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Autore: Shadow writer    16/01/2020    23 recensioni
Tridell è una moderna metropoli in cui nessuno è estraneo a scandali e corruzioni. Una giovane donna, abile nell'uso delle vie più o meno lecite, si è fatta strada fino alla vetta di questo mondo decadente.
Dalla storia:
“La duchessa viveva in periferia.
Il suo era un palazzo dall’esterno modesto, circondato da una striscia di giardino prima del grande cancello metallico. Chiunque avesse avuto l’onore di entrarvi, parlava di stanze suntuose, pareti affrescate, una grande corte interna, in cui si innalzava una fontana zampillante decorata da statue di marmo bianco. […]
Chi lei fosse veramente, non si sapeva. Che non avesse davvero il sangue blu, questo era quasi certo, ma nessuno osava contestarlo.
La verità sul suo conto, qualunque fosse, non era nota al pubblico, e alla gente piaceva guardare a questa donna enigmatica nel costante sforzo di capire chi fosse, senza mai riuscirci.”
[Storia partecipante al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di Efp.]
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
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 GIURAMENTI INFRANTI

 

 
La duchessa viveva in periferia.
Il suo era un palazzo dall’esterno modesto, circondato da una striscia di giardino prima del grande cancello metallico.
Chiunque avesse avuto l’onore di entrarvi parlava di stanze suntuose, pareti affrescate, una grande corte interna, in cui si innalzava una fontana zampillante decorata da statue di marmo bianco.
Chi non vi era mai stato, chi non l’aveva mai conosciuta, ammantava la sua figura con una buona dose di false dicerie e racconti quasi mitologici, mentre quelli che l’avevano incontrata all’interno della sua casa adoravano farcire le vicende con aspetti misteriosi e non essere mai veramente esaustivi riguardo la proprietaria.
Chi lei fosse veramente, non si sapeva. Che non avesse davvero il sangue blu, questo era quasi certo, ma nessuno osava contestarlo.
La verità sul suo conto, qualunque fosse, non era nota al pubblico, e alla gente piaceva guardare a questa donna enigmatica nel costante sforzo di capire chi fosse, senza mai riuscirci.
Alexander prese il bicchiere di champagne che il cameriere gli tendeva e lasciò vagare i suoi occhi nel salone in cui si trovava.
L’interno del palazzo era davvero degno di una dimora nobiliare. Una parete era occupata da un affresco ambientato in epoca classica, la cui scena era dominata da una donna che filava con una leonessa accucciata ai suoi piedi. Il dipinto era di alta qualità e rivelava il buon gusto della padrona di casa.
Intorno a lui, piccoli drappelli di persone conversavano a bassa voce.
«È grazioso e terrificante allo stesso tempo, non trovi?»
Alexander si voltò e vide la sua fidanzata avvicinarsi, con gli occhi fissi sull’affresco. Quella sera Camille indossava un semplice abito di seta color acquamarina, che si intonava con i suoi grandi occhi. Il parrucchiere le aveva legato i capelli biondi in un’acconciatura semplice, che metteva in risalto il suo volto affilato dagli zigomi alti e il naso sottile.
«Perché terrificante?» le chiese Alexander e lei scrollò le spalle.
Lui riprese a guardarsi attorno e scorse Jefferson poco lontano. Da buon responsabile della sua campagna elettorale, Jefferson gli fece cenno che mancava ormai poco tempo all’inizio della cena e quindi mancava poco alla comparsa della duchessa.
Alexander annuì e prese un respiro profondo. Era impaziente di vederla e allo stesso tempo preoccupato. Non esistevano fotografie di lei e Jefferson era stato piuttosto vago nel descriverla. 
«Sii attento e lucido» gli aveva detto prima di entrare. Ottenere un invito a quella cena gli era costato qualche favore e nessuno dei due voleva sprecare quell’opportunità.
