Non avrei
mai creduto di dover un giorno conferire l’aggettivo di pazzo al mio amico Jacopo Morexini,
eppure eccolo là, a guardarmi fisso e stralunato, con
occhiaie da vecchio e il
volto non dissimile ai lenzuoli appena usciti dalle ceste
dell’energiche
lavandaie.
“Ma
ne sei sicuro?”, inquisii per l’ennesima volta,
scuotendolo
leggermente per l’avambraccio, quasi a richiamare
l’equilibrio mentale
palesemente perduto. “Il tuo servitore si sarà e
sbagliato e tu … insomma, eri
appena rientrato dalla festa per celebrare il nostro nuovo Serenissimo
Principe
e non scommetterei, conoscendoti, della tua sobrietà in quel
momento!”
Jacopo si
scostò da me, lo sguardo d’un tratto astioso.
“Quale
vantaggio trarrei nel mentirti?”, ringhiò,
“pensi che mi diverta, confessarti
tali …”
“…
baggianate?”
“
… orrori?”
Sbuffai
snervato. “Jacopo, in tutta onestà, posso crederti
senza
dubitare di una tua follia quando mi racconti come la mummia esposta
nel
Gabinetto delle Curiosità [1] si
sia
mossa e ti abbia parlato?”
“Invece
mi devi credere!”, sbottò il mio amico, balzando
in piedi
frustrato e con altrettanta esasperazione si passò la mano
tra i folti capelli castani.
“Per la Crose Sancta,
m’internerei io
per primo all’ospedale, se fossi veramente matto! Eppure, su
quel che vuoi, ti
giuro che non è così! Io ho visto quella dannata
mummia muoversi, ne ho udito
le parole e soprattutto le minacce e quant’è vero
Iddio, quella camera rimarrà
ben chiusa finché sarò in vita checché
ne dica mio padre!” e si sedette
pesantemente, stremato dalla sua medesima collera, la pelle a chiazze e stringendo convulso la
chiave della stanza
al petto, proprio quella che si rifiutava di cedere malgrado le
insistenze del
genitore.
Slungandomi
sulla poltrona, non potei evitare un profondo sospiro
sconsolato, mordendomi tuttavia dubbioso il labbro: conoscevo Jacopo
Morexini
da una vita, ne stimavo il carattere sì allegro e incline
agli scherzi ma al
contempo giudizioso e pragmatico e dunque non mi capacitavo di vederlo
ora così
spiritato, fuori di sé.
Tutto era
incominciato quando nel corso dei lavori di abbattimento
di una vecchia cappella presso Campo San Barnaba era stato ritrovato
sotto
l’altare - cosa rara! – il corpo mummificato di un
antico guerriero. Poiché la
proprietà del fondo apparteneva alla famiglia del mio amico
e non essendoci
lapidi che indicassero la parentela del morto, i Morexini avevano
deciso di
rivendicarne il possesso onde esporre il misterioso cavaliere nella
Camera
delle Meraviglie del loro palazzo, un po’ come fanno i
Gonzaga con la mummia
dell’ancestrale nemico Passerino Bonacolsi [2]
ch’io vidi di persona a cavallo
di un ippopotamo durante una mia recente visita a Mantova.
Mentirei
grassamente se ora negassi la mia fascinazione dinanzi a
quei resti perfettamente conservati, il giorno in cui Jacopo mi aveva
presentato tutto entusiasta al nuovo pezzo della collezione di
famiglia.
“Un
cavaliere crocesegnato, di sicuro”, mi aveva confidato
orgoglioso. “Forse a seguito dell’impresa del
nostro Doge Errico Dandolo [3].
Chissà, potrebbe trattarsi di uno dei cavalieri che di
ritorno da Antiochia portò
il Sacro Graal nascosto nel trono di San Piero [4] e che qui
morì!”
Serbando
per me i miei scetticismi circa tali fiabe da balia (noi Veneziani
saremmo anche dei mangia-preti, come ci chiamano a Roma, tuttavia coi
tempi che
corrono meglio comunque tacere la propria opinione, non si sa mai),
avevo
preferito invece concentrarmi sullo studio della mummia, convenendo
solo sul
fatto che sì, forse poteva aver vissuto ai tempi
dell’astuto Dandolo. Contrariamente
poi al pessimo gusto del Duca di Mantova e del Monferrato, il padre di
Jacopo
aveva posto la sua mummia in un sarcofago di vetro ben sigillato, da
dove si
poteva tuttavia ammirare ciò che rimaneva della cotta di
maglia, dell’elmo e
brandelli di stoffa giallognola, forse un tempo bianca?, e ovviamente
la pelle
incartapecorita e circondata dai capelli rossicci del guerriero,
giacente con
le gambe incrociate e le mani intrecciate al petto, così
come gli operai
l’avevano trovato, impacchettato e consegnato al N.H.
