”, ripetei con inusuale veemenza, umiliato da quel mio atteggiamento codardo. Farmi intimidire da un sogno? D’accordo, avevo sognato d’annegare ma … Oh! Ovvio!

Risi forte.

“E’ colpa vostra, messere!”, ridacchiai, illuminando il vetro della bara, dove il cavaliere se ne stava – sorpresa, sorpresa! – ben immobile al posto suo.  “Mi avete indotto una vostra reminiscenza! Canaglia! Briccone!” e siccome ormai la sera era calata, decisi di aver sprecato abbastanza tempo quel giorno e di conseguenza  volli tagliar corto, rincasando e dedicandomi ad attività più utili e gratificanti.

“Jacopo! Jacopo, apri la porta!”, battei sul legno, calmissimo, onde sottolineare la stupidità del mio amico che, con faccia altrettanto da idiota, comparve sconvolto all’uscio neanche fosse sorpreso di vedermi ancora vivo e con la testa sulle spalle. Hé, decisamente più della sua.

“Ebbene?”

“Ebbene, te sè ‘na testa-da-àmoi!”, sentenziai seccamente, spintonandolo via di malagrazia e aumentando lo stupore di Jacopo, che seguitava a fissarmi trasognato. “D’ora innanzi m’attendo più giudizio da parte tua: come puoi ben vedere” e indicai la punta del sarcofago che faceva capolino, “le tue non sono che chimere dovute al vino e alla stanchezza di nottate trascorse in bianco, mostri partoriti da una mente ammollita nell’ozio!”, berciai, stupendomi d’un tratto delle mie crudeli parole ché sì, volevo rampognare il mio amico ma non umiliarlo.

E infatti, Jacopo abbassò colpevole lo sguardo, incassando la mia filippica con mitezza da martire; ciononostante, zitto-zitto, richiuse lo stesso a chiave la porta del Gabinetto delle Curiosità. 

“Ti faccio riaccompagnare a casa dal nostro gondolier de casàda”, mi propose a disagio, gli occhi mesti ben puntati ai piedi. “Mi rincresce d’averti arrecato tale noia e perdita di tempo …”

Adesso fu il mio turno di provare imbarazzo per quel mio sfogo ingiustificato. “E’ una serata deliziosa, camminerò per un tratto”, mi schermii, afferrando cappello e mantellina. Ed ignorando come congedarmi adeguatamente, farfugliai impacciato: “Possiamo discuterne domani mattina, se avresti voglia di visitarmi e colazionare da me …”

Jacopo assentì distrattamente, lo sguardo perso nel vuoto.

Toffolo, il mio servitore, accese un lume da passeggio e mi precedette lungo campielli, calli, ponti e sotoporteghi; anche se non potevo scorgere le espressioni del suo viso, dal continuo e sommesso suo borbottare (ma varda ti, se gh’ho da far el còdega a rezer el mòccolo) intuii la sua scontentezza di dover rincasare a piedi col buio pesto delle nostre notti, rese ancor più opprimenti dalla calura estiva (In effetti, cogitavo, avrei dovuto seguire mio fratello alla Villa)

Al nostro incedere, gli edifici comparivano timidamente curiosi per poi finire inghiottiti dall’oscurità, deformandosi in grotteschi giganti dagli occhi neri e vuoti, riflettenti come gli occhi di un gatto e incombenti su di noi, quasi volessero avvolgerci in esso, fondendoci assieme in un'unica materia. Ogni tanto coglievo in lontananza un distante vociare, una malinconica canzone, rumore di vasellame, squittii sospetti e l’immancabile sciabordio dei canali. Mi sentii già meglio, la rabbia sbollita. E allora realizzai: così tardi avevo fatto? Venezia intera pareva pietrificata, mai avevo assistito a tanto silenzio …

All’improvviso, Toffolo si bloccò, allungando il collo alla stregua d’un bracco da caccia.

“Cosa c’è?”, m’informai apprensivo. Decisamente una pessima idea, la mia.

Il mio servitore indicò qualcosa dinanzi a sé, alle mie spalle. “Sior patron, non udite questi passi?”

Il respiro mi si gelò in gola, mentre con le dita scorrevo l’elsa della striscia [5], le orecchie tese in ascolto.

Niente. Silenzio.

“Ti sarai sbagliato”, lo rassicurai cautamente, aggiungendo però subito: “Quanto distanti siamo da San Tomà? Potremmo fermare una gond - …”

Ecco! Ecco!

Adesso li sentivo, i passi!