«Devo essere onesto con te e dirti che senza il suo appoggio, le possibilità di vittoria sono molto basse» gli aveva detto. Alexander sapeva di essere in svantaggio, lo aveva saputo da quando aveva deciso di candidarsi come sindaco contro il sindaco uscente, che con il precedente mandato aveva acquistato una certa popolarità in città. 
«La tua debolezza principale è che sei tornato in città solo due anni fa, alla gente questo non piacerà» gli aveva detto Jefferson. E da lì era nata l’idea di chiedere aiuto alla duchessa. Si diceva che in città non venisse strappato un filo d’erba senza che lei lo sapesse.
«È la nostra donna. Dobbiamo farci invitare ad una delle sue cene, presentarle la nostra offerta e convincerla a darci il suo appoggio pubblico». Il piano era semplice, chiaro, ma Alexander non si sentiva per nulla tranquillo.
Era abituato da tutta la vita a utilizzare la forza della persuasione per piegare i suoi interlocutori, ma il fatto di non conoscere questa donna, di non sapere neanche che faccia avesse, lo preoccupava. Si sentiva come un ragazzino che non aveva studiato al giorno del test.
Bevve d’un fiato il calice di champagne, cercando di darsi una calmata. Jefferson lo stava ancora fissando e di certo non avrebbe apprezzato il suo nervosismo. “Non fa bene all’immagine” avrebbe detto, se fosse stato lì al suo fianco.
Camille gli sfiorò il braccio, inclinando il capo verso la sua spalla. Alexander abbassò gli occhi e, dall’anulare della giovane, il diamante di fidanzamento brillò verso di lui, ammiccante.
Improvvisamente, il brusio che aveva attraversato la sala fino a quel momento si spense e lo sguardo di tutti si rivolse verso il grande scalone di marmo rosa.
Alexander imitò il resto dei presenti.
Sulla cima, era comparso un giovane dalla pelle color caramello e i capelli di un biondo ossigenato. Indossava una camicia alla coreana azzurrina, pantaloni dello stesso colore e dei mocassini blu notte. Stava guardando al suo fianco, dove finalmente comparve lei. La duchessa.
Il suo nome era sulle labbra di tutti, anche se non un suono percorreva l’aria.
Lei si lasciò ammirare per un istante, da quello stuolo di ospiti adoranti, prima di cominciare a scendere le scale, aggrappata al braccio del suo accompagnatore.
Chi non aveva mai visto la duchessa, avrebbe potuto rimanerne deluso. La ragazza dimostrava a malapena vent’anni e indossava solo una vestaglia su cui si intrecciavano disegni floreali. Portava i lunghi capelli castano-ramati sciolti sulla schiena in ricci scomposti e i suoi piedi erano scalzi. Sotto alla vestaglia, si intravedevano le forme morbide del suo corpo e c’era una certa sinuosità nel modo in cui scendeva le scale. Era come una pantera dentro al corpo di una ninfa.
Quando raggiunse l’ultimo gradino, si guardò attorno. La sua espressione era serena, ma impenetrabile.
I suoi occhi olivastri si fissarono su Alexander e vi rimasero per qualche secondo, poi tornò a rivolgerli al resto dei presenti. Nella sala stavano poco più di cinquanta persone.
Jefferson aveva parlato di “cena intima”.
«Benvenuti» disse la duchessa. Aveva una voce calda e misurata.
«Spostiamoci nella sala da pranzo.»
I presenti si allargarono come un mare aperto in due e lei avanzò in quel corridoio umano, sempre sostenuta dal suo accompagnatore. Alle loro spalle, la folla rompeva i ranghi per seguirli nella sala adiacente.
Si trattava di un locale meno ampio del precedente, attraversato nel centro da un lungo tavolo in legno scuro, già riccamente apparecchiato.
La duchessa prese posto ad un capotavola e l’accompagnatore si mise alla sua destra. Alexander vide che gli occhi della giovane cercarono Jefferson e gli fecero cenno di sedersi alla sua sinistra.
Lui si affrettò ad eseguire e indicare ad Alexander di prendere posto al suo fianco, con Camille di fronte.
