Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: _Zaelit_    13/01/2020    0 recensioni
[What if? in cui tutta la squadra di Bucciarati è sopravvissuta agli eventi di Vento Aureo.]
Irene è una ragazza cresciuta per strada e dal carattere ribelle che conduce una vita monotona e pericolosa. A salvarla dalle sue condizioni è Bruno Bucciarati, ora braccio destro del boss di Passione, Giorno Giovanna. Irene comprende di poter ricominciare daccapo e di poter far parte di una famiglia ma, non appena entra a far parte dell'organizzazione, una nuova minaccia ostacola Passione e i suoi membri. Una nuova organizzazione criminale, infatti, sta muovendo guerra a Giorno e ai suoi sottoposti, i cui fili vengono tirati da una figura misteriosa soprannominata "Arcangelo". Irene comprende di ritrovarsi in una battaglia che la coinvolge in prima persona e dovrà quindi scavare nel suo passato e trovare la forza e il coraggio necessari per impedire la sconfitta di Passione, tutto ciò in compagnia del saggio e protettivo Bruno e dei suoi formidabili compagni: Guido Mista, Narancia Ghirga, Leone Abbacchio e Pannacotta Fugo.
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bruno Bucciarati, Giorno Giovanna, Leone Abbacchio, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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NOTA AUTRICE: Salve, cari lettori. Vorrei iniziare con una breve premessa per avvisare che questa è la prima ff riguardante JoJo che scrivo, ho cercato di informarmi il più possibile e di mantenere lo stile quanto più simile a quello adottato dall'anime e dalla light novel PHF. La protagonista di questa storia sarà un mio personaggio OC, Irene, che ho plasmato all'interno dell'universo di Araki e in particolar modo di Vento Aureo, la mia stagione preferita dell'opera. Questo capitolo, dunque, sarà più che altro introduttivo e presenterà il personaggio, tuttavia vedrete anche qualcuno di familiare, consideriamolo un prologo. Non so ancora se manderò avanti l'opera, vedrò in base ai risultati ottenuti dalla pubblicazione e al mio approccio alla storia, sperando che mi soddisfi. Nel frattempo vi auguro buona lettura e vi chiedo, se ne avete voglia e se ne avete il tempo, di recensire questo primo capitolo con le vostre opinioni, positive o negative che siano. Enjoy!

 
**********
 

[ CHILDREN OF THE DAMNED ]

 

La pioggia scrosciante cadeva a dirotto su asfalto ed edifici. Un plic plic incessante, invece, riecheggiava brevemente dopo il rimbalzo delle gocce d'acqua sugli ombrelli.
Il cielo era grigio. Le nuvole temporalesche avevano avvolto ogni centimetro della volta celeste, ammantandola con crudeltà.
Tutto era in trambusto. Le persone correvano per raggiungere in fretta macchine e abitazioni. Il rumoroso fragore dei clacson proveniente dalla strada era così acuto da far dolere i timpani.
Le onde si infrangevano con forza contro i moli e le sponde dell'isola di Ortigia, a Siracusa, e il mare era nero come se fosse fatto d'inchiostro. Il vento ululava correndo sull'acqua e trasportando schizzi salati nell'aria.
Dalla scuola media situata nella zona Sud dell'isola, difatti, era possibile udire quell'orchestra selvaggia della natura. Si sommavano al resto gli schiamazzi delle bambine che venivano trascinate via dai genitori, sollevate per evitare le pozzanghere di fanghiglia su cui ancora pioveva a catinelle.
La Federico II era proprio una scuola media tutta al femminile, frequentata da studentesse che rientravano nella fascia d'età compresa fra i dieci e i quattordici anni. Non era stata diramata un'allerta meteo ma, per sicurezza, ora che la campanella dell'ultima ora era suonata, le alunne erano state portate via dal cortile dell'istituto in fretta e furia. Tutte tranne una.
