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Autore: Napee    12/01/2020    1 recensioni
[KageHina] [Tengu!AU]
***
Hai mai rinunciato a tutto per amore?
Hai mai rinunciato al tuo sogno per la persona che ami?
Genere: Angst, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il mattino seguente, Kageyama fu svegliato dai raggi del sole che filtravano dalla finestra ben prima che la sveglia suonasse. Pigramente si stropicciò gli occhi e si mise seduto sul letto.
La giornata era già iniziata con il piede sbagliato.
Un leggero mal di testa aveva appena iniziato a torturarlo, succedeva sempre così quando suo padre non tornava e lui riceveva la notizia da sua madre.
Niente per cui valesse la pena perdere il sonno, tuttavia a forza di reprimere quella rabbia e quel senso di abbandono che ormai si portava dietro da anni, aveva preso la spiacevole abitudine di svegliarsi con un mal di testa appena alla base del collo che si sarebbe trasportato per tutto il giorno.
Gettò un’occhiata allo schermo del cellulare. La batteria era carica, la sveglia sarebbe suonata fra meno di tre minuti, ma Hinata non gli aveva ancora risposto al messaggio.
Una smorfia di disapprovazione gli si dipinse sul viso.
Non gli piaceva che Hinata lo ignorasse a quella maniera, non gli piaceva non averlo intorno ad infastidirlo per tutto il tempo come ormai si era abituato ad avere.
Era strano… insolito.
Non che tutti i giorni si messaggiassero con regolarità per chissà quante ore, ma solitamente almeno un sms dopo che si erano congedati dopo gli allenamenti se lo scambiavano.
Niente di trascendentale, per lo più erano offese scherzose che Kageyama aveva sempre classificato come una seccatura inutile e gratuita non richiesta.
Adesso però quel silenzio iniziava a pesargli e non poco.
Certo, l’ultima volta che si erano visti non si erano propriamente lasciati in buoni rapporti. Kageyama aveva praticamente perso le staffe incazzato com’era e lo aveva spintonato al muro senza troppa gentilezza. Poi aveva girato i tacchi incurante di avergli fatto male o meno e aveva tirato dritto verso l’infermeria affinché gli visitassero il polso.
In pratica aveva tenuto un comportamento pressoché di merda e ora si aspettava pure che Hinata lo considerasse come se niente fosse.
Non sapeva neppure se ce l’aveva con lui o meno… non gli aveva chiesto niente, nemmeno lo aveva cercato una volta uscito dall’infermeria, semplicemente aveva tirato dritto accompagnato dalla sua rabbia accecante.
Dopotutto era colpa di quel nanerottolo se non poteva allenarsi. Era colpa sua e di quel suo bisogno spasmodico di prendere ogni palla che venisse ributtata nel loro campo.
Lo sguardo gli cadde sulla fasciatura del suo polso. Andava cambiata e probabilmente avrebbe dovuto indossare un tutore per tenere il polso fermo il più possibile.
Tutto per colpa di Hinata che neppure si preoccupava di sapere come stesse.
Fanculo. La giornata era iniziata davvero male.
Scese dal letto come una furia e si diresse in bagno per una doccia veloce. Dalla cucina, la voce di sua madre che canticchiava l’ennesima canzone pop del momento gli arrivò forte e chiara sul suo sistema nervoso.
Si lavò velocemente, indossò la divisa scolastica e scese per fare colazione.
Sua madre aveva abbondato quella mattina, preparandogli un sacco di pietanze e il bento completo di tamagoyaki.
Si sedette al tavolo e attese che sua madre prendesse posto dopo che gli aveva rifilato il bento stracolmo di cibo sotto al naso.
“A cosa devo tanto impegno?” chiese scettico iniziando a piluccare un po’ di riso.
“Non posso fare qualcosa per mio figlio?” chiese retoricamente la donna, sorridendo con aria fintamente innocente.
Come se Kgeyama non la conoscesse affatto… e un po’ le fece quasi tenerezza. Davvero quell’adolescente mai cresciuta credeva di farla franca con suo figlio?
La conosceva da tutta la vita e sapeva bene che quando doveva dargli una notizia poco gradita, prima lo coccolava con attenzioni e premure e poi gli dava la mazzata.
