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Autore: Adeia Di Elferas    19/01/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gian Giacomo da Trivulzio era molto più nervoso di quanto non volesse essere. Il suo governo, a Milano, si stava dimostrando estremamente più insidioso di quel che aveva pensato all'inizio, e, per quanto capisse che la sua non era incapacità, ma solo una difficoltà oggettiva, che avrebbe avuto chiunque, si sentiva uno straccio.

Era alla piazza del macello da quasi due ore e ancora non era riuscito a cavar nulla. Avrebbe almeno voluto avere Troilo al suo fianco, ma l'uomo, giustamente, era rimasto al palazzo di Porta Giovia per ultimare gli ultimi preparativi per il loro viaggio a Piacenza. Avevano ricevuto ordine di recarsi là il prima possibile per imporre anche in Emilia le nuove tasse decise dal re di Francia. Ci sarebbe di certo voluto almeno un giorno intero di viaggio, ma era una cosa che secondo Luigi XII andava fatta prima che la Romagna cadesse in mano loro, in modo da rafforzare il giogo sull'intera regione.

'Come farò a farmi rispettare dai piacentini – si stava però chiedendo Gian Giacomo – se non riesco a farmi ascoltare nemmeno dai milanesi, con cui condivido i natali?'.

Tirando appena le redini del suo cavallo, l'uomo guardò ancora una volta la folla che si agitava davanti a lui e poi, deciso a rompere gli indugi una volta per tutte e ristabilire l'ordine, smontò di sella e sguainò la spada.

“Voi due!” gridò, indicando i due macellai che avevano sobillato tutti gli altri.

Sentendosi chiamati in causa, i due uomini si guardarono, un po' spaventati, e, per la prima volta quella mattina, si videro abbandonare dal resto dei presenti.

Vista la spada che luccicava sotto il sole cupo di fine novembre, quelli che si erano accalcati attorno al Trivulzio sembravano aver fatto tutti assieme un subitaneo passo indietro. Solo i due macellai erano rimasti là dov'erano, finendo a trovarsi alla completa mercé del Governatore di Milano.

“Voi vi siete rifiutati di pagare i giusti dazi che il vostro re ha imposto, e dunque dovete pagare con il sangue la grave offesa che avete arrecato a Sua Maestà Luigi!” decretò, forse troppo frettolosamente, Gian Giacomo.

La verità era che aveva freddo, gli faceva male la schiena e al solo pensiero di dover partire presto per Piacenza, sentiva montare anche la nausea. Non aveva alcuna intenzione di perdere tempo con due zoticoni che si credevano capaci di guidare una rivoluzione. E, allora stesso tempo, non aveva alcuna voglia di farsi mettere in discussione al punto da dover istruire un processo per poterli punire.

Quando si trovò sufficientemente vicino ai due macellai, sollevò la spada, senza dire più nulla e, con un colpo che di norma usava solo in battaglia, decapitò in un soffio il primo e poi trapassò il secondo nel centro del ventre, avendo ben cura di rigirare la lama abbastanza a fondo da ucciderlo immediatamente.

Il sangue che era schizzato dal collo reciso dell'uno e quello che era sgorgato copioso e lento come un'onda inesorabile, dall'addome dell'altro, fecero allontanare ancora di più quelli che erano accorsi in piazza, credendo di poter davvero rovesciare il governo dei francesi.

“Quante storie per un po' di sangue...” borbottò Gian Giacomo, sentendo qualcuno gridare e un paio di donne piangere: “In fondo siamo davanti a un macello. Vi credevo meno delicati, signori...”

E poi, fecendo un cenno ai suoi, affinché recuperassero i corpi per impedire alla folla di farne dei simboli, rimontò in sella e si pulì vistosamente la spada con il mantello.

“D'ora in avanti – gridò, alzando la voce più che si poteva, per far sì che nessuno potesse dire di non averlo sentito – chiunque contravverrà la legge, dovrà vedersela con me! I processi non si addicono ai traditori!”