Con i capelli castani scompigliati e legati da elastici viola in due codini calanti sulle orecchie ai lati della testa e le braccia conserte attorno alle ginocchia tirate al petto, una delle bambine del secondo anno attendeva seduta sulle scale davanti al portico, fortunatamente all'asciutto, l'arrivo di un familiare che la venisse a prendere.
La sua casa non era esattamente nei paraggi. Per arrivarci avrebbe dovuto attraversare il ponte Umbertino o quello di Santa Lucia, accanto alla statua di Archimede che torreggiava su una piattaforma di cemento circondata dall'acqua nel centro delle due strade, e procedere per circa venti minuti fino alle Catacombe di San Giovanni. Lì vicino si trovava la villa dove aveva abitato in quei suoi pochi anni di vita. Il luogo dove avrebbero dovuto portarla. Ci sperava.
"Se ne sono dimenticati di nuovo", realizzò all'improvviso.
Non era affatto una novità, quella di essere abbandonata a se stessa, specie quando si trattava di essere prelevata da scuola. Non aveva mai potuto chiamare a casa quando stava male, né partecipare alle gite in città organizzate per la sua classe.
Le ultime famiglie sfilarono accanto a lei, lasciando il cortile e superando il cancello di ferro nero, andando via raccontandosi come fossero andare le loro mattinate. La piccola avrebbe voluto far cadere quell'enorme cancello del parcheggio e bloccare loro la strada. Costringerli a farle un po' di compagnia, a non lasciarla sola. Ma non poteva. Sarebbe stato egoista, malvagio, pericoloso e soprattutto impossibile. Era una normale bambina, solo un po' troppo triste e sola.
Dopo quasi mezz'ora di attesa in totale solitudine, sprecata a pensare che magari quel ritardo dei genitori fosse dovuto al traffico caotico causato dalla tempesta, si alzò in silenzio e si assicurò meglio lo zaino in spalla. In mancanza di un ombrello, tirò il cappuccio della felpa bianca sulla fronte e abbassò lo sguardo. Iniziò a camminare.
Nulla l'avrebbe riportata a casa, quel giorno, se non le sue gambe.

[ • • • ]

Irene Cacciatore nacque il sei giugno del 1983 a Siracusa, una città piuttosto tranquilla situata sulla costa ionica della Sicilia, sotto il segno dei Gemelli. Fin da neonata venne marchiata con una colpa ben più grande di lei, qualcosa che andava oltre la sua comprensione a quei tempi.
Sua madre, Valeria Cacciatore, tradì occasionalmente il marito, trascorrendo una notte con un uomo sconosciuto, un teppista di passaggio in città che incontrò una sera in un bar dopo aver bevuto troppo. Quella notte, però, fu sufficiente a generare la sfortunata Irene.
Suo padre sparì nel nulla, non lo incontrò mai e sua madre faceva a stento il suo nome, sempre ammesso che fosse quello giusto. La famiglia pretendeva che Valeria non portasse avanti la gravidanza, eppure lei decise di dare alla luce la bambina e di tenerla con sé, convinta che avrebbe imparato ad amarla. Questa cosa, però, non accadde: Irene, pur portando il nome della dea greca della pace, attraversò sin dalla nascita un periodo infinito di guerra. I suoi familiari non tenevano realmente a lei, esattamente come sua madre, da cui ereditò il cognome.
Il marito della donna, se avesse potuto, avrebbe forse divorziato da lei, ma non poteva permettersi un simile sfregio. Nonostante ciò impedì a Irene di prendere il suo cognome, ovvero Alloro, non avendo alcun legame di sangue con la bambina e vedendo il lei, ogni volta che la incontrava, il tradimento della moglie.
