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Autore: SherryVernet    19/01/2020    0 recensioni
"La Storia è come un valzer senza fine: in tre tempi, guerra, pace e rivoluzione si susseguono all'infinito."
– Gundam Wing: Endless Waltz (1998) –
 
Ovvero: Qualunque post-EW sarebbe un'alternativa preferibile a Frozen Teardrop. Qualunque. Ne seguono settantacinque, spesso incompossibili, da scegliere a caso.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Shonen-ai | Personaggi: Duo Maxwell, Heero Yui, Relena Peacecraft, Un po' tutti
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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I.16

 

Duo e Relena, in comune, non hanno quasi niente – tranne una certa tendenza a non lasciarsi ammazzare (nonostante se la vadano a cercare) e a mandare i piani di Heero a farsi benedire; poi, forse, tutt'e due gli vogliono bene.

Per questo, sei mesi e mezzo dopo la Battaglia di Natale e tanto dormire, Heero di punto in bianco decide di partire, prendendo solamente il tempo per prenotare un posto a sedere sul primo volo diretto, oggi stesso, usando quello che oramai è il suo nome. Il tempo che non prende, è quello per interrogarsi ed esitare; nel dubbio, non prende neppure il tempo per salutare, né prende altro – ma non c'è niente che gli possa servire.

Relena, che lo conosce e non avrebbe avuto bisogno di sorvegliarlo per intuire la sua destinazione, lo aspetta già al porto spaziale, davanti al tornello dell'imbarco, con un abbraccio, parole criptiche d'incoraggiamento ed uno zaino col cambio d'un giorno, tre paia di calzini, una pila eccessiva di boxer e – nell'incertezza – di mutande, ed un maglione pesante, perché "il controllo climatico su tutta L2 è obsoleto, volatile, incostante". Come quel deficiente.

In cima c'è un biglietto, che Heero vede solo quando è ormai intrappolato nella poltrona al centro, tra un uomo obeso  – che russa da mezz'ora prima di romper l’atmosfera – ed una donna che piange, discretamente, nascosta tra le rughe e un fazzoletto.

Coraggio. Avanti tutta. Niente prigionieri. Non guardati indietro.

Heero l'ha letto quasi sorridendo, pensando a Relena ed al suo pacifismo, che non le ha mai impedito di sparare ad una rosa all'occhiello, né d'ordinare a lui d'ucciderle il fratello; e ancora le permette di parlargli in una lingua che possa capire, per ficcargli in testa che la felicità è l'ultima missione, e che fallire non gli è consentito.

Per tutto il viaggio, stringe le carta in pugno, senza pensare, senza prendere sonno: non c’è mai riuscito, a meno che non fosse Duo a pilotare –  neppure in Wing, con davanti troppe ore di navigazione ed alle spalle, dietro agli occhi chiusi, troppe battaglie che avrebbe soltanto voluto poter non rivedere. 

Sbircia dall'oblò il nero clericale tra le stelle fisse, piantate come chiodi a reggere niente. Di tanto in tanto, un frammento di relitto gli fluttua a un paio di metri dalla faccia; bussa contro al vetro, memento minaccioso, di passaggio: per l'universo, è appena spazzatura, un avanzo, un rifiuto che non val lo sforzo del riciclo; per Heero, è quel che resta dei giorni più bui – le spoglie di qualcuno che, verosimilmente, ha ucciso lui.

Passato il lato oscuro della Luna, scruta il sedile di fronte con rancore; sa che dalla cabina di comando si scorge in lontananza la destinazione: è la seconda a destra nell'ammasso, stando alla cartolina che riporta soltanto una falce (o forse un sorriso?) e un indirizzo, nella grafia minuta e stravagante, decifrabile a stento, che gl'ha scritto sul cuore.

La discesa è lenta, quasi impercettibile, inesorabile come una marea; l’attracco è uno schianto che gli esplode in petto, con un misto di terrore e eccitazione, che non credeva di poter sentire, non senza rischiare di morire. E forse lo rischia: la depressurizzazione gli spezza le ossa, gli stritola i pensieri, gli schiaccia pure il sangue nelle vene – come un tuffo in picchiata verso la termosfera, per fermare un grave che non avrebbe dovuto poter rallentare, non con quella massa, quell’accelerazione.

