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Autore: ___Page    18/01/2020    1 recensioni
Non era morto, la vivre card non lasciava spazio a dubbi. Continuava a bruciare, imperterrita, nella tasca dei suoi pantaloni ricongiunta al foglio originale, che avevano ritrovato abbandonato sull’isola dove quella macabra e snervante specie di caccia al tesoro aveva avuto inizio.
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«Cosa ci fai qui?»
Law si girò incredulo e lento, gli occhi che lanciavano schegge di ghiaccio, e si concesse un istante per studiarla con attenzione. Non l’aveva mai vista in vita propria e, sì okay, era consapevole di avere una faccia nota ma mica era una giustificazione per rivolgerglisi così.
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Avevano fatto qualcosa di avventato, avevano rischiato, se lo sentiva, glielo diceva l’istinto. Per fortuna lo spasmo allo stomaco era passato com’era venuto dopo pochi minuti, a tranquillizzarlo che la sua ciurma l’aveva scampata, almeno per il momento.
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uscì sul ponte, nell’aria della sera, la tiepida brezza a scompigliargli il ciuffo fulvo, libero una volta tanto dal cappellino, e a riempirgli i polmoni, a ogni sconfortato respiro.
Le informazioni che riuscivano a carpire qua e là erano contrastanti e scarne. Si era visto obbligato a filtrarle secondo una logica tutta sua, che di certo o scientifico non aveva nulla, e cominciava a temere di avere scelto la strada sbagliata da seguire.
Si passò una mano tra la zazzera rossa, sospirando.
Non era rigetto di una responsabilità di cui andava onorato, ma non avrebbe mai immaginato che accettare il ruolo di vice potesse implicare qualcosa di tanto enorme per le sue spalle. Se credeva che occuparsi della ciurma durante i mesi in cui Law li aveva “abbandonati” fosse stato impegnativo, Penguin si stava rendendo conto di quanto si fosse sbagliato. All’epoca non aveva dubitato un solo istante nel ritorno del Capitano. Certo Law si era volontariamente andato a invischiare in un bel carnaio, ma era il suo piano e Law sapeva sempre ciò che faceva. Diventare di proposito uno Shichibukai, collaborare con Ceaser il Clown, attaccare Doflamingo in persona. Penguin non aveva mai compreso lo schema completo ma sapeva che c’era, si fidava e sapeva cosa fare.
Ora, era tutto diverso. Non erano in attesa ma alla ricerca. Law non se n’era andato spontaneamente. E nessuno poteva giurare che sarebbe tornato o che, tanto per non scartare nessuno scenario, sarebbe sopravvissuto. Penguin non stava facendo le veci ma era in tutto e per tutto il capitano. E colui che stava cercando, in lungo e in largo per lo sconfinato mare, non era il suo Capitano ma il suo migliore amico.
E per questo motivo, proprio per questo, lui era il solo che potesse riuscire in quell’ardua impresa o almeno, così pensavano gli altri. Lui, dal canto proprio, viveva con il costante terrore di essere sempre in difetto a partire dall’ordine di ridipingere il Polar Tang di un anonimo grigio, pur di viaggiare sempre in emersione tranne in caso di attacchi massici da parte della Marina o di altri pirati, una strategia che Jean Bart aveva appoggiato, bramoso, come Penguin e come tutti, di scendere su ogni singola isola e chiedere informazioni a ogni singola nave, alla ricerca di una nuova traccia, un nuovo indizio, qualcosa che confermasse che quella era la direzione giusta o che lo spingesse a tornare indietro.
Penguin non poteva deludere le aspettative dei suoi compagni, tantomeno infrangere le speranze di Bepo, che già travolto dallo sconforto a malapena mangiava e ormai non chiedeva più neanche scusa, tanto si era fatto taciturno.
Non poteva ma dipendeva da lui fino a un certo punto. L’attacco era stato improvviso e rapido, al punto da non essere nemmeno riusciti a identificarne i perpetratori.