“Di solito mi dici anche qualcosa che non mi piacerebbe sentire quando fai qualcosa per me.” Gettò lì Kgeyama, guardandola di sottecchi mentre continuava a mangiare.
Sua madre sorrise colpevole e sviò lo sguardo velocemente. Troppo velocemente per i suoi gusti.
“Sai, tuo padre mi ha scritto un messaggio stamattina presto chiedendo se volevamo raggiungerlo noi in Scandinavia.”
Appunto. Quella giornata si stava pian piano trasformando in un vero e proprio inferno.
Kageyama fu attraversato da un variopinto arcobaleno di sentimenti, ma tutti al suo passaggio non lasciarono alcuna sensazione positiva dentro di lui.
Dapprima c’era stato un sentimento di forte impazienza e voglia di rivedere quel genitore che da anni ormai non si palesava più a casa loro. Se non fosse stato per le foto che mandava – e che sua madre aveva appeso alle mura un po’ ovunque – neppure si ricordava la sua faccia.
Poi c’era stata la rabbia. Ma quella vera. Quella che gli aveva fatto sbattere la ciotola del riso sul tavolo e lanciare le bacchette a terra.
Fanculo!
Quell’uomo a stento si ricordava di avere una famiglia dall’altra parte del mondo e ora gli chiedeva di raggiungerlo?!
Per condividere cosa di preciso insieme? Una bella vacanza dove lui e sua madre sarebbero stati per i fatti loro mentre lui sarebbe andato in esplorazione con i colleghi?
“Che vada al diavolo quello stronzo!” non si era risparmiato. Aveva gettato fuori quello che pensava con un’unica forte espressione che era arrivata forte e chiara alle orecchie di sua madre.
“Tobio, non ti permettere-…”
“Cosa?! Di dire la verità?” la interruppe bruscamente spalancando le braccia con enfasi ed esasperazione.
“Non ho intenzione di raggiungerlo dall’altra parte del mondo solo perché te lo ha chiesto! Quante volte gli ho chiesto io di tornare e non è mai tornato?”
“è diverso, lui sta lavorando!”
“Non gli ho chiesto io di lasciarci qui da soli!”
Lo schiaffo di sua madre gli arrivò forte e chiaro. Lo fece ammutolire all’istante, ma la rabbia ancora gli ribolliva nelle vene alimentando tutto il suo essere.
La guardò con occhi di fuoco. Riversò in quello sguardo tutto il rancore che sentiva nei confronti suoi e di suo padre, tutto quello che aveva accumulato nel corso di anni e anni di assenze e ritardi.
Sua madre trasalì, ma mantenne il punto fermo.
“Sei in punizione. Dopo la scuola filerai dritto a casa a fare i compiti per un mese.” Sibilò con calma. Come la lama che lenta fende la carne.
Forse una ferita gli avrebbe fatto meno male dopotutto. Credeva che lui e sua madre fossero una squadra, credeva che lei fosse dalla sua parte, credeva che lei stesse male quanto lui quando suo padre tirava loro l’ennesimo bidone.
Kageyama si alzò dal suo posto in silenzio e si diresse nella sua stanza per prendere la tracolla con i libri ed il cellulare ancora abbandonato sul comodino.
Uscì di casa nel più totale silenzio.
Lasciò il bento sul tavolo.
Non salutò sua madre e lei non lo salutò.
Camminò spedito per circa metà strada. La rabbia aveva lasciato il posto ad un senso di abbandono e tradimento che mal sopportava sentire.
Ma dopotutto la sua vita non era fatta di abbandoni costanti?
Prima suo padre, poi la squadra delle medie e infine Hinata.
“fanculo.” Ringhiò fra i denti cercando di trattenere le lacrime che premevano per uscire fuori.
Non sopportava sentirsi così, non sopportava quei sentimenti che non lo facevano ragionare con lucidità, ma che, anzi, gli occupavano gran parte dei pensieri e gli sconvolgevano l’animo.
Tirò su con il naso e alzò lo sguardo al cielo terso. Le nuvole scure preannunciavano pioggia, ma gliene fregava poco e niente in fondo.