Questo fu uno dei motivi per i quali Irene non incontrò quasi per nulla il suo patrigno. Vivevano in una grande villa, gli Alloro erano una famiglia piuttosto importante in città, in quanto il nonno era stato un componente politico regionale di grande prestigio, e Irene non riuscì mai nemmeno a visitare tutta la casa. Restava nella sua stanza, senza nessuna voglia di studiare, e di tanto in tanto scappava dalla finestra e si arrampicava sugli alberi per correre in strada a divertirsi. Le bastava giocare a pallone con i ragazzi, o anche a braccio di ferro. Aveva imparato persino le regole di Briscola, Scopa e del Poker, ogni tanto puntando anche qualche spicciolo rubato dal portafoglio di Valeria, e con ciò che guadagnava comprava ciò che le serviva: vestiti, cibo, giocattoli. Non aveva molto, ma se lo faceva bastare.
Da quando era stata iscritta alla scuola media, però, tutto andava storto. La Federico II era importante, molto, a Siracusa. Sua madre Valeria aveva studiato lì prima di lei, venendo ammessa al collegio con i voti più alti della sua classe all'esame di fine percorso. Le ragazzine che frequentavano quella scuola erano ben diverse da lei, le tipiche figlie di papà, come soleva etichettarle, proprio lei che un papà avrebbe tanto voluto averlo.
La scuola non era per lei, e questo lo aveva capito alle elementari, uno scapaccione dopo l'altro ogni volta che non risolveva un'espressione o scriveva un tema perfetto. Non era stupida o incapace, affatto, era decisamente intelligente e astuta per qualcuno della sua età, solo non riusciva ad applicarsi nello studio. Favoriva alcune materie, ad esempio la lingua inglese, lo sport e la bella grafia, odiando al contrario la matematica o le scienze.
Anche alle scuole medie, dunque, venne spesso tirata dalle orecchie dall'insegnante o messa in castigo, con le ginocchia sui ceci o un colpo di bacchetta di legno sulle dita. Ma non se ne lamentò mai.
Era avvezza a quel tipo di comportamento da parte dei più adulti: la odiavano. Non gli importava nulla di lei, del suo futuro, al quale non aveva mai neppure pensato. Non riusciva nemmeno a credere che sarebbe diventata adulta. Non lo credeva possibile. Era arresa a quello stile di vita, una schiava sopita del proprio destino.
Finché non si risvegliò.
Accadde proprio in quell'anno. Benedetta era una sua compagna di classe, una delle poche con le quali fosse mai riuscita a instaurare un rapporto, a dialogare. Eppure non era affatto sua amica, non lo sarebbe mai stata. Benedetta credeva che Irene fosse il bersaglio perfetto per le proprie angherie, si divertiva a farle i chiodi, a incastrarla in problemi che non aveva neppure causato.
Irene cercava di ignorarla, benché desiderasse ardentemente prenderla per i capelli e lanciarla a terra di peso. Respirava a fondo e rimediava, sempre.
Poi un giorno, all'uscita di scuola, Benedetta esagerò e superò il limite della pazienza di Irene. Quest'ultima stava per tornare a casa da sola, un'altra volta, ma fortunatamente non pioveva ancora. A un tratto, mentre attraversava il parcheggio dell'istituto, si ritrovò circondata da tre ragazze capeggiate da Benedetta.
«Te ne vai senza salutare, Irene?» le rise in faccia la figlia di papà.
Lei non rispose. Sapeva cosa volessero ma rimase ugualmente a guardare, le mani strette attorno alle bretelle dello zaino rosso.
Quella mattina aveva fatto visita alla scuola un professore universitario piuttosto celebre in città, un uomo giovane e bello. Tenne una lezione speciale di costituzione e poi andò via. Chissà perché, aveva deciso di fare alcune domande alle studentesse e fra loro aveva scelto proprio Irene, che aveva saputo rispondere correttamente, per fortuna o per merito. L'insegnante le aveva sorriso e si era complimentato. Benedetta non l'aveva presa affatto bene.
«Non parla, se la sta facendo sotto.» grugnì una delle altre ragazzine, che si era avvicinata e l'aveva spintonata per poi pizzicarle un braccio.