 

Quella mattina, e anche per buona parte del pomeriggio, malgrado la nebbia fitta e fredda, Caterina era stata tutto il tempo ad addestrarsi assieme ai soldati.

Da un lato, voleva vedere coi propri occhi come combattevano, per essere certa che i francesi, benché favoriti sulla carta, facessero molta più fatica del previsto a prendere Forlì. Dall'altro, invece, aveva sfruttato quell'occasione per scaricare un po' di tensione e riprendere confidenza con l'armatura.

Quella notte passata insonne, accanto a un frate che conosceva appena, le aveva messo addosso un'irrequietudine particolare. Menar le mani e tirar di spada le erano sembrate le soluzioni meno pericolose a cui ricorrere, per stemperare l'angoscia crescente che le rodeva l'anima.

Si era, infatti, trattato di una lunga sessione d'allenamento molto seria. Le reclute o i soldati troppo giovani, non erano stati ammessi al cortile, se non come spettatori. Con suo grande scorno, anche Galeazzo aveva dovuto accettare quella disposizione, e si era così visto relegare alla sbarra dei cavalli, investito della poco altisonante carica di 'osservatore speciale'. La madre, infatti, gli aveva chiesto di passare al vaglio tutti gli armigeri, per poi riferire a lei quali fossero più meritevoli.

Il Riario sapeva bene che la Tigre non aveva bisogno del suo parere, per capire quali fossero i soldati migliori, ma aveva accettato comunque, solo per dimostrarsi un figlio obbediente.

Tra i più abili, sia secondo il ragazzino, sia secondo la Tigre, risultarono esserci Baccino da Cremona, Scipione Riario, Francesco, fratellastro della Tigre, Filippo Codiferro e Battista di Maso Zughe.

Caterina aveva trovato molto stancante tenere addosso l'armatura per quasi tutto il giorno, ma sapeva che era necessario riabituare il corpo a quel genere di sforzo. Presto sarebbero stati messi sotto assedio, ne era certa, e non aveva alcuna intenzione di restare con le mani in mano. Sia per il sangue che le scorreva nelle vene, sia per il nome che negli anni si era fatta, doveva mettersi alla guida del suo esercito e scendere in campo in prima persona. Se non avesse fatto così, sarebbe stato tutto quanto vano.

Quando si era fatto buio, un po' ammaccata e con un forte mal di schiena, la Sforza aveva deciso di ritirarsi, comandando anche la fine dell'addestramento. Gli uomini della rocca erano tornati alle loro consuete occupazioni, i figli della Contessa – Ottaviano compreso – che avevano assistito a buona parte dell'allenamento, si erano ritirati e alla donna non era rimasto altro da fare se non chiedere ad Argentina di prepararle un bagno e aspettare che venisse l'ora di cena, sperando, nel frattempo, di non ricevere altre brutte notizie dal fronte di guerra.

“So che sarà più facile nascondere i gioielli grandi nell'abito di mia figlia, ma si deve trovare un modo per metterne qualcuno addosso anche agli altri...” stava spiegando alla domestica, mentre questa le passava un pezzo di sapone: “Avevo pensato anche di nascondere i documenti di Giovannino nella copertina del mio ricettario, ma è meglio che Bianca li possa recuperare con maggior facilità, quindi glieli farò solo infilare tra le pagine...”

Argentina annuiva, contenta che la sua signora si fidasse di lei al punto di rivelarle i suoi piani. In effetti, la richiesta che le aveva fatto all'inizio, ovvero se fosse in grado di nascondere dei gioielli all'interno di un abito, l'aveva sconcertata. Solo quando la Leonessa le aveva spiegato che i suoi figli sarebbero andati via da Forlì da soli e che, quindi, avrebbero avuto bisogno di portare con loro quei preziosi, ma senza che fossero visibili, aveva capito.

Non era facile, immaginava, imbastire un abito con anelli, collane e orecchini, ma aveva accettato quel compito, ben decisa a portarlo a termine nel miglior modo possibile.