Mi voltai di scatto. “Chi va là?”, gridai, sforzandomi di tenere un tono duro e perentorio e piazzandomi dinanzi all’inizio della calle, da cui avevo captato la provenienza di quel rumore. “Chi va là?”

Sior patron, che andate ad attaccar bottone coi barbuti? [6] Andiamo via, prima che ci sgozzino!”

“Taci, sciocco!”, sibilai adirato, pur indietreggiando per precauzione di qualche passo. “E dammi la lanterna!”, gli intimai e una volta soddisfatto il mio ordine, alzai il lume in direzione dei passi, mordendomi nervosamente il labbro inferiore quando appurai come la fiamma illuminasse la calle vuota.

Ma i passi c’erano, perdio, li sentivo rimbombare più dello scalpiccio dei cavalli!

“Toffolo? Corri all’imbarcadero e …”, ma con mio sommo sgomento, girando la lanterna, scoprii come il mio servo fosse sparito nel nulla, lasciandomi solo a fronteggiare chiunque si stesse avvicinando a passo sempre più spedito.

Applicando il consiglio dapprincipio disdegnato, incominciai a correre alla cieca. Sbattei dolorosamente contro muri comparsi all’improvviso; incespicai e scivolai sulla fanghiglia e mi sbucciai mani e ginocchia, eppure non solo non riuscivo a seminare il mio inseguitore, ma avevo addirittura perduto l’orientamento, apparendomi le calli tutte uguali, anonime e anguste.

“Fatti avanti!”, ansimai in un misto di coraggio e panico, deciso a battermi se non potevo fuggire. “Codardo! Affrontami, se ti regge il cuore!”, urlai, mulinando attorno a me il lume, onde scovare quel maledetto.

I passi cessarono e per un piacevole istante sperai che il mio inseguitore avesse desistito nell’impresa, non giudicando lo sforzo vantaggioso.

Commisi pertanto l’errore di abbassare sia la punta della striscia sia la lanterna e fu così che me lo trovai all’improvviso addosso, il cadavere mummificato del cavaliere Nicodème de Besant-Mesurier in tutta la sua orrida figura. Ignoro se fosse stato il terrore o la sorpresa o un infelice connubio dei due: fu sufficiente per impedire ogni mia reazione e quelle mani, forti come tenaglie e inflessibili come il legno dei roveri sul Montello, si trovarono al mio collo e ivi strinsero, mentre  le unghie lunghe prementi sulla tenera pelle traevano sangue.

La vista mi s’annebbiò, riempiendosi di chiazze nere e gialle; avvertii le ginocchia cedere e lentamente cadere per terra, il cuore pompante furioso e la mente in affanno, l’unico suo pensiero coerente ancora formulatovi era che non avrei mai più ammirato la luce del sole, morendo lì, al buio, in una calle maleodorante, ucciso dallo spettro di una mummia vecchia di quattrocento e passa anni. (Lo sciabordio dell’acqua … le onde … lo sciabordio …)

Sicché, ultima grazia terrena, vidi per davvero la luce. E la Madonna.

Danzando mortalmente, lui a strangolarmi ed io ad indietreggiare, eravamo giunti ad un incrocio dove in una nicchia si trovava illuminata dai molti cesendeli  e ceri un bassorilievo della Vergine col Bambino. Immediatamente, senza pensare, ne afferrai uno e lo ficcai nell’occhio di Nicodème de Besant-Mesurier che cacciò un agghiacciante urlo di dolore, reggendosi il viso ustionato e sanguinante, impossibile per un corpo disseccato, e dondolandosi in avanti e indietro a tentoni cercò la mia striscia caduta. Trovatala, appena ebbe il tempo di piegarsi che mi gettai sventatamente disperato su di lui (lo sciabordio dell’acqua mi aveva rincuorato! Thàlassa! Thàlassa!) e lo spinsi in canale, cadendo sfinito a bocconi sulla riva e ansimando allo spasimo.

Quand’ecco, che mentre mi rialzavo dall’acqua nera riemerse quell’artiglio dalle fattezze di mano e m’afferrò la caviglia; a stento evitai di raggiungere il francese nella sua tomba, forse salvato da quale bricola, non so, però mi aggrappai con tutte le mie forze e strattonai dalla parte inversa finché non udii uno strappo e un tonfo.

Rotolai nel selciato e nel liquame e, Dio mi perdoni, alla vista della mano ancora ghermente di volontà propria la mia caviglia persi invero il senno e corsi chissà dove, ovunque, anche all’inferno stesso.