La Marina? Kaido? Cosa stavano cercando? Dove? Penguin non lo sapeva. Erano saliti sul sottomarino in una fulminea sortita e Law si era, come sempre, esposto in prima linea, a fare da scudo a tutti loro.
Sacrificato.
Di notizie sulla sua eventuale cattura non vi era stata traccia ed era l’ultima esile speranza a cui Pen si aggrappava ormai, ricordandosi e ricordando ai compagni che la condanna a morte, di un pirata come il loro Capitano, un ex Shichibukai, il primo alleato di Cappello di Paglia, uno dei pirati all’origine della distruzione di Punk Hazard, delle rivolte di Wano e Dressrosa non sarebbe mai passata in sordina. All’opzione che potesse essere stato Kaido a ordinare l’attacco, e poi accontentarsi del rapimento del Capitano, non voleva né poteva pensarci. Non se non voleva soccombere.    
Era facile assistere Law nelle operazioni, rattoppare i propri compagni. A essere un "medico" decente glielo aveva insegnato. Ma per essere un Capitano, gli mancava la stoffa.
Guardò di fronte a sé le luci sfocate dell’ultima isola su cui erano stati, da cui si stavano allontanando.
Cos’avrebbero fatto?!
Dove sarebbero andati, ora?!
Che vita li avrebbe attesi se non fossero riusciti a trovarlo? Senza un cadavere da piangere, avrebbero incessantemente proseguito ma fino a quando lui sarebbe riuscito a recitare la parte del capofamiglia, prima di dimostrare quanto inadeguato fosse per quel ruolo?  
Serrò le mani in due pugni tremanti, come il resto del suo corpo, per la rabbia e la frustrazione.
Non era morto, la vivre card non lasciava spazio a dubbi. Continuava a bruciare, imperterrita, nella tasca dei suoi pantaloni ricongiunta al foglio originale, che avevano ritrovato abbandonato sull’isola dove quella macabra e snervante specie di caccia al tesoro aveva avuto inizio. Quindi no, Law non era morto ma, dopo quasi quattro settimane, era davvero la morte lo scenario peggiore?
«Ehi!»
Penguin sobbalzò, mentre una mano si posava sul suo braccio, libero dalla tuta bianca degli Heart e coperto solo fino a metà bicipite da una maglia grigio-blu che portava il loro Jolly Roger. Se sul Polar Tang lo aveva dovuto nascondere, su di sé non avrebbe mai smesso di sfoggiarlo.
«Ikka!» protestò, portando l’altra mano al petto e staccandosi dalla balaustra. «Dannazione»
«Scusa tanto, non volevo interrompere il tuo momento da filosofo nichilista» lo schernì la compagna, alzando le mani ai lati del viso, e Pen le lanciò un’occhiataccia. «Ti stavi di nuovo deprimendo»
«Riflettevo»
«Per te sono sinonimi. Che c’è? Quando mai ti ho visto riflettere prima di quest’ultimo periodo. E quando mai, in quest’ultimo periodo, non erano riflessioni disfattiste»
Penguin sospirò, più per la consapevolezza che in fondo Ikkaku aveva ragione che per la velata accusa di comportarsi da pessimista. «Che c’è, comunque? È pronta la cena?» 
Ikkaku corrugò le sopracciglia, le braccia incrociate sotto il seno. «La cena era pronta quando Shachi è venuto a chiamarti prima e tu gli hai detto che non avevi fame»
Pen sbatté le palpebre interdetto, rievocando vagamente la distratta conversazione con Shachi. Non si era neanche accorto di aver declinato e comunque credeva fossero passati appena dieci minuti. Avrebbe avuto senso, che anche Ikkaku tentasse nell’impresa di convincerlo a scendere a mangiare ma, a quanto pareva, aveva trascorso parecchio tempo con gli occhi fissi all’orizzonte, nella speranza di individuare un nuovo fazzoletto di terra o incrociare un’altra nave a cui poter chiedere qualche informazione.
«Uni ti ha messo da parte qualcosa, anche se non l’ha presa bene»
Probabilmente si parlava di ore.
«E dici che Skua non se l’è già sbafato?» domandò, facendola sospirare.