Quando tutti si furono seduti, alcuni camerieri cominciarono a servire la cena, mentre uno di loro rimase fisso alle spalle della duchessa, incaricato solamente di versarle il vino.
«Lei non mangia, non lo fa mai» aveva detto Jefferson ad Alexander, mentre studiavano come il loro incontro si sarebbe svolto. «Ma beve vino per tutta la serata. Se all’inizio sarà più rigida, dopo alcune ore sarà più facile strapparle qualche promessa, quindi prima tastiamo il terreno e solo più tardi cominciamo a forzarlo. Ricordalo.»
Il primo piatto che fu servito consisteva in un uovo che, una volta colpito dalle posate si rivelava di pastafrolla. Al suo interno nascondeva una crema di verdure e dei bocconcini di carne.
Mentre il tavolo era percorso da un mormorio di approvazione per l’arguzia della padrona di casa, Jefferson cercò di intavolare una conversazione con la giovane.
Lei lo ascoltava sotto alle palpebre socchiuse, senza cambiare espressione.
L’uomo cercava di coinvolgere Alexander nella conversazione, facendo riferimento a lui o qualcosa che lo riguardasse.
«Questa casa è proprio un gioiello, si vede che lei se ne intende» stava dicendo in quel momento, sotto lo sguardo della duchessa che sorseggiava il suo calice di vino. «Sa che Camille, la fidanzata di Alexander, ha studiato arte?»
Gli occhi verdastri della duchessa si spostarono sulla donna e appoggiò con delicatezza il calice sulla tovaglia bianca. 
«Ah sì?» commentò. «E di cosa si occupa?»
«Al momento non lavoro» rispose Camille, cogliendo la strada che Jefferson le aveva spianato, «ma ho studiato Storia dell’arte a Parigi. Queste stanze mi ricordano i palazzi della mia città.»
La duchessa fece un sorriso di cortesia: «Non mi lusinghi. È difficile ottenere un’Operà barocca in questa metropoli urbanizzata. Siamo ben lontani da Parigi qui.»
Camille tacque un istante, prendendo un boccone di cibo. Cercò lo sguardo di Alexander, che però era concentrato sul suo piatto. Pareva teso nello sforzo di evitare che le sue mani tremassero, senza successo.
«Lei dipinge, signorina Lefebvre?»
«Oh no» rise l’altra. «Ma, la prego, mi chiami Camille.»
La duchessa fece cenno al cameriere alle sue spalle di riempirle il calice e mentre lui eseguiva, replicò: «Certo, e lei mi chiami Cassandra».
Camille sorrise, come se avesse appena ottenuto un grande premio. «Il mio fidanzato dipinge» aggiunse, per far continuare la conversazione.
Lentamente, lo sguardo della duchessa si spostò su Alexander. Anche il giovane biondo che era seduto alla sua destra la imitò.
Alexander non poté fare altro che reggere quella coppia di sguardi, con un rivolo di sudore che scendeva sul suo collo.
«E cosa dipinge?» gli domandò.
A rispondere fu Camille: «Oh, non saprei. Non mi mostra mai le sue opere.»
La duchessa non spostò gli occhi da Alexander e lui prese la parola: «Dipingo i miei sogni.»
«E cosa vede quando sogna?»
Lui deglutì, attraversato da quello sguardo penetrante.
«Il mio passato, principalmente.»
Jefferson ritenne fosse arrivato il suo momento di intervenire: «Non so se sa, Cassandra, che Alexander ha studiato per due anni nel Regno Unito e che ora da due anni lavora attivamente per questa città. È proprio il suo desiderio che ci ha fatti incontrare, io e lui.»
Mentre Jefferson continuava a parlare del loro rapporto, la duchessa sollevò il calice e prese un lungo sorso.
«Lei conosce la Medea, Jefferson?» lo interruppe.
Lui si bloccò, colto alla sprovvista. Cercò l’aiuto del biondo al fianco della padrona di casa, ma quello era tanto impenetrabile quanto lei, e aveva a malapena aperto bocca durante la cena. 