«Oggi hai fatto gli occhi dolci al professore. Cos'è, hai già pensato al metodo perfetto da usare per entrare in qualche facoltà, dato che sei stupida come una capra?» continuò Benedetta. Senza pensarci due volte, la raggiunse a grandi passi e le sollevò la gonna con un gesto brusco, strappandone persino un lembo. «Ti serve mostrare cosa c'è quaggiù, per andare avanti?» rise insieme alle altre, «O hai paura di fare la stessa fine di tua madre?»
Irene non s'interessò all'insulto nei suoi confronti o in quelli di Valeria, al contrario, fu il suo gesto troppo audace a mandarla su tutte le furie. Indietreggiò e si abbassò la gonna della divisa scolastica mentre le altre ridevano, nera in viso.
«Ti metterai a piangere adesso?» le fece il verso una delle altre bulle.
Affatto. Non era triste, solo furiosa. Irene prese una gran rincorsa e afferrò Benedetta dal colletto della maglia, sbattendola al muro esterno della palestra. Un secondo dopo la colpì con un pugno così forte da romperle un dente. Continuò a colpirla, mentre lei le metteva le mani in faccia e le urlava di smetterla e le altre ragazzine correvano via urlando.
Irene aveva i denti scoperti e respirava nervosamente.
«Non toccarmi mai più.» sillabò tra un cazzotto e l'altro. La tirò dai capelli per impedirle di scappare e le assestò una ginocchiata nello stomaco che le tolse il fiato.
Mentre il pestaggio procedeva, le urla della malcapitata attirarono l'attenzione della docente che corse in cortile e strattonò Irene, tirandole anche un orecchio e dandole uno schiaffo sul collo.
La ragazza, però, era così furiosa che non si astenne dal colpire anche lei, facendola cadere a terra. Non la ferì ma riuscì a rendersi conto di cosa avesse fatto: Benedetta era irriconoscibile, una sacca di sangue malconcia che respirava a fatica e si contorceva senza riuscire più a parlare.
La famiglia di Benedetta denunciò l'accaduto e gli Alloro dovettero pagare una somma consistente per rimediare al guaio scatenato da Irene, che per giunta fu espulsa. Fu chiaro, a tal punto, che la scuola non le avrebbe concesso nessun futuro, così i suoi genitori le ordinarono di trovarsi un lavoro o di non farsi affatto rivedere. La giovane, però, aveva appena dodici anni e non riuscì a farsi assumere nemmeno come cameriera. Quando Valeria ebbe un secondo figlio, questa volta legittimo, Irene fu letteralmente sbattuta fuori di casa, non mise più piede in quella villa. E iniziò così la sua vita di stenti. Di solitudine.

[ • • • ]

Irene non viveva, sopravviveva. Andava avanti grazie a furtarelli, gioco d'azzardo, e a soli sedici anni cominciò ad aiutare altri delinquenti e criminali di piccolo conto, rubando persino auto di tanto in tanto e rivendendone i pezzi. Lasciò Siracusa, si spostò spesso per evitare che la polizia la seguisse. Ancora giovane arrivò a Napoli, dove proseguì con la sua vita di sempre, di tanto in tanto costretta a fare a pugni per un pezzo di pane o per dei vestiti. La centrale di polizia, oramai, la conosceva bene.

Un giorno le capitò di nuovo di non passarsela bene come avrebbe voluto. Aveva incontrato, la mattina presto, due teppisti come lei che aveva conosciuto in un bar qualche mese prima. Li aveva poi aiutati a scacciare uno spacciatore che si era preso la "loro zona". Ora che era stato arrestato, lei e i suoi amici avrebbero potuto compiere tutti i piccoli crimini che volevano, purché la polizia non li beccasse.
«Irene, ce ne hai messo di tempo!» le urlò uno di loro, di qualche anno più grande, vedendola arrivare in ritardo.