Morexini. La vera chicca,
però, risiedeva nella spada sulla cui elsa ancora si
leggevano le seguenti
parole: Nicodème de
Besant-Mesurier e
sulla lama, quasi incise di fretta e sgraziate: d…n…
le d…sh…nneur, j’at…nds.
“Dans
le déshonneur,
j’attends”, nel disonore, attendo. Le parole che ora Jacopo, ripreso a
camminare invasato avanti e indietro dinanzi a me, seguitava a ripetere
peggio
di un ossesso, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive alla porta
sbarrata
là dove si trovava il corpo disseccato del cavaliere.
Era stata
sua madre, la N.D. Morexini, ad avermi convocato
d’emergenza, confidando nel mio buonsenso e amicizia onde
sanare il figlio
apparentemente uscito fuori di senno.
Da quanto
avevo compreso dal racconto sconclusionato del mio amico,
un mattino, a seguito di una festicciola in cui un Jacopo assai
alticcio aveva
esposto il macabro trofeo alla curiosità e al dileggio dei
suoi altrettanto
ebbri compari, il servitore Zamaria, riassettando la stanza, aveva
notato come
stranamente le braccia e le gambe della mummia avessero cambiato
posizione.
Dapprincipio titubante, egli aveva pensato aver preso un abbaglio
sennonché tre
giorni dopo ecco che il cadavere di nuovo sembrava essersi spostato e
stavolta
Zamaria era corso ad avvisare il padroncino che, temendo una
manomissione da
parte dei visitatori, aveva deciso di rinforzare le chiusure del
sarcofago.
Invano: a
quanto pareva, nonostante le nuove precauzioni, il fatto
s’era ripetuto sempre più frequentemente al punto
che, ogni mattina, prima di
colazionare, Jacopo tra lo stupore e la crescente preoccupazione dei
genitori e
parenti scendeva nel Gabinetto delle Curiosità a controllare
il cavaliere,
uscendo con una tal faccia da scambiar lui per una mummia.
“Sicché
hai deciso alla fine d’ivi trascorrere la notte onde vigilare
di persona?”, lo interrogai per l’ennesima volta,
tentando d’infondere della
sana e robusta logica in quell’assurda vicenda.
Jacopo
annuì freneticamente. “E non avvenne nulla.
Assolutamente
nulla”, narrò ma prima che potessi interromperlo,
proseguì in affanno:
“Quand’ecco, appena appena albeggiava, che udii un
fastidiosissimo stridore non
dissimile a quello che si produce graffiando …”,
deglutì, a malapena
trattenendosi dal rabbrividire, “graffiando con le unghie sui
vetri. E dopo, uno
scatto metallico e un altro e … e un altro ancora! Erano gli
scatti dei lucchetti!
Corsi per controllare e ... e il sarcofago si aprì! Capisci?
Si aprì! Lo scoperchiò
lui, Nicodème il cavaliere crocesegnato, il quale, levandosi
in piedi e
guardandomi con occhi di bragia m’apostrofò
ricolmo d’ira: Scellerato,
perché mi tormentate e mi schernite sì
crudelmente? Non
pagai già abbastanza con una tomba anonima e il disprezzo
del mio parentado?
Io, Nicodème de Besant-Mesurier, che sarei dovuto salpare
per la Terrasanta con
il vostro Principe Serenissimo e Duca,
io la sera prima della partenza m’ubriacai e
caddi in uno dei vostri
insidiosi canali, ove trovai la morte annegando. Vergognosa di tal
infamante
decesso, la mia famiglia si lavò le mani di me e neppur si
premurò di
rimpatriare questo povero mio corpo, condannato all’oblio in
una misera tomba
spoglia. Vedi come agili e robuste sono le mie membra, seppur
disseccate?
Possiede una mummia occhi sì umidi dal pianto di rabbia e
vergogna? Maledetto!
Sì, io son maledetto da questa mia morte disonorevole, senza
la consolazione
dei sacri riti, e in tal inferno io rimarrò in attesa
dell’Ultimo Giorno a meno
che io non compia una nobile impresa che mi riscatti. Ma so
già che è
impossibile. Pertanto, giovine irrispettoso, abbi almeno la
pietà di lasciarmi
in pace, di non espormi al ludibrio altrui e dunque ti avverto ora a
chiare
parole: il prossimo che entrerà in questa stanza,
pagherà con la vita! E da
quella notte, ogni notte, lo sento, lo sento muoversi e camminare
avanti e
indietro in quella dannatissima stanza!”
Non
resistetti più e scoppiai in una fragorosa risata.
“Che
mummia prolissa, tutto questo sermone ti sei dovuto sorbire?