«Lo prendo come un no» proseguì la duchessa. «Io ho avuto il piacere di rivederne un adattamento qualche settimana fa, in un piccolo teatro fuori città. Suppongo non conosca la storia, quindi gliela racconto. Medea è una giovane straniera, che sacrifica tutto, inclusa la sua famiglia per aiutare il giovane che ama, Giasone. I due fuggono insieme, promettendosi fedeltà reciproca, ma dopo anni di avventure insieme, Giasone rompe i patti e decide di sposare una nuova donna, non straniera, che gli garantirà una migliore posizione sociale. A questo punto, con il cuore straziato, Medea decide di vendicarsi sacrificando ciò che Giasone ha di più caro: i loro figli».
La duchessa tacque, con quattro paia di occhi che la fissavano. Il resto del tavolo non badava a loro e si dedicava esclusivamente alla cena.
Jefferson cercò di parlare, ma parve improvvisamente ammutolito.
Lei si crogiolò in quell’attesa per qualche istante, la piega delle labbra che rivelava la sua soddisfazione, arrotolando una ciocca di capelli intorno all’indice, prima di aggiungere: «Mi rivedo molto in Medea».
Rise, tenendo sulle spine il suo pubblico.
«Ora, sono molto lontana dal solo concepire un infanticidio, ma ci sono cose che sarei disposta a fare, proprio come Medea, se qualcuno tradisse la mia fiducia».
Prese il bicchiere e bevve il vino d’un fiato, poi appoggiò il capo allo schienale della sua sedia, socchiudendo gli occhi. Le lunghe ciglia nere proiettavano ombre sottili sui suoi zigomi. 
«Quello che sto cercando di dire, Jefferson, è: non chiedete il mio aiuto, se non siete in grado di rispettare le mie condizioni.»
Jefferson cominciò a sudare come chi viene colto sul fatto, ma cercò di rimanere impassibile. La duchessa aveva appena saltato tutte le tappe che lui aveva costruito nella sua preparazione.
«Non ha ancora sentito le nostre proposte, Cassandra».
Lei gli mostrò un sorriso tirato: «Non ne ho bisogno, so già che non mi interessano.»
Posò i piedi a terra e spinse indietro la sedia.
«Perdonatemi» disse, sempre con quel suo modo pacato e impenetrabile.
Si alzò e lasciò la stanza, senza fretta, con il calice di vino in mano.
Jefferson tirò una gomitata ad Alexander e gli fece cenno di seguirla.
Controvoglia, lui si alzò in piedi ed eseguì.
La duchessa si era infilata in un corridoio collegato con la sala da pranzo. Il pavimento ero coperto da elaborati tappeti colorati, mentre una serie di lampadari di cristallo pendeva dal soffitto.
Alexander la vide svoltare a destra e la seguì in una piccola anticamera in cui erano sistemate due poltrone, davanti ad un caminetto spento.
La duchessa stava di fronte ad esso e guardava l’uomo dal grande specchio posto sopra al caminetto, sorseggiando il suo vino. Nessuno parlò per qualche istante, ma si fissarono attraverso i loro riflessi.
«Hai costruito un bello show» fu Alexander a rompere il silenzio, facendo un passo avanti.
Nello specchio, lei non cambiò espressione. C’era una certa freddezza nel modo in cui lo guardava.
«Perché?» le chiese.
Il volto della giovane si contrasse impercettibilmente in una smorfia.
«Credi di essere nella posizione di fare domande?» replicò lei.
Alexander appoggiò la mano su una delle poltrone e fece scorrere il palmo sul velluto soffice, in attesa.
«Sapevi che ero io?» continuò infatti lei.
Lui scosse il capo: «Jefferson ti chiamava “duchessa” e non esistono foto di te.»
«Bene».
«Che cosa hai fatto, Emily?»
Lo sguardo di lei si oscurò. Strinse gli occhi e serrò le labbra.
«Emily è morta. Puoi chiamarmi Cassandra, se vuoi.»
Lui sospirò e alzò gli occhi al cielo.