“Ascolta...” la Sforza si accigliò un momento e poi, notando i segni lasciati da un colpo troppo forte sul braccio, scosse appena il capo e proseguì: “Vai un momento nel mio laboratorio e prendi quell'olio che ti avevo fatto vedere, quello per far riassorbire gli ematomi...”

Argentina chinò appena il capo e, servile ed efficiente, andò alla porta. Aprì e la richiuse molto rapidamente, per evitare che qualcuna delle persone che affollavano il corridoio potesse sbirciare la sua signora immersa nella tinozza da bagno.

La domestica ormai era abbastanza pratica del laboratorio della sua signora. Ultimamente la Contessa aveva avuto poco tempo da dedicare ai suoi esperimenti, ma, con tutti i soldati che affollavano Ravaldino, ogni giorno sembrava servire qualche rimedio per i più disparati bisogni. Per non essere costretta a cercare lei stessa nella propria santabarbara, la Tigre aveva spiegato attentamente ad Argentina l'organizzazione del suo piccolo arsenale, dandole formalmente il permesso di recarsi nella sua spelonca da strega anche senza di lei.

La donna perciò sapeva dove mettere le mani, quando giunse nel laboratorio. Recuperò subito la boccetta che conteneva l'olio indicato dalla Sforza e poi tornò veloce sui suoi passi.

Stava quasi raggiungendo il corridoio su cui si affacciava la camera della sua signora, quando sentì qualcuno afferrarla per un braccio, con tanta forza da rischiare di farle scivolare di mano il bottiglino per lo spavento.

“Lei dov'è?” la voce di Giovanni da Casale era bassa, senza traccia di minaccia, ma alle orecchie di Argentina suonò come un ringhio sommesso.

Deglutendo, finse di non aver capito: “Chi state cercando, messer Pirovano?”

L'uomo inclinò di lato la testa e poi, rifiutandosi di credere al suo tono sorpreso, ripeté: “Lei dov'è?”

Era nervoso e non aveva alcuna voglia di perdere tempo in giochetti insulsi. Quello che doveva riferire alla sua amante, lo sapeva, l'avrebbe solo fatta star male e quindi voleva occuparsene il prima possibile, in modo, poi, da poterla consolare, se necessario.

Quando si era offerto per andare a cercarla l'aveva fatto quasi a cuor leggero, desideroso solo di sfruttare quell'occasione per passare un po' di tempo con lei. Poi, però, già mentre entrava alla rocca e cominciava a formulare nella mente qualche frase per introdurre l'argomento, si era pentito di essersi preso quell'impegno. Di per sé, le notizie che portava non erano catastrofiche, ma sapeva che la Leonessa era molto suscettibile a quello che capitava a Milano e iniziava a temere di vederla crollare davanti ai suoi occhi.

Caterina gli dava sicurezza, malgrado tutto, e tutte le volte in cui gli era capitato di vederla in difficoltà, per lui era stato terribile, sia perché detestava vedere la donna che amava soffrire e non poter far nulla per lenire il suo dolore, sia perché, venendo meno la sua sicurezza, veniva meno un appiglio che per lui era fondamentale.

“La mia signora si sta facendo un bagno in camera sua e non desidera essere disturbata.” rispose alla fine Argentina, dato che l'uomo non accennava a lasciare la presa.

“E ci voleva tanto?” sbuffò lui, lasciandola: “E quello che cos'è?” aggiunse, indicando il boccettino che la domestica stringeva al petto.

Titubante, la donna ci pensò sopra un istante, e poi si disse che, tanto, non sarebbe riuscita a fermare Pirovano e che, alla fine, la Contessa stessa le avrebbe chiesto di lasciarli soli. Perciò, deglutendo, spiegò a cosa servisse quell'olio e poi lo consegnò a Giovanni.

“Portateglielo voi.” lo incoraggiò.

Il milanese prese il bottiglino e poi, senza aggiungere altro, si diresse verso la stanza della sua amante.

Aprì la porta silenziosamente e, richiudendola in fretta, si rese conto di aver fatto bene a usare quell'accorgimento. Caterina era nella tinozza per il bagno, immersa fino alle spalle, la testa appoggiata al bordo di legno, con un telo ripiegato a farle da cuscino. Era evidente che stesse dormendo.

