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Autore: ValeS96    12/01/2020    2 recensioni
«anche io forse cerco di trattenere scampoli di una stagione finita troppo presto, brandelli di ricordi rimasti tra le dita.»
- Questa storia partecipa a "Il contest degli haiku" indetto da Juriaka sul forum di EFP. -
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PACCHETTO 10

Guarderò la luna
senza mio figlio sulle ginocchia
quest'autunno


Tematica generale: perdita (di qualcuno, non necessariamente nel senso di death character, o di qualcosa, come un'occasione mancata o le chiavi di casa)
Luogo: museo / galleria d'arte
Prompt: dovrà essere presente una lettera, una poesia, uno scritto di qualunque tipo che sarà composto da un vostro personaggio
Stagione: autunno







 
 
SCAMPOLI D'ESTATE

 
 
 
Autunno, o i residui di vita che si spengono tossendo le loro ultime energie. Autunno, o malinconie di estati che camminano in silenzio lungo strade umide, portandosi sotto i vestiti i ricordi della stagione volata via per non farli seccare.
Anche io percorro in silenzio la via alberata in questo pomeriggio pallido. Foglie secche mi cadono sulla giacca, me le scrollo di dosso mentre l’asfalto sordo scandisce i miei passi militareschi.
E come un riflesso in questo grigiore che si accascia sulle pozzanghere del marciapiede, vedo i nostri piedi nudi, l’acqua limpida e refrigerante che ci scorreva tra le dita, che ti scendeva sul collo, che ti impregnava i capelli. Penso ai tuoi particolari in quel sole estivo, mentre questo autunno mi soffoca con un sole malato che sfiora debole quelle foglie scartate e abbandonate a finire di morire ai lati della strada. Penso a quando cadevano le pesche mature nelle nostre mani e ci coloravano l’estate, ci macchiavano i vestiti, ci addolcivano la pelle; cadevano da alberi così verdi che ti accendevano le pupille di speranza mentre ti si scompigliavano i capelli in cui foglie e i fili d’erba andavano a intrecciarsi.

Raggiungo a passi troppo veloci la Galleria e attraverso l’ingresso, sollevato nel lasciarmi alle spalle le malinconie che avvertivo addosso a tutta quella gente che marciava a testa bassa e con le mani in tasca. Penso alle tue mani, a noi che non avevamo tasche, non avevamo vestiti,  e non c’era bisogno di nascondere le dita che non cercavano altro che pelle morbida da sfiorare, o che bramavano di correre lungo le venature del tuo braccio troppo bianco per quell’estate così calda, rovente nella sua vitalità. Ora, invece, anche io le tengo in tasca come tutti gli altri: anche io forse cerco di trattenere scampoli di una stagione finita troppo presto, brandelli di ricordi rimasti tra le dita. Trattengo te tra le mie dita.

Un corridoio, un altro corridoio, un altro corridoio, nuovi sentieri di marmo mi fanno eco sotto le scarpe. Penso ai sentieri italiani, penso alle nostre biciclette cigolanti lungo strade i cui orizzonti tremavano al calore di un’estate torrida disegnata solo per noi, orizzonti che ci mostravano che potevamo andare ovunque, io e te. Ovunque, finché le nostre biciclette avessero cigolato ancora, finché i raggi ci avessero investito i capelli, finché i polmoni ci avessero permesso di urlare alle cicale quanto ci fosse ancora da vivere, per me e per te. E i sassi sordi che ci rotolavano sotto i piedi e si gettavano nell’acqua oscillando appena. Poi noi, di nuovo, che in quell’acqua lavavamo il viso, le gambe, le mani, acqua che ci rinfrescava la vista e ci ossigenava i sogni.