«Non hai risposto alla mia domanda» insistette.
Lei si voltò di scatto e finalmente si guardarono negli occhi, senza nessun riflesso che li mediasse.
«E tu non hai risposto ai miei messaggi, alle mie chiamate, alle mie lettere cinque anni fa. Sei scomparso nel nulla e mi hai lasciata in quel buco come spazzatura.»
Alexander riuscì a vedere come lei si stesse sforzando di mantenere una certa freddezza, a fatica. Il suo viso era contratto e arrossato, e il calice che teneva in mano era quasi vuoto.
«Avevo chiesto a mio padre di recapitarti del denaro» le disse e lei scoppiò in una risata isterica. Buttò il capo indietro, facendo ondeggiare i capelli scuri e mettendo in mostra i denti bianchi.
«Tuo padre? Dio, Alex, sei troppo ingenuo per diventare sindaco. Davvero credevi che tuo padre lo avrebbe fatto?»
Lui non rispose, ma strinse i denti e la sua mascella guizzò.
«Ho bisogno del tuo aiuto per la campagna elettorale».
La duchessa abbassò le palpebre e prese un respiro profondo, come se stesse gustando qualcosa. Le sue labbra si erano nuovamente curvate in un sorrisetto soddisfatto.
«È così bello sentirti dire che hai bisogno di me. Finalmente sai cosa si prova» gli disse e i suoi occhi brillavano, mentre avanzava verso di lui. «Sei così disperato da farmi ridere. Lasci parlare Jefferson al posto tuo, lasci che ti scelgano una moglie solo per poter realizzare i sogni della tua famiglia. Sei un burattino e sei qui a supplicarmi.»
Lo fissava divertita, quasi esultante e avanzò fino a raggiungerlo. Lo guardò dal basso, ma senza perdere la sua fierezza, con il mento alto e lo schiena dritta.
Si piegò in avanti e, quando gli parlò, la sua voce era ridotta ad un sussurro: «Ed è così bello dirti di no.»
Fece per allontanarsi, ma lui le afferrò un braccio e le strappò il calice dalle mani.
«Nonostante tutto quello che hai costruito intorno a te, non sei cambiata.»
Lei cercò di divincolarsi e di riprendersi il bicchiere, ma lui lo avvicinò alle proprie labbra. Prima ne annusò il contenuto, poi sorrise e ne assaggiò un sorso.
«Succo di mirtillo?» le disse, divertito.
Lei riuscì a liberarsi della sua stretta e fece un passo indietro, indispettita.
«Sei furba, te lo concedo, ma ti darò un consiglio: molti hanno interessi nella mia candidatura a sindaco e potrebbero esserci anche i tuoi, dipende da te.»
Lei lo trafisse con lo sguardo.
«Vaffanculo Alex».
Lui scrollò le spalle.
«Che tu ci creda o no, mi dispiace davvero per come sono andate le cose. Se vuoi parlarne ci sono.»
Le lanciò un ultimo, lungo sguardo, prima di darle le spalle e lasciarla sola.
 
 

 
Dall’ampio balcone che affacciava sul giardino posteriore, la duchessa ascoltava il rumore del personale che sistemava le sale dove si era tenuta la cena.
Era ormai mezza notte passata e anche gli ospiti più tardivi se ne erano andati.
Si era alzato un venticello leggero e per poter rimanere all’esterno la giovane aveva dovuto coprirsi le spalle con uno scialle di lana e infilarsi le pantofole di pelo.
Udì un rumore di passi alle sue spalle e domandò: «Roman? Sei tu?»
La figura familiare di Roman, con i capelli ossigenati ben pettinati e la lucida pelle ambrata, entrò nel suo campo visivo, fermandosi accanto a lei sul bordo della terrazza.
«Com’è andata?» le chiese lui.
La duchessa si voltò a guardarlo, rilassandosi per la prima volta dall’inizio della serata. Pensò che era finito ormai, erano tornati ad essere solo loro due.