Lei si grattò la testa e rispose. «Dammi tregua, Rob, non è facile attraversare la città a piedi in pochi minuti.»
I due delinquenti stavano armeggiando con la serratura di un'Alfa Romeo 164 di colore rosso, una buona macchina benché non fosse esattamente l'ultimo modello.
Irene si avvicinò e portò le mani sui fianchi.
«Sul serio? Stavolta volete rubare una macchina?» chiese con uno sbuffo sorpreso.
«Perché, hai paura?» ridacchiò come una iena l'altro ragazzo, un ventitreenne di nome Vincenzo.
«Fottiti. Io non ho paura.» gli rispose lei.
Rob, cioè Roberto, si fece una bella risata.
«Questa ragazzina ha una lingua davvero tagliente!»
«Piantala, non sono una ragazzina!»
«Come ti pare, in ogni caso...»
La serratura della macchina scattò e Vincenzo fece in maniera tale che potesse essere messa in moto.
«Devi portare quest'auto nell'Arenella, sul retro della scuola elementare Alighieri. Lì ti aspetta un nostro contatto, ti darà dei soldi e si prenderà la macchina. Ci incontreremo dopo lo scambio al ristorante sul lato opposto di questa strada.» le spiegò Roberto, per filo e per segno.
Irene sussultò. Non che non fosse capace di fare quanto richiesto, solo che il luogo dello scambio non le sembrava particolarmente favorevole.
«Come, scusa?» esclamò all'improvviso, «Davvero... davvero devo portare fin lì l'auto?»
«Allora è vero che hai paura.» sghignazzò ancora Vincenzo.
«Considerala una prova di fiducia.» continuò al suo posto Roberto, «Ora che questa zona di Napoli è nostra, dobbiamo capire se possiamo fare affidamento su di te oppure no.»
Irene alzò gli occhi al cielo. Quella situazione le puzzava, tuttavia non poteva astenersi dal lavoro.
«D'accordo, prenderò quei soldi, però voglio il cinquanta percento del totale.» disse allora.
Questa volta, entrambi risero.
«Sei pazza, ragazzina.» mormorò Vincenzo senza più fiato nei polmoni.
«O alzate la paga, o non si fa nulla.» ribatté lei.
«Allora... facciamo il trenta.» provò a contrattare Roberto.
«Quaranta.»
«Va bene, va bene... avrai il quaranta percento del malloppo. Ora sbrigati, però.»
Contenta, Irene strattonò Vincenzo per farlo uscire dall'auto e prese il suo posto.
«Fai in fretta, Irene, o pranzeremo senza di te.» continuò poi il ragazzo.
«Non ci vorrà molto, vedrai.» gli rispose, poi mise i piedi sui pedali e partì nel giro di qualche secondo. Raggiungere il quartiere interessato non fu difficile, così parcheggiò sul retro della scuola, in un piccolo vicolo, e notò un uomo appoggiato alla parete che fumava una sigaretta in tutta tranquillità. Irene scese dalla macchina e lo osservò.
«Cacciatore?» le chiese.
Lei annuì.
«È questa la macchina?»
«Sì, l'ho presa qualche minuto fa. Hai i soldi?»
L'uomo affondò una mano in una tasca e le parlò senza guardarla direttamente.
«È stato difficile rubarla così, alla luce del giorno?»
Irene incrociò le braccia, non vedendo l'ora di poter girare i tacchi e prendere il primo autobus per tornare da dove era venuta. Pensò anche di escludere Roberto e Vincenzo dalla storia, per ingraziarsi l'uomo in maniera tale che sganciasse qualche banconota in più.
«Una passeggiata. Perché me lo chiedi?» chiese dopo, non comprendendo il motivo di quella curiosità.
Lui trovò ciò che cercava e sospirò. «Anche questo è stato più facile di quanto mi aspettassi.» commentò, totalmente fuori dal contesto. Poco dopo aprì la mano davanti agli occhi stupiti della ragazza, che si ritrovò di fronte un distintivo della polizia.