Pirovano sapeva che aveva tirato di spada pressoché tutto il giorno, quindi era comprensibile che fosse stanca. Non voleva disturbarla, perciò si disse che l'avrebbe svegliata solo quando l'acqua non fosse stata più calda. Controllò la temperatura con la punta di un dito e si disse che poteva lasciarla tranquilla ancora per un po'.

Appoggiò l'olio sulla scrivania e poi, intrigato da quella situazione più unica che rara, si mise a fissarla. Anche se dormiva abbastanza profondamente, il suo viso non era disteso. Sulla sua fronte si inseguivano piccole rughe che cambiavano direzione ogni volta in cui una breve smorfia le corrucciava il viso, probabilmente seguendo il filo di qualche incubo contorto.

I suoi capelli erano bagnati e, arrivati al pelo dell'acqua, si spandevano come meduse sospese nel liquido pregno di olii profumati ed estratti di erbe. La pelle chiarissima delle sue spalle si intravedeva appena, così come il resto del suo corpo.

A vederla così, pareva anche più giovane. Assomigliava a una statua cangiante, con il petto che si sollevava appena, ritmico, al passo dei suoi respiri.

Giovanni fece un sospiro e, sollevando un sopracciglio, si chiese come potesse una donna all'apparenza tanto delicata e silenziosa trasformarsi nella belva che la Tigre aveva dimostrato di essere.

Non volendo darsi risposte, l'uomo cominciò a guardarsi attorno, soffermandosi di quando in quando sui dettagli di quella camera dove lui stesso aveva vissuto per un po'. C'erano ancora dei libri che sapeva essere stati di Giovanni Medici. C'era anche una cassapanca che conteneva i suoi abiti. Perfino un plico di pagine manoscritte, tenuto gelosamente sulla scrivania, ricordava che lì, fino a pochi mesi prima, il padrone era stato il fiorentino. In un certo senso, quegli oggetti non facevano che ricordare a Pirovano che lui era solo un ospite di passaggio, e nulla più.

Mentre lasciava gli occhi liberi di vagare, la sua attenzione venne catturata da qualcosa che giaceva immota accanto al letto, vicino all'inginocchiatoio. Muovendosi piano, per non svegliare la Sforza, vi si avvicinò. Si chinò e quello che raccolse lo stupì. Si trattava, almeno così gli pareva, di un paramento sacro, una di quelle stole che i preti si mettevano sulle spalle quando confessavano la gente.

Dalla tinozza arrivò una serie di parole disarticolate, tra le quali Giovanni riconobbe nettamente il nome di Ludovico Marcobelli, e lo sciabordio dell'acqua smossa da dei movimenti agitati.

Caterina si era risvegliata, come suo solito, in modo agitato e, per qualche istante, fece fatica a orientarsi. Voltò la testa verso di lui, accigliandosi nel vederlo, e poi, come ricordandosi all'improvviso di essere a mollo, smise di muoversi per non rovesciare altra acqua.

“Che ci fai qui?” gli chiese, passandosi una mano sul volto, sperando così di togliersi di mente le orribili immagini dell'incubo che l'aveva svegliata.

“Cos'è questa?” domandò di rimando Pirovano, mostrandole la stola.

La Contessa si morse il labbro, riconoscendo immediatamente il paramento di Vangelista Monsignani e ricordandosi di come lei stessa gliel'avesse strappato dalle spalle la sera prima. Se l'era dimenticato, quando quella mattina se n'era andato...

Volendo vedere se la scusa che aveva imbastito funzionava – così da inventarsi qualcos'altro in futuro, se non avesse retto – la Tigre si schiarì la voce e rispose: “Di un frate.”

“Quale frate?” la domanda era scivolata fuori dalle labbra del milanese come la stessa velocità di una freccia scagliata contro un nemico da abbattere.

Non volendo insospettirlo con delle reticenze, la Leonessa rispose: “Vangelista Monsignani, figlio di Marcolino.”