«Sono sbottata» gli rispose e notò lo sguardo divertito dell’altro. «L’ho insultato.»
«Non ne dubito» rise lui, «e sicuramente lo meritava. Ti ha fatto un’offerta?»
Lei scrollò le spalle: «Nulla di specifico, ma gli ho detto di no.»
Si voltò verso Roman e gli prese le mani, guardandolo nei suoi occhi scuri. 
«È stato così bello vederlo supplicante, come se i ruoli si fossero invertiti. Lui spera che io cambi idea.»
Lui la scrutò, con un sorriso solo accennato sul volto: «E lo farai? Accetterai?»
La giovane gli lasciò le mani e tornò a scrutare il paesaggio davanti alla terrazza, senza parlare.
«Emily?» Roman si era sporto verso di lei. «Sai che abbiamo bisogno di lui. Tu hai bisogno di lui.»
«Lo so» replicò di getto, interrompendolo, con gli occhi grandi e spalancati rivolti a lui «ma questo non lo rende più facile.»
Prese un profondo respiro e fece uscire l’aria lentamente, socchiudendo le palpebre. Era stanca, la serata aveva messo a dura prova il suo autocontrollo e lei aveva perso.
Roman le si avvicinò e le lasciò un bacio sulla guancia.
«È tardi ormai, rimanda i pensieri a domani» le disse, poi ammiccò: «Buona notte, duchessa.»
Lei sorrise e lo salutò a sua volta, poi lo guardò lasciare la terrazza e seguì la sua sagoma al di là delle tende bianche finché non uscì dalla stanza.
La giovane lanciò un ultimo sguardo al giardino immerso nel buio e si decise a rientrare.
Si spogliò e indossò il pigiama di seta piegato sul grande letto matrimoniale, poi si infilò sotto alle coperte.
L’ultima cosa che vide, prima di addormentarsi, fu il soffitto affrescato della sua camera.
 
Il sonno in cui cadde non fu un sonno tranquillo. Delle immagini, dei ricordi, tornarono a tormentarla, evadendo da quel passato in cui credeva di averli rinchiusi.
Furono le cose più banali a tornarle alla mente, come i pomeriggi trascorsi bevendo cioccolata calda sul grande letto che faceva anche da divano nel loro monolocale. Ricordò come ogni preoccupazione sembrasse rimanere fuori dalla porta, anche solo per un istante, quando erano lì insieme. Le bastava sentire il suo abbraccio, il calore dei loro corpi vicini, guardare nei suoi occhi ambrati per dimenticare all’improvviso tutti gli affanni della vita quotidiana.
Nella stanza del suo palazzo, Emily si svegliò di soprassalto.
Si mise seduta e guardò l’orologio posto al fianco del letto. Non erano passate più di quattro ore da quando si era coricata. 
Raccolse la vestaglia che aveva lasciato al fianco del letto e si alzò in piedi, cercando di schiarire la mente dalle ultime immagini che i sogni le avevano lasciato.
Uscì dalla sua camera e percorse il lungo corridoio su cui si affacciava anche la stanza di Roman, per accedere nella libreria che si trovava prima delle camere.
Come al solito, qualcuno aveva lasciato il fuoco acceso e l’ambiente era rischiarato dalla sua piacevole luce rossastra. Di fronte al camino erano posti un divano e una poltrona, i suoi luoghi preferiti per leggere, mentre le pareti della stanza, nei pochi punti non coperti dalle alte librerie, lasciavano intravedere una carta da parati damascata. Emily si sedette sul divano, raggomitolandosi con le gambe al petto, e si mise a fissare la vecchia bicicletta che era stata appesa sopra al camino. 
Era un modello economico, verniciato alla buona di un colore crema, anche se in alcuni punti si era scrostato. Portava ancora sulla parte davanti un cestino di vimini e all’interno di questo stavano dei fiori che erano continuamente curati dai domestici della duchessa.
Sul divano, Emily continuò a fissarla, come impietrita e nella sua mente aveva stampate quelle iridi color ambra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 




 
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