L'uomo strinse il viso ai vestiti, dove probabilmente era nascosta una cimice, e parlò. «Allora, avete sentito tutto?»
Una voce meccanica rispose subito. «Affermativo. Procediamo con l'arresto.»
Irene sbiancò di colpo. Si rese conto di aver confessato il furto direttamente a un poliziotto in borghese.
"Maledizione!" pensò trasalendo, "Quei maledetti lo sapevano?"
Due autovetture della polizia sbucarono dalla strada alle sue spalle e bloccarono l'ingresso del vicolo.
Il poliziotto provvide subito a prendere due manette dalla cintura legata al contrario, sulla sua schiena, e le strinse attorno ai suoi polsi. Irene era così sconvolta che non provò nemmeno a ribellarsi.
«Abbiamo ricevuto una soffiata anonima, piccoletta. Dev'essere il tuo giorno sfortunato.»
Altri poliziotti, questa volta in divisa, si avvicinarono a loro per prendere in custodia la ragazza.
«Irene Cacciatore, diciassette anni, nata a Siracusa... qualche precedente di poca importanza, tra cui un'aggressione ai danni di una coetanea a soli dodici anni. Sì, pare proprio che sia tu.» Il poliziotto in borghese lesse con calma quanto ricavato dalle ricerche, vicino alla macchina. «Tutto sommato non sembri un individuo pericoloso, non in confronto agli altri che sono dentro in questo momento. Un annetto in riformatorio ti basterà, vedrai.»
Le parlò come se non fosse altro che una dei tanti. Una di quei ragazzini senza futuro, cresciuti per strada, buoni a nulla. Esattamente come tutti le avevano parlato dal giorno in cui era nata.
«Sovrintendente, dobbiamo indagare sulla vettura. Cosa facciamo con la ragazza?» esclamò di colpo un agente.
«Mh... lasciatela al nuovo arrivato. Può benissimo scortarla in centrale da solo.»
L'agente sussultò.
«Parlate di Abbacchio, signore? Ma... ne siete sicuro?»
«Poche storie, stiamo già perdendo tempo. Abbacchio è un uomo grande e grosso, non credo proprio che avrà problemi a far stare buona una bambina.»
Irene strinse gli occhi. Non le piaceva essere considerata una bambina, capì però di non essere nelle condizioni adatte per lamentarsi.
L'agente tacque e la portò a una delle vetture, facendola salire nella zona posteriore. Bastò poco a capire che fosse un vecchio modello, uno di quelli dove non era nemmeno presente il separatore tra i sedili posteriori e quelli anteriori, o forse non era un'auto adatta agli arresti. In ogni caso, chiunque fosse l'autista, sicuramente si trovava in condizioni simile alle sue: qualcuno stava cercando di metterlo in difficoltà.
L'agente spiegò al collega quanto richiesto e poco dopo la macchina partì.
Irene trascorse il tempo del viaggio a pensare e, quando fu un po' più lucida, osservò lo specchietto retrovisore per dare un'occhiata al poliziotto alla guida. Forse poteva ancora tirarsi fuori da quel guaio. Pensò a un'idea e si lasciò sfuggire un sorriso.
«Cos'hai da guardare?» la rimbeccò poco dopo l'agente. Irene notò i suoi occhi gialli, tendenti al viola, scrutarla attraverso il vetro dello specchio.
Irene si guardò attorno. Notò accanto al volante un lettore CD e, sotto di esso, un libretto pieno di dischi con su scritto un nome a pennarello indelebile.
«Leone Abbacchio...» lesse ad alta voce, con un tono volutamente provocatorio. «Un nome un po' controverso, considerato che l'abbacchio è carne d'agnello...»