“Come mai è qui?” Giovanni da Casale fissava alternativamente lei, la stola e il letto ancora sfatto, come a voler suggerire qualcosa che non aveva il coraggio di dire apertamente.

La donna maledisse la confusione che vigeva in quei giorni a Ravaldino e la conseguente poca attenzione di Argentina, che si era dimenticata, quella mattina, di rassettarle la stanza. Se l'avesse fatto, non solo il letto sarebbe stato in ordine, rendendo meno immediato il collegamento mentale fatto dal suo amante, ma in più la serva avrebbe trovato la stola e gliel'avrebbe consegnata, così Giovanni non l'avrebbe nemmeno vista.

“Era venuto qui per confessarmi, poi deve essersi scordato di recuperare quell'affare...” tagliò corto Caterina, muovendosi un po' nell'acqua, fingendo di voler finire il suo bagno in santa pace.

“Pensi che io ci creda?” la voce di Pirovano si era fatta un po' più acuta, a testimoniare il suo orgoglio doppiamente ferito, da un lato dal tradimento e dall'altro dalla bugia della sua donna.

“Non vado a letto coi frati.” rispose lei, secca.

“Ma...” provò a ribattere l'uomo.

“Monsignani è un frate!” ribadì la Contessa, cercando di giocarsi tutto su quel punto.

“Appunto, è un frate, mica un eunuco!” ribatté con rabbia Pirovano, buttando in terra la stola.

“Sei solo un bambino, quando fai così.” lo spense Caterina, senza più alzare la voce, provando a fingersi incredula dinnanzi ai suoi dubbi.

Non era tanto il volergli nascondere quello che era successo a spingerla a mentire, quanto la volontà di tenersi almeno quel segreto. Non voleva che si sapesse che tra i suoi amanti figurava anche un religioso. Se i papi potevano anche avere dei figli, a lei, che era una donna di potere e in guerra con un pontefice, non sarebbe stato perdonato un simile errore.

In effetti, dopo quell'ultima esternazione, seppur ancora un po' perplesso, Giovanni sembrava essersi convinto della sua sincerità. La guardava ancora di sottecchi, ma non disse più nulla.

“Come mai sei qui? Dovresti essere alla cittadella adesso...” fece la Leonessa, smorzando definitivamente l'argomento: “Prendimi il telo per asciugarmi...” aggiunse, indicandoglielo con un cenno del capo.

L'uomo, ancora un po' interdetto, fece come gli era stato chiesto, e poi rispose: “Ci sono delle notizie da Milano.”

Mentre usciva dalla tinozza e si lasciava avvolgere dall'ampio telo di lino, la Tigre spalancò gli occhi e chiese: “Cosa importanti? È il caso di indire un Consiglio di Guerra?”

“No, no...” mise le mani avanti lui, con un sospiro: “Nulla di troppo grave, non in confronto a quello che è successo finora...”

Impaziente di sentire quali fossero, queste novità, la Sforza si sedette sul letto e poi, già dimentica dell'ematoma sul braccio e dell'olio che si era fatta andare a prendere, lo incitò: “Avanti, parla.”

“Ecco, ho preferito venire io a parlartene, perché ho pensato che potesse infastidirti, così ho creduto fosse meglio non avere testimoni...” la reticenza dell'amante stava facendo impazzire la Leonessa, che, con un gesto, lo invitò a proseguire.

Così, annuendo appena, il milanese proseguì: “Il modello in creta del monumento equestre che ritraeva il Duca Francesco, quello che il maestro Leonardo aveva preparato...”

Caterina tese l'orecchio. Aveva sentito parlare di quel colossale cavallo che l'artista toscano stava preparando e, benché lontana, anche lei si era sentita felice di pensare che suo nonno sarebbe stato omaggiato con una statua dalla grandezza ineguagliabile.

“Ecco, sembra che il modello sia stato usato dai soldati francesi come bersaglio per esercitarsi con le balestre e la piccola artiglieria, e che l'abbiano mandato in frantumi.” spiegò lui, stringendosi una mano nell'altra: “Probabilmente hanno scelto quel modello per caso e...”