Il classico dolore sordo allo stomaco non tardò ad arrivare. Funzionava così: il suo corpo incamerava il dolore e glielo restituiva con dei forti mal di pancia o, talvolta, mal di testa.
Era frustrante tutto ciò. Già stava male emotivamente, la rabbia guidava i suoi passi e in più ci si mettevano pure quei piccoli malori psicosomatici.
Non riusciva davvero ad immaginare una giornata peggiore di quella.
Giunse davanti alla scuola che nemmeno se ne era accorto. I piedi lo avevano guidato mentre la sua mente era presa ad arrovellarsi in mille e più modi.
Si fermò al centro del cortile guardando il grande orologio che segnava l’imminente inizio delle lezioni.
Gli studenti intorno a lui si affrettavano ad entrare veloci per non prendersi una punizione per il ritardo. Li guardò senza vederli davvero.
Sembravano un po’ preoccupati, alcuni ridevano con gli amici, altri tenevano il libro aperto mentre, camminando, ripetevano la lezione del giorno come fosse una preghiera.
Era come se lui non fosse realmente lì. Come se non appartenesse a quella scolaresca e ci si fosse ritrovato per caso.
Si sentiva un vero e proprio estraneo. Un intruso. Guardava i suoi coetanei come se fossero la cosa più distante al mondo da lui.
La campana suonò infine.
Gli studenti erano tutti entrati, solo lui era rimasto nel cortile a guardarsi intorno.
C’era voluto il suono della campana per farlo destare e fargli capire che stava facendo la figura del deficiente.
Guardò il grande orologio un’ultima volta.
Le lezioni erano appena iniziate.
“Fanculo.” Sibilò fra i denti sprezzante prima di girare i tacchi ed uscire dal cortile.
 
Non aveva mai marinato la scuola, quella era la prima volta in assoluto.
Non che fosse uno studente particolarmente volenteroso, semplicemente andava a scuola per poter frequentare il club di pallavolo.
Ma adesso che non aveva più neppure quello, cosa ci andava a fare?
In più, quel gesto ribelle e sconsiderato, aveva assunto tutto un altro sapore quando aveva pensato a sua madre.
Era stupido, sciocco e infantile, ma sentiva come se avesse appena compiuto una piccola vendetta nei suoi confronti. E questo aiutò a farlo stare irrazionalmente meglio.
Sapeva di aver appena agito come un marmocchio di pochi anni che fa le bizze, ma gli importava poco e niente onestamente.
Gli sarebbe piaciuto se marinare la scuola fosse servito anche per risollevargli il morale anche per quanto riguardava suo padre e quella proposta del cazzo.
Ma sapeva che non gliene importava niente e quindi, anche quella piccola bravata, gli sarebbe scivolata a dosso come l’olio sull’acqua.
La verità era che a suo padre non gli era mai importato particolarmente del suo rendimento scolastico o di lui in generale.
Non aveva fatto una piega neppure quando sua madre, tutta contenta, gli raccontò di come fosse bravissimo a giocare a pallavolo e di come avesse vinto innumerevoli partite. O di come avesse ottenuto lodi e riconoscimenti per il suo talento nonostante la giovane età.
Si era reso conto, con il tempo, che lui e sua madre altro non erano che il perfetto contorno per suo padre: il grande archeologo.
Cos’altro sarebbe stato meglio per lui se non una bella famigliola oltre oceano con cui infiocchettare il quadretto dell’uomo perfetto che aveva dipinto?
E Kageyama non aveva mai accettato di buon grado il fatto di essere trattato dal suo stesso padre come un mero soprammobile da sfoggiare nelle giuste occasioni e poi riporre nell’armadio fino a data da destinarsi.
Sibilò un’altra imprecazione fra i denti e guardò il cellulare.
Erano appena le nove e non aveva idea di dove poter andare a perdere il suo tempo. Il cielo prometteva acqua da un momento all’altro e di Hinata nemmeno l’ombra di una risposta stracciata.
Forse era tutto il trambusto di quella mattina, forse era già incazzato nero dalla sera precedente e essere ignorato ancora da lui lo aveva fatto dare di matto più del necessario. Poi quel senso di solitudine costante che non lo aveva abbandonato un secondo e in men che non si dica era già sulla strada verso casa di Hinata.