«Piantala.» la zittì l'uomo, molto giovane ma dall'aria severa, di nuovo con lo sguardo fisso sulla strada. «Non ho voglia di chiacchierare, quindi fai silenzio e torna a guardare fuori dal finestrino, o dove ti pare.»
Irene sollevò un sopracciglio. Era un tipo difficile, poco ma sicuro. L'impresa si rivelava più ardua di quanto immaginato.
«E perché no? Nessuno di noi due ha di meglio da fare, potremmo parlare un po'.» Strinse le labbra, preparandosi. «Qui, oppure... potresti fermare la macchina...»
Abbacchio non smise di guardare la strada ma, notando il cambiamento di voce della ragazza, parve quasi che una goccia di sudore freddo gli bagnasse la fronte.
"Ottimo", pensò Irene, che poco dopo si sporse in avanti senza smettere di sorridere.
«Pensaci bene. Un poliziotto ha sicuramente di meglio da fare che arrestare una ragazzina come me. Non ho mica ucciso qualcuno.» proseguì, «E potrei anche farmi perdonare, chi lo sa...»
Nel pronunciare quell'ultima frase, addirittura, arrivò a sfiorare il lobo dell'orecchio del poliziotto con le labbra tinte di rosso scuro.
Sapeva essere provocante con un minimo impegno: la aiutavano i suoi vestiti, la maglia corta piuttosto scollata e i pantaloni attillati, tutto di un color nero pece. I capelli, anch'essi tinti di rosso, incorniciavano il viso magro e facevano risaltare gli occhi allungati, truccati con una matita scura, dalle iridi del colore dell'oro.
Anche Abbacchio, d'altronde, era un bell'uomo, dai capelli bianchi e ben curati e l'aria da adulto nonostante avesse per certo pochi anni in più della ragazza. Irene provò vergogna nel tentare di sedurlo ma, nonostante ciò, non sarebbe mai arrivata fino in fondo. Le bastava distrarlo un po' e infine, alla prima occasione, darsela a gambe levate. Tra l'altro non vedeva l'ora di prendere a pugni in faccia i suoi due colleghi traditori.
Leone strinse gli occhi. Alla fine dei conti era un uomo, per cui non riuscì a restare impassibile in quella situazione. Irene continuò a guardarlo attraverso lo specchietto, calando man mano il viso verso il suo collo, convinta che stesse funzionando, finché i suoi occhi non la folgorarono di nuovo con un singolo sguardo.
«Non ci provare nemmeno, andrai dritta in centrale.» alzò la voce il poliziotto, scrollandosela di dosso con un movimento brusco del collo.
Irene tirò indietro la schiena, appoggiandola al sedile e sospirando. Il suo tentativo era fallito, per cui abbandonò l'aria da seduttrice per assumere un'espressione da ragazzina furente.
«Accidenti, agente. Dammi un'occhiata, ti sembro una criminale?»
«Hai rubato una macchina in pieno giorno e la tua fedina penale non è esattamente immacolata. Quindi sì, mi sembri una criminale. Una pessima criminale...» si beccò in risposta.
Stizzita, le lanciò un'occhiata. «Ho sbagliato, è vero, ma sono stata incastrata. Due idioti mi hanno chiesto di consegnare l'auto a una loro conoscenza. Perché non arrestate anche loro?» domandò come se pretendesse giustizia.
Abbacchio sollevò le spalle. «Non è a me che devi raccontare la tua storiella. In centrale avrai tutto il tempo di incolpare chi ti pare.»
Irene comprese che l'agente non le credeva. Probabilmente non le avrebbe creduto nessuno.
Infatti, una volta raggiunta la questura, venne interrogata ma nessuno la prese sul serio, come se stesse costruendo una storia con la quale tirarsi fuori dal problema, arrampicandosi sugli specchi senza risultati positivi.