«Si è anche offerto di fare il primo turno in sala macchine. Dovresti proprio sotterrare l’ascia di guerra con lui, sai?»
Pen aggrottò le sopracciglia, riflettendo per un attimo sulle parole della compagna. «È un interessante scelta di parole» le fece presente, riferendosi all’arma con cui Skua combatteva e, a cadenza regolare, tendeva agguati più o meno letali a lui e, ben più sporadicamente, al resto dei compagni, in un tentativo di sfogare in qualche maniera la presunta sociopatia di cui era sicuramente affetto, nonostante nessuno si fosse preso mai la briga di diagnosticargliela, e che, comunque, Law non aveva ritenuto un impedimento sufficiente per impedirgli di unirsi alla ciurma.
«Hai bisogno di dormire» sentenziò Ikkaku. Non gli avrebbe dato corda, quella rivalità era infantile e ridicola, nonché fuori luogo in quel momento. Era ancora vivo, no? Che senso aveva lamentarsi?! «Il fatto che tu ora sia il capitano non significa che devi essere come lui in tutto e per tutto, sai?» aggiunse con un sorrisetto che Pen riuscì a ricambiare un momento soltanto.
Si riavvicinò al parapetto, posandovi i palmi e fissando, senza vederla, la linea dell’orizzonte che tanto a lungo aveva tenuto d’occhio.
«Non so neppure dove stiamo andando» ammise a voce così bassa che a Ikkaku venne il dubbio che non lo stesse dicendo per farsi sentire da lei. «E se fosse tutto inutile? Se avessimo dovuto fare rotta su Impel Down? Se anche ritrovandolo non fosse più il Law che conosciamo?! Se stesse mor…»
«È vivo» lo interruppe Ikkaku, la voce intrisa di un veleno e una rabbia che, Pen lo sapeva, non erano per lui. Si girò di nuovo a fissarla e inalò a fondo.
«Lo so»
«Perché lo dice la vivre card»
«No!» negò con veemenza il rosso. «Lo so» ripeté portando la mano serrata al petto, all’altezza del cuore.
Ikkaku lo fissò un lungo istante prima di annuire, secca ma soddisfatta.
«Ti conviene andare a riposare, Capitano» ribadì Ikkaku, voltandosi per rientrare sottocoperta. «Le occhiaie non ti donerebbero, se la tua speranza è diventare più sexy»
Pen la guardò sparire nel buio del corridoio che portava sul ponte, le mani ancorate alla balaustra e si concesse un lievissimo sbuffo, vagamente simile a una risata, mentre scuoteva il capo. Lentamente staccò le mani dal parapetto e fece per rientrare, tornò sui propri passi, lanciò un’incerta occhiata all’orizzonte, ormai denso e buio come la volta senza luna sopra la sua testa, e poi riprese a camminare verso il sottocoperta.
Lo stomaco brontolò sonoramente nel silenzio rotto solo dallo sciabordio delle onde contro lo scafo. Forse, dopotutto, una capatina in cucina era meglio farla.
Sempre che Skua non lo avesse battuto sul tempo.   
 

 
§
 

Metallo. Si trovava in un luogo con pareti di metallo.
Alle sue orecchie il suono era inconfondibile, una eco dilatata, lugubre che però, per lui, sapeva di casa. Non in quel momento, non in quel luogo, lì non era a casa ma quel luogo aveva pareti di metallo.
Non era più nella stiva della nave dove lo avevano tenuto prigioniero e se i suoi rapitori pensavano che bastasse tenerlo bendato per confondergli le idee si sbagliavano di grosso. Sapeva esattamente quanti giorni fossero trascorsi, sapeva di non essere più nella stiva della nave, sapeva di essere ora sulla terraferma. Sapeva esattamente quanta acqua bere e quanto cibo mangiare per dare l’impressione di non aver nemmeno toccato le vivande che insistentemente i suoi sequestratori gli avevano portato. Li aveva sentiti bisbigliare, fuori dalla porta. Lo credevano un mostro, capace di sopravvivere senz’acqua né cibo per un mese intero, e Law non avrebbe gradito definizione migliore.