Duo è da sempre così: una caduta libera; finché si precipita, non c’è da temere. E Heero, che si è già buttato a capofitto – o c’è inciampato; è scivolato, senza rendersene conto –, si getterà ai suoi piedi a supplicarlo di rimaner per lui la gravità ed il vuoto, di non lasciarlo atterrare; e gli rimetterà le cose splendenti, spaventose, che si è scovato in petto, come nuove, ma non sa maneggiare. Duo è un ottimo ingegnere, un pilota brillante; ha un intuito selvatico e geniale – un puro istinto per la matematica; per la natura umana, profonda comprensione –; ha un senso morale: saprà quello che è giusto fare, saprà come.

Heero, dal canto suo, sa solo come vincere una guerra: a denti stretti, pugni chiusi, e a testa alta;  sputando l’anima, pulendola da terra con quattro stracci e un po’ di segatura, per non perderla tutta; squartando e ripartendo la speranza – in Relena, l’amica in cui si sarebbe rispecchiato, se fosse stato un uomo migliore; negli altri, che avevano qualcosa da sacrificare, pronti più di lui a perder tutto; in Zero-Due, l’ombra e il guardiano, giullare e giustiziere, il compagno fidato che non ha potuto abbandonare, quello che ha sempre creduto nel futuro, donandogli qualcosa da agognare, di soppiatto; l’ultimo quarto, quello personale, riposto in Wing, tra il Sistema Zero ed il motore, o nel pulsante di autodistruzione. Della pace, però, non sa un bel niente; dunque ha bisogno di farsi guidare, e di qualcuno che non sia da proteggere bensì da custodire, da cui ritornare, che possa capire.

Sospeso sulla rampa, un attimo, tentenna, si sente esitare; somiglia a uno svenire. Gli altri passeggeri, che hanno ancora fretta di sbarcare, lo urtano, lo fanno sobbalzare; per poco, il ciccione non lo scaraventa oltre il parapetto, con un’occhiataccia e borbottando un insulto. La punta di una scarpa sfiora il secondo scalino, appena appena, in bilico tra i piedi per terra e la mezz’aria, su un precipizio il cui fondo non s’osa neppure immaginare: è un pendolo impossibile, una carezza oscena; traccia la linea d’un confine che lo paralizza, col più puro terrore sia di discendere sia di risalire. Allora Heero stringe il corrimano così forte da imprimere al metallo la forma delle dita, probabilmente pure quella delle nocche: se lo lasciasse, annegherebbe – senza mare, senza sole né sale –; sarebbe alla deriva a consumarsi,  come un’impurità nell’aria rifiltrata, artificiale.

La donna triste che era alla sua destra, è l’ultima ad uscire, fermandoglisi accanto a sfiorargli un braccio con l’indice ed il medio in un guanto da lutto; con quella simpatia egoista, sussiegosa, di chi ci crede affetti dalla stessa lebbra, gli dice in uno sguardo di scernere il suo male, per davvero, d’averlo patito, d’averci creduto, finché non è passato, come tutto il resto, assieme alla pena che, in fondo, non è valso.

“Si viene su L2 per essere dimenticati, o per dimenticare”, aggiunge, in una chiosa all’essenziale. “L’una o l’altra cosa. O entrambe, normalmente”. Poi gira su tacchi troppo alti per non far rumore, e se ne va, verso una casa vuota come un mausoleo, a raccontarsi che l’Universo è una tomba e che non c’è più niente da aspettare.

No!, Heero vorrebbe richiamarla; no!, vorrebbe risponderle, no e che ha torto marcio: che nulla al mondo è più vivo o più indimenticabile di Duo; che con lei da spartire ha avuto soltanto il bracciolo tra i posti C e D della fila undici, sul rapido ESA-268, da New Port City a L2-V08744, del   quattordici luglio centonovantasette, alle diciannove e venticinque (tempo di percorrenza: trentasei ore); che anche il dolore – anche il sangue sparso, quello sotto le unghie, quello che non si secca e non si lava – deve avere un senso, o almeno un valore; che non è venuto qui a morire, né per scomparire, ma per azzardo, per quella scommessa spaventosa e sconsiderata, che ci spinge a puntare una libbra di carne – sempre la stessa, la libbra che si strugge a stare sola nel suo guscio di costole e polmoni –, sperando di scambiarla con un’altra, nel giro d’una mano fortunata; che, sotto le armi, Heero non s’è mai tirato indietro e, in tempo di pace, non ha alcuna intenzione d’iniziare. Gli mancano però la voce e le parole.