E poi che male fa a sgranchirsi quelle ossa centenarie? Anzi, spaventa
pure le
pantegane!”, risi di gusto, asciugandomi le lacrime agli
occhi e provocando un
moto di stizza in Jacopo, che avanzò con veemente impeto
verso di me, indeciso
se pigliarmi a schiaffi o, congiungendo le mani, supplicarmi di
salvarlo da
quella, secondo me, paradossale situazione.
“Alvixe, amico mio, ti prego, in nome della Beata Vergine
almeno sforzati di credermi! Non comprendi? Il
prossimo che entrerà in questa stanza, pagherà
con la vita! Cosa dovrebbe
accadere, se per caso dovessero entrarvi i miei genitori? O i miei
fratelli e
sorelle? Non voglio, non voglio che quel mostro
li uccida!” e, inginocchiatosi,
singhiozzò disperato sul mio grembo,
suscitandomi una gran pena in petto nonché la triste
consapevolezza che sì, il
mio povero amico s’era sul serio ammattito.
“D’accordo,
ti credo”, cedetti onde sollevarlo dal pianto
angoscioso che lo sconquassava. Jacopo alzò il volto rigato
di lacrime,
sbattendo le palpebre sorpreso e sorridendomi timidamente speranzoso.
“Dopo che
avrò visto coi miei occhi questo
morto-resuscitato!”
La
mandibola del mio amico s’afflosciò e la sua bocca
penzolò
quasi come quella d’un Asburgo.
“No,
Alvixe, neppure per tutto l’oro del
Perù!”
Gli tesi
scocciato la mano: per colpa delle sue stramberie, Jacopo
mi aveva fatto perdere l’intero pomeriggio e già
le prime luci vespertine
riflettevano sul multicolore pavimento a seminato, colorando le pareti
di un
pallido scarlatto e allungando le ombre del mobilio. “Suvvia,
poche storie:
cedimi la chiave”, gli intimai severo e forse eccessivamente
aspro, ché il mio
amico s’ingobbì sulla difensiva. “Non
c’è bisogno che tu entri con me;
basterà
che tu stia di guardia alla porta e se mi sentirai bussare che tu
l’apra
immediatamente.”
Non mi
sfuggì il furioso conflitto che s’agitava nel
cranio del
mio amico, valutando delle mie parole ogni pro e contro, soprattutto se
sussisteva la possibilità di finire smentito e
ridicolizzato.
“D’accordo”,
acconsentì infine, seppur con lentezza estrema
neanche sperasse che nel
frattempo
cangiassi d’opinione. Come no! Non era mai stato mio costume
di risolvere
questioni in vane parole. Sarei entrato in quel Gabinetto degli Orrori,
pardon,
delle Curiosità e avrei dimostrato a Jacopo di quali
bislacche chimere si fosse
nutrito.
Ciononostante,
entrando nella stanza, pur trovandoci in piena
estate trattenni a stento un brivido, l’aria stantia e
fredda, anzi, umida
similmente alle cripte delle chiese. Ma giustificai tale aria mefitica
figlia
delle lunghe settimane senza ventilazione e pulizia da parte dei
domestici.
Forse, ecco, forse avrei dovuto attendere una luce migliore per questa
mia
impresa: in effetti, le ombre calanti della sera rimodellavano i
contorni e le
forme di tutte le stravaganze e animali impagliati ed esposti nel
Gabinetto
delle Curiosità, conferendo loro un’impressione di
sinistra vitalità. Ciò mi
persuase della bontà della mia idea, ovvero che sia il
servitore Zamaria sia
Jacopo a causa dei chiaroscuri dell’alba fossero state le
ignare vittime di
tale illusione ottica.
Accedendo
le candele di un candelabro, mi portai allora al centro
della camera, là dove mi attendeva il sarcofago di vetro
dove riposava la
mummia di Nicodème il cavaliere e anche in quel frangente ne
rimasi ammaliato
come la prima volta. Il corpo umano, lo confesso, sin dalla tenera
infanzia mi
aveva affascinato, quando assistetti al doloroso raddrizzamento di una
gamba di
un contadino ferito; da allora, a Padova e qualche rara volta a
Bologna,
coglievo ogni occasione per assistere alle dissezioni e prendere
appunti e solo
l’ostinata contrarietà di mio padre
m’aveva impedito d’intraprendere seriamente
gli studi di medicina.
Ben
protetto alla stregua delle reliquie della nostra Santa Lucia,
la mummia mi ricordò per la levigatezza delle mani e dei
piedi le statue di
legno che avevo ammirato sugli altari delle chiese in Cadore,
conservando un
curioso accenno di umanità che mai avevo scorto nei cadaveri
i quali, dopo
all’incirca quindici ore, diventano tutti uguali a
dimostrazione che è l’anima
ciò che definisce questo nostro guscio mortale. Del viso di
Nicodème potevo
scorgere ogni ruga, leggervi quasi un’espressione e sebbene
antico, si
presentava incredibilmente integro, incorrotto.