C’era un intrinseco sadismo nel fare paura ai propri carnefici e nemmeno l’effetto accecante che, lo sapeva, la luce avrebbe avuto sui suoi occhi lo avrebbe privato del piacere malsano di farsi trovare con un ghigno compiacente e rilassato, quando gli avessero tolto il cappuccio. Ragion per cui sarebbe dovuto essere grato del fatto che nessuno sembrava intenzionato a togliergli la benda dagli occhi e la cosa cominciava a spazientirlo non poco.
Aveva tollerato a sufficienza e se non si era ancora ribellato era solo perché si trovava in una situazione strategicamente svantaggiosa per essere sicuro al cento per cento di uscirne indenne e il cento per cento era la sola percentuale accettabile, perché non era riuscito a ordinare Pen e gli altri di non andare a cercarlo, come quando si era messo in viaggio per Dressrosa, perciò, stavolta, doveva per forza sopravvivere, per tornare da loro o per lo meno mettercisi in contatto.     
Ma ora, cosa stavano aspettando ancora?
Law pensò seriamente di concedersi un istante di frustrazione come solo Cappellaio riusciva a provocargliene di solito, quando sentì la porta richiudersi con un secco clangore ma resistette abbastanza da accorgersi, e darsi dell’idiota per averci messo così tanto, anche se in riserva com’era non era poi così strano, che i suoi polsi non erano più costretti. Non completamente liberi, sentiva ancora i bracciali di agalmatolite contro la pelle, la sola cosa che aveva addosso oltre ai boxer, ma non più legati insieme.
Con un gesto cauto portò le dita sotto al bordo inferiore della benda e la scostò, lasciando filtrare un po’ di luce, naturale o artificiale che fosse, perché gli occhi si riabituassero alla propria funzione. Avrebbe voluto sedersi ma doveva pazientare ancora un po’, soprattutto perché non era certo di essere solo e non voleva mostrarsi meno che perfettamente in controllo ai propri nemici. La debolezza non era contemplata neppure come inevitabile alterazione fisiologica, non per lui.
Non era sicuro di quanto fosse passato ma il solo aver perso la cognizione del tempo lo rassicurò di potersi azzardare e sfilare la benda una volta per tutte. Occhi socchiusi e mano a schermare eventuali fonti di luce troppo forti, Law espirò sollevato nel constatare di essere solo.
Con sguardo analitico e per quanto i sensi rallentati glielo permettessero, si guardò intorno nell’immacolata stanza in cui si trovava, munita solo di un letto, un comodino con una lampada, grate alla finestra e sulla sinistra una porticina che di certo era un piccolo bagno. Non faceva freddo ma neanche caldo e tuttavia di starsene nudo non è che avesse voglia, ma l’idea di infilarsi la tuta di cotone bianco, ben ripiegata sulla branda dall’aria non proprio comodissima, non era più allettante.
Non era certo una questione di estetica, tutt’al più che gli ricordava le loro tute, ma se la stanza gli aveva dato subito la sensazione di trovarsi in una specie di ospedale, quella tuta faceva manicomio.  
Tre tonfi lo riscossero e Law si limitò a lanciare un’occhiata da sopra la spalla nuda, verso la porta che filtrava ancora di più una voce già ovattata di suo.
«Ora di cena, datevi una mossa!»
Lo stomaco si contrasse rabbioso.
Aveva fame, i braccialetti di agalmatolite lo indebolivano, aveva bisogno di energie ma l’istinto gli diceva che non poteva fidarsi di ciò che veniva servito in un posto del genere.
Se solo il suo stomaco non si fosse ribellato così, brontolando e dolendo, e il solo pensiero di mettere qualcosa sotto i denti non lo avesse fatto fremere, la lingua impastata di acquolina e saliva. Dio, era patetico!
D’altra parte non è che perdere la capacità anche solo di pensare lucidamente per evitare eventuale cibo drogato fosse esattamente una soluzione e andare a dare un’occhiata era il primo passo.