“Per caso?!” sbottò lei, alzandosi in piedi, già schiumante di rabbia: “Se credi davvero che sia stato solo un caso, allora sei più stupido di quanto credessi! A quelli non basta conquistarci, ammazzarci e umiliarci! Vogliono cancellarci! Vogliono che non resti nulla di noi Sforza! Nulla! Non solo il sangue, ma nemmeno un cavallo di creta!”

Pirovano non diceva nulla. La sua amante si spostava avanti e indietro per la stanza, avvolta solo dal telo, ormai bagnato, imprecando a voce alta e appioppando al papa e al re di Francia tutti i titoli onorifici più volgari che potessero esistere. Quando parlava a quel modo, Giovanni si chiedeva sempre come facessero a convivere in lei quell'anima così scurrile e quella che, invece, amava i poeti latini e sapeva recitare a memoria interi brani delle opere classiche.

“Ho bisogno di restare sola.” disse alla fine la Tigre, cogliendo alla sprovvista il milanese, che, invece, si era illuso di poter essere egli stesso il sollievo ai tormenti della donna: “Vattene, non ho voglia di avere intorno nessuno...”

Freddato da quelle parole, l'uomo schiuse appena le labbra, e poi, cogliendo l'occasione per dire qualcosa, raccolse di nuovo la stola e chiese: “E questa...”

“Portala al frate.” ribatté subito lei.

Giovanni, in cui il dubbio ancora non si era sopito, preferiva non trovarsi davanti un uomo che forse aveva passato la notte con Caterina. Così, scuotendo il capo, lasciò cadere ancora una volta il paramento in terra e sporse in fuori il mento.

“Chiedi alla tua serva di farlo, io non sono un domestico.” mise in chiaro: “Ah, e lì c'è l'olio che ti serviva.” concluse, per poi andarsene, senza aggiungere altro.

La donna rimase qualche minuto immobile, quando fu sola. Avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di poter scappare nei boschi, ma ormai non le era più permesso. Così, forzandosi a mantenere il controllo, si avvicinò alla scrivania. Prese la bottiglietta di olio e lo usò per massaggiarsi un po' l'ematoma che aveva sul braccio. Passò in rassegna il proprio corpo, e ne trovò altri due, uno memoria di una caduta e l'altro di un colpo di piatto che aveva preso all'inizio dell'allenamento. Ora che ci pensava, si ricordava anche chi gliel'aveva assestato: Baccino. Quel giorno il cremonese aveva duellato con lei spesso, ma, a differenza delle altre volte in cui l'aveva sfidata, nel suo modo di colpirla e incalzarla c'era una rabbia che la Leonessa non aveva mai scorto in lui, prima.

Con diligenza, si prese cura di sé e poi, imponendosi di non pensare più né a Monsignani, né a Pirovano, né a Baccino, tanto meno al cavallo di creta distrutto dai francesi, si vestì e lasciò la stanza per andare a mangiare qualcosa.

 

Quel primo giorno di dicembre stava portando con sé una nebbia fredda e spessa, tanto ostinata che Cesare non ricordava di averne viste di eguali in vita sua, e, soprattutto, mai a Roma.

Mentre si aggirava per il campo con addosso i suoi abiti più pesanti, in attesa di veder tornare Achille Tiberti con i soldi, faceva fatica a vedere in quella terra una preda ambita. Gli sembrava solo un ammasso di ghiaccio, fango e gentaglia. A Imola, insomma, non aveva trovato nulla che lo attraesse. Perfino le donne non lo interessavano, men che meno i ragazzini. Quando aveva voluto qualcuno con cui passare la notte, si era ridotto a sceglierlo tra i componenti del seguito del suo esercito.

Dalla rocca, Naldi continuava a bombardare a intervalli, diroccando una città che sembrava già un mezzo cimitero. La gente voleva scappare, ma non poteva perché i francesi bloccavano il passaggio, tuttavia non voleva nemmeno rimanere troppo vicino alle bocche da fuoco sedicenti amiche, e così si schiacciava tutta tra le mura e il campo nemico.