Pertanto,
mi dispiacque assai (al punto da sfiorare il fastidio)
veder tale prezioso miracolo alterato da una vestizione posticcia della
mummia,
infilato in una tunica bianca e sul capo un nuovo elmo ripescato
chissà dove.
Per un folle istante, mi sorse una gran rabbia e volli scoperchiare la
bara;
già in mano stringevo un lucchetto ma subitaneamente mi
fermai, incredulo io
per primo di questo sentimento a me sì alieno.
Mi
pizzicai la radice del naso, imponendomi di rafforzare lo
spirito e di non cedere a bizzarre pulsioni dettate, certamente, da
tutte le
suggestioni inculcatemi da quel matto di Jacopo.
Allontanandomi
quindi a malincuore dal sarcofago, mi sedetti su
di una poltrona poco distante onde averlo nel mio campo visivo, proteso
in
avanti in caso (suvvia!) avessi dovuto difendermi dal morto. Neppure le
ciglia
sbattevo pur di non perdere un singolo movimento all’interno
di quella stanza e
il mio respiro si faceva più flebile e distante del fine eco
dello sciabordio
delle onde dei canali.
La noia
mi colse, assieme ad un certo fastidio ai muscoli della
schiena. Fino a quando avrei dovuto assecondare questa carnevalata?
Non
sapendo che altro fare, con la guancia appoggiata sulla mano
mi concentrai sul rumore dell’acqua.
Thàlassa,
Thàlassa,
credo
sia mio destino amarti e in te morire.
Amata
inquieta e capricciosa, sei tu dunque gioia e tormento?
Singolare
canzone! Si trattava forse di un gondoliere che
transitava davanti al palazzo?
Lo
sciabordio, quell’atavica nostra nenia, si faceva sempre
più
vicino e rumoroso …
Ah, povero
sciocco! Cosa domandi?
Né a me né
ai venti si comanda.
Nessuno
m’imbriglia, con me ci s’accompagna.
La calle
è buia, sporca e scivolosa. Soffocante, talmente diversa
dai luoghi in cui sono nato e cresciuto.
Ah! Casa!
La rivedrò mai? Rivedrò mai il castello
sovrastante il
borgo, circondato dal penetrante olezzo degli infiniti campi di
lavanda? Anche
lì l’aria si mescola col salino del mare, ma
è pura, mentre quest’aria marina è
impregnata di sangue e denaro. Thàlassa per questa
città è la moglie, Pecunia
l’amante.
La gente
qui mi fissa obliqua, onnisciente, quasi sapesse del mio
destino e pare deridermi ad ogni mio gesto e parola. Sibilano e
cantilenano,
serpenti e sirene. Sorrisi spietati!
Avrò
stasera per questo alzato il gomito più del solito?
D’altronde, qui tutto è buono, ogni pietanza cotta
con spezie rare e
specialmente il vino che si fanno venire da Candia e Cipro e quelle
donne dagli
ammalianti occhi neri …
Barcollo,
le vertigini mi assalgono.
Dove
sono? Non vedo più niente!
Aspetta,
non ero già passato per di qua? Questo piccolo altare
credo d’averlo già visto …
Inciampo
… su cosa? Che si è mosso?
Soffoco!
Il mondo gira! Quale maleficio mi ha colto in questa
città maledetta?
Un rumore?
Cos’è?
Finalmente una qualche anima pia venuta a guidarmi in
quest’inferno? Chi sei ...?
Sì!
sì! Aspetta! Aspetta! Aspet –
Thàlassa è
a caccia di nuovi amori,
sei lei ti
sceglie, ti fa re!
Forzala e
nel suo abbraccio soffocherai …
Acqua.
Acqua
ovunque.
Acqua
bruciante nei polmoni.
Acqua che
mi …
Giovine
ardito, sposo diletto,
Sei mio,
sei mio per sempre.
Annaspai,
scattando in un movimento talmente inconsulto e
scoordinato che poco ci mancò che caddi rovinosamente dalla
poltrona, il cuore
un tamburo di guerra che mi rimbombava nel torace.
Di
riflesso, postomi in piedi, tesi l’orecchio alla ricerca del
rumore delle onde: niente, lontanissime da dove mi trovavo, non
c’era alcuna
possibilità che potessero ghermirmi …
“Ghermirmi?”,
domandai a me stesso ad alta voce, l’unica cosa viva
in quell’esibizione di natura morta (in ogni senso).