Indagare, valutare. Ideare una soluzione in caso estremo. Era così che agiva lui.   
Senza più remore, si avvicinò al letto, il marmo freddo gli pungeva i piedi senza ottenere soddisfazione alcuna, e infilò veloce la tuta, le calze e gli scarponcini posati ai piedi del comodino, tutto di misura perfetta per lui, e si rimise subito in piedi, senza perdere altro tempo. Le gambe un po’ instabili, si avvicinò alla porta bianca dell’asettico alloggio e fu senza esitazione che girò il pomello e aprì per avventurarsi fuori, alzandosi con l’altra mano il cappuccio della tuta sulla testa.
Non si illudeva servisse a nascondere la propria identità, in quel frangente non aveva senso, se non ad altri detenuti/pazienti ficcanaso, ma comunque avrebbe schermato il suo viso dalla luce, concedendo ai suoi occhi un altro po’ di tempo.
Lungo il corridoio una manciata di altri soggetti, tutti vestiti come lui, camminavano nella stessa direzione, senza interagire certo ma non avevano neanche l’aria di essere degli automi senza volontà. Law afferrò l’aria con la mano destra, dove di solito la sua Kikoku gli dava sicurezza.
Quel luogo gli ricordava l’ospedale di Flevance, gli ricordava gli innumerevoli ospedali visitati con Cora, gli riportava alla mente una miriade di brutti ricordi che gli facevano tremare l’anima ma non avrebbe permesso alle brutte sensazioni di prendere il sopravvento.
Doveva capire dove si trovava e possibilmente trovare qualcosa di adatto al suo stomaco. Dopo avrebbe dovuto lavorare sul perché. In poche parole, non aveva tempo da perdere.
Si mosse insieme agli altri, simulando una sicurezza che non provava, quasi che non fosse appena arrivato. Sinistra, destra, ancora destra.  
Porte identiche a quella della sua stanza, asettiche, bianche e senza numeri sopra, si aprivano ad intervalli regolari nel muro, davanti ad alcune di esse dei tizi vestiti in azzurro con dei caschi, che davano tanto l’impressione di voler essere una misura anti-contagio, a celarne i volti e alterarne la voce, come quello che aveva chiamato per il rancio. Si perse un momento a squadrare uno di quegli inservienti e quando riportò gli occhi di fronte a sé, mise a fuoco una grossa porta a due ante di metallo scuro, aperta e presidiata da altri due tizi in azzurro.  Law la varcò, non senza un’altra occhiata a uno dei due inservienti, che ricambiò seguendo il suo avanzare con la testa, un avanzare che, per la prima volta da quando aveva lasciato la propria stanza, si arrestò per permettergli di assorbire i dettagli del luogo dov’era giunto.
Di fronte a lui c’era un balcone, un balcone al chiuso, che seguiva le quattro pareti di una stanza rettangolare e di dimensioni notevoli, costruita su due piani con mattoni a vista, probabilmente il nucleo originario di quel luogo, poi ampliato negli anni utilizzando un materiale più resistente e facile da maneggiare.
Sotto di lui, un mare di persone vestite di bianco e celeste si muovevano in tutte le direzioni, parlottando tra loro e sollevando un brusio che giungeva fino al soffitto, che terminava con un immenso arco a sesto acuto. Alcune finestre si aprivano nelle pareti e, anche se era sera, dalla loro forma e posizione Law calcolò che la luce dall’esterno filtrasse senza inondare completamente lo stanzone, mantenendone alcune zone immerse nella penombra.
In una zona del salone si trovavano alcune lunghe tavolate, intorno ai quali i detenuti stavano mangiando di gusto mentre il resto della stanza era disseminata di sedie, tavoli più piccoli e qualche panchina rasente al muro, che permetteva ai soggetti in bianco di intrattenersi, giocando, chiacchierando o leggendo, mentre gli inservienti in azzurro giravano tra loro, tenendoli sott’occhio.