“Aprite! Per l’amor d’Iddio e della Vergine, aprite!”, singhiozzai alla prima porta cui urtai letteralmente contro e se mi aprirono, che gliene sia reso merito, io mi ricordo solo che svenni e poi non seppi più nulla.

Mi risvegliai dolorosamente a giorno fatto, perdendo di molte ore i rintocchi della Mezza Teza [7] e stupendomi di ritrovarmi chinati su di me un medico, il N.H. Morexini, Jacopo e il mio servitore Toffolo che si torceva in affanno le dita. Buon per lui, giacché avevo ogni intenzione di pigliarlo a calci nel deretano.

Siccome però dovevo conferire urgentemente col mio amico, finsi confusione e sonno e poco dopo, infatti, venni lasciato solo con espresso ordine di “riposare.”

Sicuro, come no.

“Cos’è successo?”, m’informai, puntellandomi sui gomiti.

Jacopo, bianco avorio, mi raccontò concisamente: “Ti ha portato qui il tuo servitore: eri fuori di te, lercio di scouace da capo a piedi, sudavi più del Cristo nel Getsemani e deliravi su Thàlassa, sul cavaliere e Dio solo sa che altro … Per fortuna Padre ha pensato ad un tentativo di furto e aggressione; gliel’ho lasciato credere …”

Balzai fuori dal letto, pigliando una camicia pulita (mi accarezzai inconsciamente il collo, là dove il piccolo specchio rifletteva i segni delle dita e i graffi) e infilando in fretta calze, braghe e scarpe così scompigliato mi diressi verso il Gabinetto delle Curiosità con un perplesso Jacopo alle mie calcagna.

“E’ ancora chiusa la stanza?”

“Ovvio!”

“Perfetto!” e afferrato per sicurezza un attizzatoio dal caminetto. “Perché ci voglio entrare di nuovo!”

“Sei pazzo!”

“Oh, sì!”, replicai con la determinazione di era sopravvissuto all’incredibile e nulla più lo intimoriva ormai. Mi sentivo tranquillissimo, avendo trovato una logica nell'illogico.

Inoltre, mi si stava formulando una teoria in testa, sviluppatasi a seguito del ricongiungimento di tutti i tasselli delle vicende accadute. Di conseguenza, provai una perversa soddisfazione nell’appurarne la veridicità, quando Jacopo ed io raggiungemmo il sarcofago.

Eccola là, quella mummia della malora, col viso mezzo bruciato e contratto in una smorfia di rabbia e dolore, senza una mano e la mia striscia lercia di melma accanto a lui.  

Il mio amico si segnò tre volte.

“Perdonami per aver dubitato di te”, mormorai grave, stringendogli la mano tremante. “Adesso ti credo.”

Inutile aggiungere, come Jacopo diede istruzione di seppellire in gran segreto la mummia del francese, nella Chiesa di San Barnaba là dove poco distante avevano demolito la piccola cappella che per quattro secoli l’aveva ospitato. E similmente ai nostri antenati, non gli demmo alcuna lapide e stavolta non per denigrazione, bensì per evitare ogni eventuale riscoperta della sua tomba.

Certo, il N.H. Morexini padre di Jacopo si era dispiaciuto assai di aver perso quel gran bel pezzo da collezione, dai suoi pari invidiato; allo stesso tempo aveva però lodato lo spirito cristiano del figlio finalmente rinsavito, contento di come non lo tarmasse più con baggianate su francesi, dame e cavalieri, maledizioni e morti-che-camminano. Ne aveva già abbastanza in Senato senza appesantirsi ulteriormente il fegato.

All'insaputa del mio amico conservai la spada del crocesegnato, monito alla mia arroganza e personale vendetta nei confronti di quest'ultimo, così sul serio gli sarebbe stato difficile, in bara e senza arma, compiere un'impresa nobile. Me la sono portata ovunque, perfino a Candia e vi confesso che contemplarla la sera antecedente la battaglia, malgrado gli anni trascorsi, tuttora mi rende doppiamente gradevole l'affondo della mia, di spada, nelle gole dei Turchi. Tu verrai dimenticato, mio caro Nicodème, io vivrò immortale nella gloria dei guerrieri.

Così impari, mi giustificai all'epoca come adesso, malevolo e sorridendo con altrettanto crudele gusto nel frattanto che sigillavano la tomba, ché non è tentando d’ammazzarmi che m’ispiri pietà per la tua sorte.