“Ghermirmi?”, ripetei con
inusuale veemenza, umiliato da quel mio atteggiamento codardo. Farmi
intimidire
da un sogno? D’accordo, avevo sognato d’annegare ma
… Oh! Ovvio!
Risi
forte.
“E’
colpa vostra, messere!”, ridacchiai, illuminando il vetro
della bara, dove il cavaliere se ne stava – sorpresa,
sorpresa! – ben immobile
al posto suo. “Mi
avete indotto una
vostra reminiscenza! Canaglia! Briccone!” e siccome ormai la
sera era calata,
decisi di aver sprecato abbastanza tempo quel giorno e di conseguenza volli tagliar corto,
rincasando e dedicandomi
ad attività più utili e gratificanti.
“Jacopo!
Jacopo, apri la porta!”, battei sul legno, calmissimo,
onde sottolineare la stupidità del mio amico che, con faccia
altrettanto da
idiota, comparve sconvolto all’uscio neanche fosse sorpreso
di vedermi ancora
vivo e con la testa sulle spalle. Hé, decisamente
più della sua.
“Ebbene?”
“Ebbene,
te sè ‘na
testa-da-àmoi!”,
sentenziai seccamente, spintonandolo via di malagrazia e aumentando lo
stupore
di Jacopo, che seguitava a fissarmi trasognato.
“D’ora innanzi m’attendo più
giudizio da parte tua: come puoi ben vedere” e indicai la
punta del sarcofago
che faceva capolino, “le tue non sono che chimere dovute al
vino e alla stanchezza
di nottate trascorse in bianco, mostri partoriti da una mente ammollita
nell’ozio!”,
berciai, stupendomi d’un tratto delle mie crudeli parole
ché sì, volevo
rampognare il mio amico ma non umiliarlo.
E
infatti, Jacopo abbassò colpevole lo sguardo, incassando la
mia
filippica con mitezza da martire; ciononostante, zitto-zitto, richiuse
lo
stesso a chiave la porta del Gabinetto delle Curiosità.
“Ti
faccio riaccompagnare a casa dal nostro gondolier de
casàda”,
mi propose a disagio, gli occhi mesti ben puntati ai piedi.
“Mi rincresce d’averti
arrecato tale noia e perdita di tempo …”
Adesso fu
il mio turno di provare imbarazzo per quel mio sfogo
ingiustificato. “E’ una serata deliziosa,
camminerò per un tratto”, mi
schermii, afferrando cappello e mantellina. Ed ignorando come
congedarmi
adeguatamente, farfugliai impacciato: “Possiamo discuterne
domani mattina, se
avresti voglia di visitarmi e colazionare da me …”
Jacopo
assentì distrattamente, lo sguardo perso nel vuoto.
Toffolo,
il mio servitore, accese un lume da passeggio e mi
precedette lungo campielli, calli, ponti e sotoporteghi; anche se non
potevo
scorgere le espressioni del suo viso, dal continuo e sommesso suo
borbottare (ma varda ti, se gh’ho da
far el còdega a
rezer el mòccolo) intuii la sua scontentezza di
dover rincasare a piedi col
buio pesto delle nostre notti, rese ancor più opprimenti
dalla calura estiva
(In effetti, cogitavo, avrei dovuto seguire mio fratello alla Villa)
Al nostro
incedere, gli edifici comparivano timidamente curiosi
per poi finire inghiottiti dall’oscurità,
deformandosi in grotteschi giganti
dagli occhi neri e vuoti, riflettenti come gli occhi di un gatto e
incombenti
su di noi, quasi volessero avvolgerci in esso, fondendoci assieme in
un'unica
materia. Ogni tanto coglievo in lontananza un distante vociare, una
malinconica
canzone, rumore di vasellame, squittii sospetti e
l’immancabile sciabordio dei
canali. Mi sentii già meglio, la rabbia sbollita. E allora
realizzai: così
tardi avevo fatto? Venezia intera pareva pietrificata, mai avevo
assistito a
tanto silenzio …
All’improvviso,
Toffolo si bloccò, allungando il collo alla
stregua d’un bracco da caccia.
“Cosa
c’è?”, m’informai apprensivo.
Decisamente una pessima idea,
la mia.
Il mio
servitore indicò qualcosa dinanzi a sé, alle mie
spalle. “Sior patron, non
udite questi passi?”
Il
respiro mi si gelò in gola, mentre con le dita scorrevo
l’elsa
della striscia [5], le orecchie tese in ascolto.
Niente.
Silenzio.
“Ti
sarai sbagliato”, lo rassicurai cautamente, aggiungendo
però
subito: “Quanto distanti siamo da San Tomà?
Potremmo fermare una gond - …”
Ecco!
Ecco!