Un altro corridoio, e altre persone mi affollano la vista e le orecchie: non vedo i loro visi, non ascolto le loro omelie. Li ignoro. Mi avvicino a opere d’arte troppo perfette, a quadri troppo grandi, a pennellate troppo acute, a colori troppo accesi, a cornici troppo sfarzose; ascolto guide troppo preparate, lingue sconosciute, turisti troppo felici.
Mi sposto ancora in un altro corridoio e di nuovo l’eco dei miei passi rimbomba, riempie le pareti e mi ritorna addosso. Mi riporta ancora una volta dove non sono più. E sento lo scricchiolio sordo del pavimento di legno di fronte alla tua camera, quella porta che faceva così tanto rumore da farti impazzire. Ricordo i suoni della tua stanza, la tua matita sul taccuino, le molle del tuo materasso che cigolavano, le cassette che scattavano nel walkman, l’armadio tarlato che sbatteva. Ma niente ricordo più della musica del tuo pianoforte che danzava con la brezza tra una finestra e l’altra.

Cammino ancora un po’, ignoro ancora chi mi passa accanto, ignoro persino gli studenti come me, con cui ero solito fare due parole per commiserarsi insieme sul triste destino di chi vaga per un museo con un taccuino in mano. Ricordo di avere un taccuino nella mia piccola borsa appesa alla spalla: lo tiro fuori distrattamente insieme a una piccola matita. Una pagina bianca mi si apre davanti, in attesa di essere riempita di frasi adatte a descrivere bellezze che non riconosco più, marmi che non sanno più cosa dirmi e che io non so più ascoltare.

Sospiro. Cambio sala ancora una volta, con una flebile speranza immotivata. Ci deve essere una Bellezza che ancora sappia parlarmi: so che mi sta cercando, so che mi sta chiamando, forse solo adesso ne avverto il sussurro. Forse finalmente mi ha trovato.
Alzo gli occhi e la vedo.
Non ho bisogno di leggere chi è scolpito in questo marmo, lo so già, e non perché qualche libro troppo pesante me lo abbia dettato con maniacale precisione: lo riconosco perché lo avverto sotto la pelle. Sento un brivido percorrermi la schiena. Questa, forse, è la Bellezza.
Davanti a me ci sei tu, Apollo, nel tuo splendore senza tempo.  Percorro i tuoi lineamenti delicati e innocenti, le tue vene sottili, attraverso le tue curve morbide, delicato ti accarezzo con lo sguardo, ti sfioro in ogni tuo lembo, cammino lungo le tue colline, le tue valli, le cime dei tuoi ricci. Rivedo ancora una volta lui: lui, bello come te, perfetto come te, ma vivo. Ricordo la sua pelle così calda sotto la mia, e vorrei solo poterti toccare per sentire se anche la tua lo è.
Rivedo le passeggiate sottovoce nelle sere d’estate, con le nostre magliette che ci vibravano addosso, che ci sembrava quasi che ad alleggerire i vestiti si alleggerissero anche i cuori. Fuori da ogni dimensione, fuori da ogni concezione umana. E in questo infinito istante, come in quelle sere, il tempo mi sembra immobile. 
A te, Apollo, il ricordo di un’estate troppo breve, il suo nome sulle sue labbra, il mio nome sulle mie labbra, una promessa nemmeno sussurrata, un bacio accarezzato sui nostri occhi, un abbraccio annientato da uno stridio di binari e uno sbuffo di vapore, un saluto strozzato dai desideri scalpitanti e graffianti in fondo alla gola.
A te, Apollo, un bacio lieve che arrivi ai confini della Bellezza, là dove puoi raggiungerlo, là dove può sentirti.

Sul mio taccuino, una sola parola:

Ἥλιος.  (Helios)









Nota: mi faceva piacere specificare alcune cose a conclusione, giusto alcuni chiarimenti. Ho voluto lasciare la OS in una atmosfera piuttosto vaga e non definita, per cui non è ambientata in un museo preciso; semplicemente considero che Oliver sia da poco tornato a casa e continui ad occuparsi dei suoi studi.
Non faccio riferimento a una statua in particolare, più per un fattore di tempi e spazi che avrei trovato complesso ricostruire, insieme alla mia scarsa conoscenza della storia dell’arte.
Infine, mi sono attenuta a quella parte di tradizione mitologica che considera Apollo come dio del Sole e delle Arti, pur sapendo che un’altra parte di mitologia considera separatamente Helios e Apollo come due divinità distinte.
Certamente si tratta di scelte discutibili, ma ho fatto questa nota apposta per chiarire alcuni aspetti in anticipo.
Grazie!

Vale









 
  
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