Gli sarebbe piombato lì con una scusa del cazzo e lui se lo sarebbe fatto andare bene.
Fanculo. Fanculo a tutto!
Non poteva continuare ad evitarlo, Kageyama non glielo avrebbe permesso.
Era arrabbiato con lui? Bene, gli stava per dare l’occasione di sfogarsi e prenderlo a male parole.
 
Il viaggio verso casa di Hinata fu più veloce del giorno precedente. Stavolta non aveva dovuto cercare sui campanelli di ogni edificio il suo cognome e, anzi, era andato dritto e spedito come se avesse avuto il diavolo alle calcagna.
La pioggia che minacciava di inondarlo aveva resistito quasi per tutti il tempo. Solo quando aveva finalmente intravisto la casa del compagno di squadra, i tuoni si erano fatti più grossi e rimbombanti.
Suonò al campanello con una certa ansia a scombussolargli le viscere. Non aveva pensato ad una scusa da rifilare alla madre di Hinata… quasi mezz’ora di tragitto e non aveva fatto altro che pensare ai cavoli suoi e non ad elaborare un piano che reggesse anche soltanto in apparenza alle domande che sicuramente la donna gli avrebbe posto.
Prima fra tutte, perché non era a scuola per esempio.
Non riuscì a pensare a niente di soddisfacente neppure quando sentì dei passi dall’altra parte della porta avvicinarsi a lui.
Sentiva come un vuoto allo stomaco, una specie di respiro mozzato che lo faceva stare talmente male da impedirgli di ragionare con lucidità. Mentalmente ringraziò i suoi genitori per quel dolce e premuroso regalo mattutino.
La serratura scattò dall’interno.
Kageyama trattenne il respiro pronto ad affrontare la madre di Hinata, ma quando la porta si aprì leggermente, un ciuffetto di capelli color carota fece timidamente capolino dal piccolo spiraglio.
Abbassò lo sguardo stupito, tuffando gli occhi in quelli del suo compagno di squadra che lo fissava stralunato.
“K-Kageyama?! C-Cosa ci fai qui?” gracchiò Hinata facendo per chiudere maggiormente la porta, ma il moro frappose il piede impedendogli di compiere quel gesto.
“Perché mi ignori? Ti ho scritto ieri e non mi hai degnato di nessuna risposta!” lo aggredì Kageyama spingendosi in avanti, verso di lui, per poterlo affrontare davvero e magari riversare su di lui inconsciamente tutta la rabbia che aveva accumulato da quando si era svegliato.
Solo in quel momento però, l’occhio gli cadde sul torace scoperto e nudo del rosso. La mente ricordò all’istante le parole del professor Takeda con cui lo ammoniva di non avvicinarsi troppo perché Hinata era molto malato.
Digrignò i denti appena realizzò di essere stato preso in giro. Quale malato se ne va a giro per la casa a petto nudo e con soltanto un paio di pantaloncini a coprirlo in pieno autunno?
“Non l’ho letto, mi spiace…” bofonchiò Hinata cercando di chiuderlo fuori senza esporsi troppo, ma il compagno di squadra adesso spingeva pure con le mani sulla porta per tenerla aperta e la differenza di forza fra i due era notevole purtroppo.
“Non prendermi per il culo ancora! Lo so che non sei malato, il professore ti ha coperto e voglio sapere perché!” gli urlò contro con astio. Forse caricandosi la voce con tutto quel cumulo di sentimenti repressi che ingoiava e nascondeva da anni.
Forse non aveva nemmeno alcun diritto di trattarlo in quel modo e sfogarsi con lui come se fosse un pungiball.
Forse stava soltanto cercando una vittima con cui sfogarsi e riversargli addosso tutto quello che ancora non era riuscito a urlare ai suoi genitori. E dopotutto Hinata era la causa di una delle sue disgrazie.
Strinse i denti, ignorò la fitta lancinante al polso che lo fece gemere di dolore e spinse la porta aprendola del tutto.
Hinata rovinò a terra, sbatté la schiena e gridò il suo dolore per essere atterrato proprio sulle sue ali malandate.
Kageyama restò invece pietrificato sulla soglia, osservando le ali corvine che uscivano dalle scapole del rosso e quel tripudio di piume sparse sul pavimento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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