Ufficialmente la popolazione si era arresa, ma di fatto la città non poteva ancora dirsi presa, non finché non crollava la rocca.

Il Borja aspettava di avere abbastanza fondi per aizzare i soldati e procedere con l'attacco al punto debole delle mura della fortificazione, ma finché Tiberti non tornava, sembrava tutto immobile e il Valentino aveva sentito più di un uomo sostenere che stessero fermi solo perché proprio lui non aveva idea di che fare.

Se fosse dipeso solo dal suo volere, avrebbe fatto impiccare tutti quelli che osavano tacciarlo di incapacità... Ma sarebbe rimasto con un esercito risibile, perché avrebbe dovuto giustiziare quasi tutti i suoi effettivi.

Verso mezzogiorno, preso da un profondo sconforto, decise di giocarsi un'altra carta. Gli Este si erano dichiarati favorevoli alla campagna, ma di fatto, un po' come i Bentivoglio, avevano fatto orecchie da mercante, quando c'era stato bisogno del loro aiuto.

Il Borja mandò Michelotto a chiamare il suo Conestabile, Francesco de Guelva, e gli spiegò che avrebbe dovuto partire immediatamente per Ferrara. Gli parlò a lungo di cosa avrebbe dovuto chiedere a Ercole Este, e poi lo pregò di prepararsi al viaggio, mentre lui scriveva la sua lettera di accompagnamento.

Messosi al tavolino da campo, nel suo freddo padiglione, il Duca di Valentinois intinse la punta della penna nell'inchiostro e poi scrisse: 'Illustrissime Princeps et Excellentissime Domine tamquam pater honorandissime Comendatione etc.'.

Rilesse un secondo, chiedendosi se avesse esagerato. Forse era così, ma d'altro canto aveva imparato da tempo che, quando si dava un ordine a qualcuno che si crede un Dio in terra, l'unico modo per farsi ubbidire, era blandirlo e far passare il tutto non come un'imposizione, ma come una preghiera.

'Non resto continuare in quella sicurtà che de se me ha facta la Illustrissima Signoria Vostra non solamente in aver facta tanta commodita et honorij ad me et alli mej, ma ancho in haver tolerate queste genti Regie per le quali imposto me ha obligatione perpetua.' proseguì, soddisfatto del modo in cui in poche riga era stato capace di prendere le distanze dai francesi, lasciando a loro tutte le colpe dei disagi procurati ai ferraresi durante il loro passaggio: 'Et pero pregola quanto maiormente posso che al exhibitor de questa Francesco de Guelva mio Conestabile faccia dare qualunque necessario favore et adsistentia ad effecto de certe provisioni de quali adcademe bisogno per oppugnatione di questa Rocha la quale spero omninamente havere presto expugnata: et ad quella mi Recomando.'.

Con un sorrisetto rabbioso, Cesare si disse che, se l'Este voleva capire, avrebbe capito benissimo che quello era un ordine molto chiaro: doveva dare tutto, ma proprio tutto quello che Guelva gli avrebbe chiesto. Altrimenti, semplicemente, sarebbe stato chiaro a tutti che Ferrara e gli Este avevano voltato le spalle non solo a lui, ma anche al papa e alla cristianità, schierandosi con la 'figlia dell'iniquità', come ormai il pontefice chiamava sempre la Sforza.

'Imole.' aggiunse in fondo: 'Primo Decembris MccccLxxxxviiij. Vestre dominationis uti filius, Cesar Borgia de Francia, Dux Valentiniensis etc. ac Regius Locumenens Generalis.'.

Chiudendo la sfilza delle sue cariche con un breve svolazzo, il Borja sospirò e attese che l'inchiostrò asciugasse. Poi, chiuse la missiva, la sigillò e lasciò la tenda, per consegnare la lettera a Francesco.

Quando gliela porse, soffiò: “E ora vediamo da che parte sta davvero, il vecchio Tramontana.”

 
   
 
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