Adesso li
sentivo, i passi!
Mi voltai
di scatto. “Chi va là?”, gridai,
sforzandomi di tenere
un tono duro e perentorio e piazzandomi dinanzi all’inizio
della calle, da cui
avevo captato la provenienza di quel rumore. “Chi va
là?”
“Sior patron, che andate
ad attaccar bottone coi barbuti?
[6]
Andiamo via, prima che ci sgozzino!”
“Taci,
sciocco!”, sibilai adirato, pur indietreggiando per
precauzione di qualche passo. “E dammi la
lanterna!”, gli intimai e una volta
soddisfatto il mio ordine, alzai il lume in direzione dei passi,
mordendomi
nervosamente il labbro inferiore quando appurai come la fiamma
illuminasse la
calle vuota.
Ma i
passi c’erano, perdio, li sentivo rimbombare più
dello
scalpiccio dei cavalli!
“Toffolo?
Corri all’imbarcadero e …”, ma con mio
sommo sgomento,
girando la lanterna, scoprii come il mio servo fosse sparito nel nulla,
lasciandomi solo a fronteggiare chiunque si stesse avvicinando a passo
sempre
più spedito.
Applicando
il consiglio dapprincipio disdegnato, incominciai a
correre alla cieca. Sbattei dolorosamente contro muri comparsi
all’improvviso;
incespicai e scivolai sulla fanghiglia e mi sbucciai mani e ginocchia,
eppure
non solo non riuscivo a seminare il mio inseguitore, ma avevo
addirittura
perduto l’orientamento, apparendomi le calli tutte uguali,
anonime e anguste.
“Fatti
avanti!”, ansimai in un misto di coraggio e panico, deciso
a battermi se non potevo fuggire. “Codardo! Affrontami, se ti
regge il cuore!”,
urlai, mulinando attorno a me il lume, onde scovare quel maledetto.
I passi
cessarono e per un piacevole istante sperai che il mio
inseguitore avesse desistito nell’impresa, non giudicando lo
sforzo vantaggioso.
Commisi
pertanto l’errore di abbassare sia la punta della striscia
sia la lanterna e fu così che me lo trovai
all’improvviso addosso, il cadavere
mummificato del cavaliere Nicodème de Besant-Mesurier
in tutta la sua
orrida figura. Ignoro se fosse stato il terrore o la sorpresa o un
infelice
connubio dei due: fu sufficiente per impedire ogni mia reazione e
quelle mani,
forti come tenaglie e inflessibili come il legno dei roveri sul
Montello, si
trovarono al mio collo e ivi strinsero, mentre le
unghie lunghe prementi sulla tenera pelle
traevano sangue.
La vista
mi s’annebbiò, riempiendosi di chiazze nere e
gialle;
avvertii le ginocchia cedere e lentamente cadere per terra, il cuore
pompante
furioso e la mente in affanno, l’unico suo pensiero coerente
ancora formulatovi
era che non avrei mai più ammirato la luce del sole, morendo
lì, al buio, in
una calle maleodorante, ucciso dallo spettro di una mummia vecchia di
quattrocento e passa anni. (Lo sciabordio dell’acqua
… le onde … lo sciabordio …)
Sicché,
ultima grazia terrena, vidi per davvero la luce. E la
Madonna.
Danzando
mortalmente, lui a strangolarmi ed io ad indietreggiare,
eravamo giunti ad un incrocio dove in una nicchia si trovava illuminata
dai
molti cesendeli e
ceri un bassorilievo
della Vergine col Bambino. Immediatamente, senza pensare, ne afferrai
uno e lo
ficcai nell’occhio di Nicodème de Besant-Mesurier
che cacciò un agghiacciante
urlo di dolore, reggendosi il viso ustionato e sanguinante, impossibile
per un
corpo disseccato, e dondolandosi in avanti e indietro a tentoni
cercò la mia striscia
caduta. Trovatala, appena ebbe il tempo di piegarsi che mi gettai
sventatamente
disperato su di lui (lo sciabordio dell’acqua mi aveva
rincuorato! Thàlassa! Thàlassa!)
e lo spinsi in canale, cadendo sfinito a bocconi sulla riva e ansimando
allo
spasimo.
Quand’ecco,
che mentre mi rialzavo dall’acqua nera riemerse
quell’artiglio
dalle fattezze di mano e m’afferrò la caviglia; a
stento evitai di raggiungere
il francese nella sua tomba, forse salvato da quale bricola, non so,
però mi
aggrappai con tutte le mie forze e strattonai dalla parte inversa
finché non
udii uno strappo e un tonfo.
Rotolai
nel selciato e nel liquame e, Dio mi perdoni, alla vista
della mano ancora ghermente di volontà propria la mia
caviglia persi invero il
senno e corsi chissà dove, ovunque, anche
all’inferno stesso.