Non sarebbe mai dovuto partire: sarebbe dovuto restarsene a dormire, perché dormire concede il lusso di sognare; e se da un incubo ci si può risvegliare (sovente con un bagno di sudore e, alla bisogna, tre dita di liquore), un sogno infranto non concede scampo, ce lo si porta indosso, finché non ci si scordi del fantasma che c’infestava i giorni e rischiarava le notti, di come si chiamasse, e di che cosa sia desiderare.

Chi l’ha detto, poi, che Relena ha sempre ragione? Da un paio d’anni, quasi tutti i giornali, i vecchi amici e i soliti nemici, i politicanti reticenti, e quella vocina che Heero sospetta sia la sua coscienza; lo diranno anche i libri di storia, in una manciata di decenni.

“Guardati, Yuy: da terrorista a naufrago in porto… Sei solo un vigliacco”, gli mormora la vocina nella testa; nel tono, l’inflessione e la cadenza, ha qualcosa di Duo, o dei richiami che echeggiano dal molo – nelle vocali ampie, le i pungenti, in quelle o profonde. Forse sono loro a farlo rinsavire.

Dalla stiva rimbomba un cazzo, Peppi’, fotti a muovere il culo!, in direzione dello scaricatore che – all’ombra d’una pila di bagagli, tra due carrelli e una colonna portante – ha appena messo in bocca una mezza sigaretta e già sta inspirando sulla fiamma. Peppi’, dunque, risponde con un Porco Dio, un Santa Madonna ed un Cristo Signore!, costruiti assieme in quella che Heero non capisce se sia una devozione o una bestemmia – del resto, non è affatto convinto che qui faccia alcuna differenza: su L2 smadonnano anche gli angeli ed i santi, per non parlar dei preti; le imprecazioni sono litanie, sacramenti; le ingiurie, preghiere cantate come salmi, struggenti, trionfanti come inni; e forse, in fondo, son tutti chierichetti, diaconi, celebranti, i facchini, i piloti, i meccanici, i piccoli mercanti e le passeggiatrici, i figli della guerra, tutti gli altri infelici, che dicono una messa e un vaffanculo al Padreterno, per ciò che non ha fatto e non avrebbe scuse manco se fosse morto.

Quassù, il cattolicesimo è un dato di costume, di folclore; è uno stendardo, un piatto nazionale, coi Sauerkraut e colla pastasciutta, o quella birra scura, densa come crema (che sa di erbe amare e cioccolata), che nelle sere livide, senz’altro da fare se non aspettare ed ignorare il dolore, prima di ripartire,  Duo si coccolava tra le mani, con tenerezza, con una devozione ch’è quasi fede e somiglia all’amore, bevendo lentamente per non lasciarla finire – porgendogli il bicchiere per fargliela assaggiare, sempre con un sorriso ed il sorso migliore.

Quassù, finanche la miseria ha il proprio splendore, la propria dignità, ed un buonsenso che è pragmatismo commisto al disincanto: niente è per niente; la pace è una conquista; e la libertà è fragile ed è cara, non è un regalo e neppure un favore.  La felicità, quassù, è un lusso che si ruba e che si spezza, un pane della messa, da afferrare e spartire quando nessun altro sta a guardare, contorno ai sacrifici ed all’agnello pasquale, ai debiti e  agli oltraggi che non si potrà mai restituire.

Quassù, si ricostruisce al risparmio, badando all’essenziale: gli astri sono luci fulminate, contro un firmamento di metallo, rattoppato alla meglio coi resti della guerra e dell’assedio mischiati a qualche altro rimasuglio (il tutto è quasi bello); ed i lampioni accesi per le strade vanno a intermittenza, funzionano abbastanza per lasciare vedere a sufficienza.