Irene si arrese all'idea che ben presto ci sarebbe stato un processo e che, senza la presenza di valido avvocato, sarebbe stata sbattuta nel carcere minorile per un bel po'. La sola idea di essere reclusa in una zona di sole ragazze, obbligata a studiare e a lavorare sul suo comportamento, la fece star male. Le sembrava di dover rivivere il periodo della sua infanzia che odiava di più: quello della scuola. Quello in cui la sua vita era andata a rotoli.
E poi, quasi per miracolo, mentre attendeva in una cella provvisoria in attesa di una sentenza, un agente aprì la porta.
Irene sollevò gli occhi e poco dopo li spalancò, riconoscendo il volto di Leone Abbacchio.
«Tu...?» sorpresa domandò, sicura che non fosse una visita di cortesia.
Lui si fece da parte, sgombrando il passaggio.
«È il tuo giorno fortunato, ragazzina», esordì dopo, contraddicendo quanto detto dal poliziotto in borghese quella mattina. «La tua cauzione è pagata, sei libera di andare.»
Irene scattò in piedi, confusa.
«Cosa?» A grandi passi raggiunse il poliziotto e lo osservò dal basso della sua statura. Era una ragazza piuttosto alta, ma Leone Abbacchio la superava di netto. «Non conosco nessuno che sarebbe disposto a pagare per tirarmi fuori. Di chi tratta?» chiese.
Abbacchio le lanciò un'occhiataccia. Evidentemente non lo sapeva e non gli importava.
«Perché non lo scopri da sola?» la invitò.
Irene calò la testa e lo seguì dopo che richiuse la porta della cella. Poco dopo si ritrovò all'ingresso della questura.
«Cacciatore...» la chiamò Abbacchio prima di aprire la porta e lasciarla andare.
Lei si voltò a guardarlo con fare interrogatorio. Lui non la stava osservando direttamente, come se fosse un po' imbarazzato nel rivolgersi a lei.
«Non capita tutti i giorni di essere aiutati in questo modo. Pare proprio che tu abbia un santo in paradiso.» le spiegò con cura, «Quello che sto cercando di dirti è... non sprecare questa occasione. Dubito che chiunque abbia pagato per te lo rifarebbe di nuovo, quindi sta' attenta e medita sulle tue azioni.»
Irene non riuscì a reprimere un piccolo sorriso. Leone aveva ragione, certo, ma era stato carino da parte sua darle quella lezione di vita. La aiutò a riflettere.
«Perché mi dici questo? Se anche facessi di peggio una volta uscita, non causerei guai a te.» chiese dopo, per curiosità.
Lui le voltò le spalle, tenendo con una mano la visiera del cappello dell'uniforme.
«È solo un consiglio, non fraintendere. Scegli tu se seguirlo oppure no.»
Irene trattenne una risatina.
«Be', ti ringrazio. Proverò a fare come mi hai detto.»
Abbacchio le rispose con un singolo "mpf", un verso di congedo, e camminò via.
Irene ebbe l'impressione che prima o poi l'avrebbe rivisto. Chissà come, dove o quando. Il mondo è un posto piccolo e sicuramente sarebbe riuscita a incontrarlo di nuovo.
Uscì dalla centrale senza più guardarsi attorno, pronta a incontrare chiunque l'avesse salvata da una pena che le avrebbe causato più danni di quanto avrebbe potuto giovarle.
Eppure, incredibilmente, si ritrovò da sola sul marciapiede della strada. Chiunque fosse il suo benefattore, non era rimasto per incontrarla.
Nonostante ciò non si lasciò abbattere: la persona che aveva pagato per lei e Leone Abbacchio, quel giorno, le lasciarono un insegnamento fondamentale, più importante di tutto ciò che aveva appreso a scuola da piccola.
Da quel giorno si apriva un nuovo capitolo della sua vita, tutto cambiava. In meglio, in peggio... questo sarebbe dipeso da lei.
C'era un solo fattore certo: ben presto avrebbe vissuto una fantastica quanto bizzarra avventura.

 

 

 
   
 
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