“Aprite!
Per l’amor d’Iddio e della Vergine,
aprite!”, singhiozzai
alla prima porta cui urtai letteralmente contro e se mi aprirono, che gliene sia reso merito, io mi ricordo solo che svenni e poi non seppi più nulla.
Mi
risvegliai dolorosamente a giorno fatto, perdendo di molte ore
i rintocchi della Mezza Teza [7] e stupendomi di ritrovarmi chinati su
di me un
medico, il N.H. Morexini, Jacopo e il mio servitore Toffolo che si
torceva in
affanno le dita. Buon per lui, giacché avevo ogni intenzione di
pigliarlo a calci nel
deretano.
Siccome
però dovevo conferire urgentemente col mio amico, finsi
confusione e sonno e poco dopo, infatti, venni lasciato solo con
espresso
ordine di “riposare.”
Sicuro,
come no.
“Cos’è
successo?”, m’informai, puntellandomi sui gomiti.
Jacopo,
bianco avorio, mi raccontò concisamente: “Ti ha
portato
qui il tuo servitore: eri fuori di te, lercio di scouace da capo a
piedi, sudavi
più del Cristo nel Getsemani e deliravi su
Thàlassa, sul cavaliere e Dio solo
sa che altro … Per fortuna Padre ha pensato ad un tentativo
di furto e
aggressione; gliel’ho lasciato credere …”
Balzai
fuori dal letto, pigliando una camicia pulita (mi
accarezzai inconsciamente il collo, là dove il piccolo
specchio rifletteva i
segni delle dita e i graffi) e infilando in fretta calze, braghe e
scarpe così
scompigliato mi diressi verso il Gabinetto delle Curiosità
con un perplesso
Jacopo alle mie calcagna.
“E’
ancora chiusa la stanza?”
“Ovvio!”
“Perfetto!”
e afferrato per sicurezza un attizzatoio dal
caminetto. “Perché ci voglio entrare di
nuovo!”
“Sei
pazzo!”
“Oh,
sì!”, replicai con la determinazione di era
sopravvissuto all’incredibile
e nulla più lo intimoriva ormai. Mi sentivo tranquillissimo, avendo trovato una logica nell'illogico.
Inoltre,
mi si stava formulando una teoria in testa, sviluppatasi
a seguito del ricongiungimento di tutti i tasselli delle vicende
accadute. Di conseguenza,
provai una perversa soddisfazione nell’appurarne la
veridicità, quando Jacopo
ed io raggiungemmo il sarcofago.
Eccola
là, quella mummia della malora, col viso mezzo bruciato e
contratto in una smorfia di rabbia e dolore, senza una mano e la mia striscia
lercia
di melma accanto a lui.
Il mio
amico si segnò tre volte.
“Perdonami
per aver dubitato di te”, mormorai grave, stringendogli
la mano tremante. “Adesso ti credo.”
Inutile
aggiungere, come Jacopo diede istruzione di seppellire in
gran segreto la mummia del francese, nella Chiesa di San Barnaba
là dove poco
distante avevano demolito la piccola cappella che per quattro secoli
l’aveva
ospitato. E similmente ai nostri antenati, non gli demmo alcuna lapide
e
stavolta non per denigrazione, bensì per evitare ogni
eventuale riscoperta
della sua tomba.
Certo, il
N.H. Morexini padre di Jacopo si era dispiaciuto assai
di aver perso quel gran bel pezzo da collezione, dai suoi pari
invidiato; allo
stesso tempo aveva però lodato lo spirito cristiano del
figlio finalmente
rinsavito, contento di come non lo tarmasse più con
baggianate su francesi, dame e cavalieri,
maledizioni e morti-che-camminano. Ne aveva già abbastanza
in Senato senza
appesantirsi ulteriormente il fegato.
All'insaputa del mio amico conservai la spada del crocesegnato, monito alla mia arroganza e personale vendetta nei confronti di quest'ultimo, così sul serio gli sarebbe stato difficile, in bara e senza arma, compiere un'impresa nobile. Me la sono portata ovunque, perfino a Candia e vi confesso che contemplarla la sera antecedente la battaglia, malgrado gli anni trascorsi, tuttora mi rende doppiamente gradevole l'affondo della mia, di spada, nelle gole dei Turchi. Tu verrai dimenticato, mio caro Nicodème, io vivrò immortale nella gloria dei guerrieri.
Così impari, mi giustificai all'epoca come adesso, malevolo e sorridendo con altrettanto crudele gusto nel frattanto che sigillavano la tomba, ché non
è tentando
d’ammazzarmi che m’ispiri pietà per la
tua sorte.