Si accorse di essere ancora lì fermo mentre quasi tutta la fiumana di gente che man mano si era unita a lui nel corridoio era già scesa senza esitare e, individuata la rampa di scale più vicina, si affrettò a raggiungerla e imboccarla, ostentando calma e tranquillità. Al piano inferiore il brusio quasi assordante, risultava molto più delicato e quasi soporifero.
Appuntò mentalmente tutte quelle informazioni, ammesso che fossero in qualche misura utili, mentre prendeva ad aggirarsi tra le tavolate, più o meno sorvegliate dagli inservienti, studiando i volti dei commensali per capire se di quel cibo potesse fidarsi.  
Nessuno di loro aveva lo sguardo perso, sebbene vi fosse un grande assortimento di stati d’animo.
C’erano persone terrorizzate, altre rassegnate, qualcuno arrabbiato e pochi sguardi determinati ma nessuno che si astenesse dal mangiare, e Law lo avrebbe negato fino alla morte ma il sollievo per un momento lo travolse.
Quel cibo sembrava sicuro, ergo poteva finalmente mettere qualcosa nello stomaco.
S’impose di non lanciarsi verso la fila che avanzava tutto sommato rapida per farsi riempire il vassoio e con altrettanta calma trovò un posto libero, possibilmente isolato. Afferrò la forchetta e cominciò a mangiare, masticando piano e stando attento a non ingozzarsi, consapevole che cibarsi in fretta avrebbe solo peggiorato le condizioni del suo stomaco.
Mentre ingollava il primo boccone, cercando subito il bicchiere dell’acqua con la mano, continuò a guardarsi intorno con interesse, ben nascosto dal cappuccio bianco, cercando di captare qualche informazione utile ma la quantità di persone di cui la stanza brulicava non faceva che aumentare la sua confusione. Caso strano, nonostante tutti si scambiassero almeno qualche parola, nessuno sembrava interessato ad avvicinarsi a lui.
Posò il bicchiere e riprese in mano le posate. Doveva sfruttare quell’ora d’aria per farsi idee più precise, capire se c’era qualcuno con cui parlare, ma non aveva intenzione di alzarsi senza aver ripulito il piatto fino all’ultimo chicco di riso e boccone di pesce, che infilzò senza tante cerimonie, salvo poi restare bloccato con la forchetta a mezz’aria quando qualcuno parlò da sotto il tavolo. E oltre a essere una logistica piuttosto strana, era per di più una voce sottile.   
Troppo sottile, e il sangue gli si gelò nelle vene, per appartenere a un adulto.
«E tu chi sei?!»
 
 



Angolo dell'autrice: 
Buonsalve a tutti! Ordunque, ho infine deciso di lanciarmi in questa avventura, che è la riscrittura di una storia che avevo scritto tempo fa ormai e che era comunque molto, molto, moooooooooolto diversa all'epoca. Alcuni elementi sono rimasti identici, altri drasticamente cambiati. 
Oda poi, ci da tanto materiali e poche informazioni, il che può essere anche stimolante anche se mi piacerebbe tanto sapere cosa gli costa darci qualche dettaglio in più alla fine è lui che mette un milione di personaggi, porca vacca! e quindi mi sono lanciata nell'uso e conseguente tentativo di caratterizzazione degli Heart. I ruoli di ciurma sono assolutamente frutto della mia fantasia, così come Skua. 
Ora, Skua per intenderci è quello con la maschera che si intravede spalla a spalla con Ikkaku nel capitolo 815, quando gli Heart incontrano Rufy. Il nome gliel'ho dato io perchè sentivo il viscerale bisogno di dargli un'identità. 
Lo skua è un simpatico uccello predatore delle zone artiche che oltre a, purtroppo, predare i pinguini, utilizza anche quest'adorabile tecnica di pungolarli e rompergli le penne allo sfinimento finchè non rigurgitano il cibo appena cacciato prima di digerirlo, permettendo allo skua di sbafarselo al posto loro. Ragazzi, I regret nothing! 
Spero vivamente che abbiate apprezzato, intanto ringrazio di cuote tutti quelli che sono arrivati fin qui. 
Un bacio grande. 
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