 

(Questa macabra vicenda ebbe luogo nell’estate del 1612 sotto il governo del Serenissimo Principe nostro Marco Antonio Memo, vicenda che Jacopo ed io giurammo sul sangue nostro di non condividere con nessuno, portandoci a Dio piacendo questo segreto nell’Aldilà.

Ciononostante, voi che deambulate di notte in campo San Barnaba, fate attenzione: Nicodème il cavaliere crocesegnato potrebbe ancora vagare alla ricerca di un’impresa onorevole da compiere e non vorrei che, disturbandolo, ahimé, possiate divenire voi la sua impresa.

Io v’ho avvertiti.)

 

 

 

 

FINE

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N.H è un’abbreviazione di “Nobil Homo”, nobiluomo e N.D. “Nobil Dona”, nobildonna. Altri nomi "tradotti": Jacopo Morexini = Giacomo Morosini; Zamaria = Gian Maria; Toffolo = Cristoforo; Errico Dandolo = Enrico Dandolo; Marco Antonio Memo = Marcantonio Memmo.

Questo racconto è liberamente ispirato ad una leggenda veneziana e proprio come in ogni leggenda, esistono di essa diverse varianti.

Riguardo a Nicodème de Besant-Mesurier, ci sono altre storie in cui egli sarebbe un templare che avrebbe scoperto il Sacro Graal, ma di lui non ci sono alcuni documenti storici precisi né riferimenti al suo luogo di sepoltura, sebbene tradizione vuole sia San Barnaba. Pertanto, fino a prova contraria, ci riteniamo assai scettici! La chiesa di San Barnaba è anche stato uno dei luoghi del film di “Indiana Jones e L’Ultima Crociata”, coincidenza? Mah!

Contrariamente a Dirupisti Vincula Mea, per pigrizia i dialoghi li ho tenuti in italiano, tranne qualche esclamazione e i nomi dei personaggi.

Spero che questo raccontino vi sia piaciuto! Alla prossima,

Un po’ di noticine:

[1] Gabinetto delle Curiosità = o anche Camera delle Meraviglie è la traduzione in italiano del termine tedesco Wunderkammer, ovvero adibire una stanza atta a mostrare “peculiarità” di ogni genere per dilettare ospiti e per spirito collezionista dei padroni. Questo fenomeno iniziò nel Cinquecento.

 [2] Passerino Bonacolsi = Rinaldo dei Bonacolsi, detto anche “Passerino”, fu della sua famiglia l’ultimo signore di Mantova prima di essere spodestato da Ludovico (o Luigi) Gonzaga nel 1328 con l’aiuto di Cangrande della Scala, signore di Verona. Narra la leggenda, che una veggente avrebbe predetto a Ludovico Gonzaga che fintanto che il corpo di Passerino Bonacolsi fosse rimasto a Palazzo Ducale, i Gonzaga sarebbero rimasti signori di Mantova. Due viaggiatori tedeschi confermano di aver visto la mummia del Bonacolsi in groppa ad un ippopotamo nel 1626 e nel 1630. Della mummia si perse però traccia agli inizi del Settecento coincidendo interessatamente con la caduta dei Gonzaga. 

[3] l’impresa di Errico Dandolo = la Quarta Crociata del 1202-4, in cui i cavalieri franchi, indebitatisi pesantemente con Venezia, da crociati divennero mercenari e quindi aiutarono la Serenissima ad impadronirsi di Zara e a mettere Costantinopoli al sacco,  a seguito anche della recente politica anti-veneziana del Basileus. Il Doge Enrico Dandolo fu a capo dell’intera crociata. Aveva più di ottant’anni ed era cieco.

[4] Trono di San Piero = trono in stile bizantino che si può ammirare nella Cattedrale di San Pietro in Castello a Venezia. Si dice che sia arrivato da Antiochia e che fosse appartenuto a San Pietro (cosa assai improbabile, lo schienale parrebbe essere una lapide araba).

[5] striscia = altresì nota come  spada all’italiana, si tratta di un tipo di spada a lama sottile.

[6] barbuti = assassini, giacché, per travestirsi, spesso indossavano barbe posticce. Ad un certo punto il Senato impose a tutti gli uomini di rasarsi il volto, così da far cadere immediatamente in sospetto su chi portava la barba. Nel Cinquecento essa però tornò di moda ma il termine “barbuto” rimaneva sinonimo di assassino, brigante.

[7] i rintocchi della Mezza Teza =  una delle cinque campane del Campanile di San Marco. Dopo il crollo del 1902, è rimasta solo una, la Marangona.

 

  
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