(Questa
macabra vicenda ebbe luogo nell’estate del 1612 sotto il
governo
del Serenissimo Principe nostro Marco Antonio Memo, vicenda che Jacopo
ed io
giurammo sul sangue nostro di non condividere con nessuno, portandoci a
Dio
piacendo questo segreto nell’Aldilà.
Ciononostante,
voi che deambulate di notte in campo San Barnaba,
fate attenzione: Nicodème il cavaliere crocesegnato potrebbe
ancora vagare alla
ricerca di un’impresa onorevole da compiere e non vorrei che,
disturbandolo,
ahimé, possiate divenire voi
la sua
impresa.
Io
v’ho avvertiti.)
FINE
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N.H
è un’abbreviazione di “Nobil
Homo”, nobiluomo e N.D. “Nobil
Dona”, nobildonna. Altri nomi "tradotti": Jacopo Morexini = Giacomo Morosini; Zamaria = Gian Maria; Toffolo = Cristoforo; Errico Dandolo = Enrico Dandolo; Marco Antonio Memo = Marcantonio Memmo.
Questo
racconto è liberamente ispirato ad una leggenda veneziana e
proprio come in ogni leggenda, esistono di essa diverse varianti.
Riguardo
a Nicodème de Besant-Mesurier, ci sono altre storie in
cui egli sarebbe un templare che avrebbe scoperto il Sacro Graal, ma di
lui non
ci sono alcuni documenti storici precisi né riferimenti al
suo luogo di
sepoltura, sebbene tradizione vuole sia San Barnaba. Pertanto, fino a
prova
contraria, ci riteniamo assai scettici! La chiesa di San Barnaba
è anche stato
uno dei luoghi del film di “Indiana Jones e
L’Ultima Crociata”, coincidenza? Mah!
Contrariamente
a Dirupisti Vincula Mea, per pigrizia i dialoghi li
ho tenuti in italiano, tranne qualche esclamazione e i nomi dei
personaggi.
Spero che
questo raccontino vi sia piaciuto! Alla prossima,
Un
po’ di noticine:
[1] Gabinetto
delle Curiosità = o
anche Camera delle Meraviglie è la
traduzione in italiano del termine tedesco Wunderkammer, ovvero adibire
una
stanza atta a mostrare “peculiarità” di
ogni genere per dilettare ospiti e per
spirito collezionista dei padroni. Questo fenomeno iniziò
nel Cinquecento.
[2] Passerino
Bonacolsi = Rinaldo dei Bonacolsi, detto anche
“Passerino”, fu della sua
famiglia l’ultimo signore di Mantova prima di essere
spodestato da Ludovico (o Luigi)
Gonzaga nel 1328 con l’aiuto di Cangrande della Scala, signore di Verona. Narra
la leggenda, che
una veggente avrebbe predetto a Ludovico Gonzaga che fintanto che il corpo
di
Passerino Bonacolsi fosse rimasto a Palazzo Ducale, i Gonzaga sarebbero
rimasti
signori di Mantova. Due viaggiatori tedeschi confermano di aver visto
la mummia
del Bonacolsi in groppa ad un ippopotamo nel 1626 e nel 1630. Della
mummia si
perse però traccia agli inizi del Settecento coincidendo
interessatamente con
la caduta dei Gonzaga.
[3]
l’impresa di Errico Dandolo
= la Quarta
Crociata del 1202-4, in cui i cavalieri franchi, indebitatisi
pesantemente con
Venezia, da crociati divennero mercenari e quindi aiutarono la
Serenissima ad
impadronirsi di Zara e a mettere Costantinopoli al sacco, a seguito anche della
recente politica
anti-veneziana del Basileus. Il Doge Enrico Dandolo fu a capo
dell’intera
crociata. Aveva più di ottant’anni ed era cieco.
[4]
Trono di San Piero = trono in stile
bizantino che si può ammirare nella Cattedrale di San Pietro
in Castello a
Venezia. Si dice che sia arrivato da Antiochia e che fosse appartenuto
a San
Pietro (cosa assai improbabile, lo schienale parrebbe essere una lapide
araba).
[5] striscia
=
altresì nota come spada
all’italiana, si
tratta di un tipo di spada a lama sottile.
[6] barbuti
=
assassini, giacché, per travestirsi, spesso indossavano
barbe posticce. Ad un
certo punto il Senato impose a tutti gli uomini di rasarsi il volto,
così da
far cadere immediatamente in sospetto su chi portava la barba. Nel
Cinquecento
essa però tornò di moda ma il termine
“barbuto” rimaneva sinonimo di assassino,
brigante.
[7] i
rintocchi della Mezza Teza = una delle
cinque campane del Campanile di San Marco. Dopo il crollo del 1902,
è rimasta
solo una, la Marangona.