Heero, dunque, s’incammina puntando in una sola direzione. Peppino lo indirizza dopo neanche una mezza domanda: c’è un chiostro di caffè all’angolo del corso principale ed è assolutamente da evitare; e un autobus che passa sì e no ogni altra ora, se la giornata è buona o se Marte e Plutone sono in congiunzione (ma uno dei due autisti stabilisce a caso il tragitto che gli pare); si prende un taxi nei porti di L2 soltanto per scoprire che, sorprendentemente, si ha qualcosa da perdere o da farsi rubare; a passo spedito, di qui a quell’indirizzo sono cinquanta minuti, contando pure il tempo per fumare.

Heero non cammina: Heero marcia. E passa strade ampie che si fanno più strette, tra fila di edifici in pura architettura coloniale – spartana, inelegante, funzionale – rallegrati però da sprazzi di ferraglia e di colore; e chiazze sparse d’erba finta, scolorita, che nessuno s’è dato premura né di rimuovere né di rimpiazzare; poi, crocchi di marmocchi che si rincorrono e giocano alla buona, con quello che capita e il poco che si trova, regine, gran dottori, cavalieri, in calzoncini e gilet rattoppati ma puliti e stirati; ed agli incroci, cartelli bianchi e neri, che annunciavano un tempo nomi  altisonanti (di nobiluomini, politici, personaggi importanti) adesso cancellati con un tratto di sbieco a penna rossa, corretti dunque in segni di speranza o ideologia (Via Gandhi, Via dell’Armistizio, Piazzale della Pace, Slargo Socialismo; Vicolo Yuy; Viale Libertà; Corso degli Innocenti…),  a mano libera e con pennarelli variopinti. Le turbine invecchiate ronfano un concerto  in sottofondo; e il rombo del motore che fa girare questo piccolo mondo in senso inverso a tutto l’universo, riverbera nel ferro dalle profondità della colonia, fino a far tremare il pavimento, vibrare  le pareti, su fino ai soffitti, per perdersi in un brivido lungo la curva del cielo; gli fa compagnia e gli scandisce il passo.

In meno di mezz’ora è ad una porta chiusa; neanche una finestra è illuminata. Per trenta secondi, Heero è persuaso di essersi perso, d’essersi sbagliato, svoltando a destra invece che a sinistra tra Viale Speranza e Corso dei Defunti – o forse sarebbe dovuto andare fino in fondo. Ma il posto giusto è senza dubbio questo; Heero l’avrebbe saputo anche s’avesse ignorato l’indirizzo: la ferraglia, in pile, ammonticchiata intorno, è effimera ed è vuota, mostruosamente fragile e consunta; ma all’occhio esperto del saldatore e dell’ingegnere, al genio dell’artista, è un’intuizione ovvia il come ripararla, il puro potenziale di quello che potrebbe diventare.

Heero è a sua volta un avanzo di gundanium, un’arma dismessa che nessun altro saprebbe convertire in qualcosa di più o meno nuovo e funzionale, che possa servire – un amico; un amante; un bambino vero, di anima e di carne, in grado un giorno d’essere felice, di diventare grande. Sarebbe, invero, dunque qui il suo posto: ad aspettare, cogli altri pezzi d’acciaio e di titanio, tra i fili di zinco aggrovigliati con quelli di rame, che Duo ritorni, tra cinque minuti, forse venti, oppure tra trent’anni.

Invece, sfila dallo zaino il maglione ed il biglietto che gl’ha lasciato Relena – l’uno lo mette addosso, l’altro in tasca, accanto alla cartolina –, e s’incammina ad esplorare le viuzze anguste ma diritte del quartiere, seguendo le orme dei randagi che, tra tutte le colonie, soltanto su L2, in  quasi duecent’anni, sono riusciti a proliferare. Passeggia assieme a loro, pigramente; osserva l’ondeggiare delle code dei gatti sull’unico scalino di Santa Sofia, di fronte alla facciata principale; e non bada alla gente, finché non lo scorge, come un miraggio, od un’epifania in una luce al neon che non perdona: incorniciato dalla vetrina del droghiere locale – che, a detta dell’insegna, è anche l’osteria, il barbiere, e l’ufficio postale – chino sul bancone, parla con vecchio baffuto, animatamente, sventolando un boccale.

Il nero, addosso a Duo, è il colore più allegro, più brillante – ma mai splendente quanto il suo sorriso un momento dopo, quando, voltatosi, anche lui lo vede.

 

   
 
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