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Autore: Saelde_und_Ehre    20/01/2020    7 recensioni
Fronte Orientale, inverno 1942.
L'esercito tedesco è intrappolato nell'inferno ghiacciato di Stalingrado, accerchiato e ridotto alla fame, mentre il gelo miete più vittime dei proiettili.
Due ufficiali della Wehrmacht, provati da mille difficoltà ma per nulla intenzionati ad arrendersi, decidono di unire le loro forze per proseguire l'avanzata verso la città, ma tra loro si instaura un legame più forte della rovina incombente.
Una storia d'amore, di guerra e di morte.
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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II.
 
Schwerin rivolge un ultimo sguardo ai suoi ufficiali e si lascia guidare dal collega: il maggiore Richter sembra conoscere le trincee meglio di chi le ha scavate e si orienta in quel labirinto come se avesse una mappa stampata nella memoria. Procede sicuro, con passo marziale e portamento eretto, ogni tanto ricambiando i saluti dei capisquadra che spronano le truppe con parole aspre. Ha le spalle di un Atlante e il polso fermo; dà l’idea di essere uno di quegli uomini capaci di ergersi mentre la tempesta sferza ogni cosa.
Vicino a una postazione d’artiglieria campale, ben nascosta dietro un ridotto, un maresciallo sta redarguendo i serventi di un mortaio da trincea.
“Che cosa sta succedendo qui, Baumgartner?” tuona il maggiore.
“Con il dovuto rispetto: giudichi lei, signore. Questi imbecilli...”
Schwerin si mantiene in disparte mentre Richter avanza di qualche passo, con implacabile calma. I soldati, che fino a poco prima vociavano e sembravano sul punto di arrivare alle mani, si separano e si irrigidiscono sull’attenti. Uno di essi china il capo con aria mortificata e si scusa a nome di tutti.
L’ufficiale ordina il riposo con un gesto sommario. “Tornate ai vostri posti. Non una parola di più.”
Quelli non se lo lasciano ripetere due volte.
Richter rivolge al collega uno sguardo penetrante, quindi scuote la testa e passa oltre, come se nulla fosse successo. Ancora una volta, Schwerin si limita a seguirlo, il fucile in spalla e gli stivali che affondano nella neve lorda di fango, mentre in lontananza si odono gli echi onnipresenti della battaglia.
Arrivano a una postazione operativa, una specie di pergola fatta di tronchi e paglia che ospita una radio da campo, una macchina da scrivere, delle cassette di munizioni e un tavolino sbilenco su cui è stata spiegata una mappa del fronte. L’unica fonte d’illuminazione è una lampadina dalla luce tremolante.
I due ufficiali si avvicinano e prendono posto ai due lati del tavolo. “Questo è il punto con più alta concentrazione di truppe sovietiche,” inizia il maggiore Richter. “Faranno di tutto per ricacciarci al di là del Don, ma noi dobbiamo proseguire l’avanzata.”
Schwerin si china a sua volta sulla mappa, sulla quale sono tracciati vari simboli: un guanto d’arme, lì nel punto in cui è concentrato il grosso delle loro forze, simboleggia la divisione Eisenfaust. Gli altri reparti sono indicati da sigle o numeri romani e varie frecce segnano l’avanzata di ciascuno. “Ho parlato con Bühler e Bentheim della Ostpreußen, intendono attaccare i russi da nord mentre questi sono concentrati a respingere le truppe che tentano di oltrepassare il fiume”, spiega. “So che anche loro hanno subito pesanti perdite, a combattere la guerra dei topi casa per casa.”
L’altro annuisce. “E a sud ci sono i reparti della Großdeutschland, stando agli ultimi rapporti.”
“Precisamente.”
Con la penna, Richter indica una croce di ferro tracciata sulla mappa, poco più a nord di Stalingrado. “Quindi, se noi cerchiamo di sfondare lo schieramento sovietico con un attacco frontale, possiamo contare sull’appoggio della Ostpreußen.”
“Era proprio quello che intendevo. Adesso che siamo qui, ci conviene unire le nostre forze.” Schwerin alza la testa con disinvoltura, fino a incontrare gli occhi dell’altro. “Manca poco prima che il gelo blocchi le colonne di rifornimenti: dobbiamo agire al più presto.”
Richter rimane a guardarlo per qualche secondo di più, comunicandogli senza bisogno di spiegazioni che anche lui aveva pensato la stessa cosa. Il suo sguardo sembra rischiararsi appena, ma la sua espressione resta seria. Si china di nuovo sulla mappa. “L’obiettivo sono queste fabbriche.” Accompagna le sue parole tracciandovi una X. “Quanti effettivi conta il suo reparto, Schwerin?”
“Poco più di quattro centinaia. Quando siamo partiti da Kharkov eravamo due battaglioni.”
“Neanche i miei arrivano a cinquecento, ed è tutto ciò che resta di un intero reggimento,” risponde l’altro in tono grave. “E i rossi là fuori sono almeno dieci volte tanti.”
Se rimaniamo bloccati qui, finiremo come gli Spartani alle Termopili. Mentre Schwerin formula quel pensiero, i loro sguardi s’incrociano di nuovo: molto probabilmente anche Richter ha pensato la stessa cosa – lo coglie dal guizzo metallico che attraversa le sue iridi – ma nessuno dei due osa esternarlo ad alta voce.
Finiscono di elaborare le ultime strategie d’attacco, e quasi si stupiscono della facilità con cui si trovano d’accordo sulla linea da adottare. Probabilmente nessuno dei due arriva ai trenta, ma hanno sulle spalle anni di battaglie campali che hanno forgiato la loro esperienza; si capiscono al volo e altrettanto rapidamente indovinano le intenzioni dell’altro.
Alla fine, Richter scribacchia su un foglietto alcuni appunti e chiama a gran voce il maresciallo Baumgartner, un tipo sulla quarantina col naso rubizzo da bevitore e gli occhi vispi. Gli porge il foglietto e gli ordina di andare a trasmettere le sue disposizioni.
Il sottufficiale vi dà una rapida scorsa, quindi annuisce con vigore. “Sissignore, può contare su di me, signore. Vedrà che quei cani rognosi li rispediremo nel paradiso dei lavoratori a calci nel culo!” Subito dopo si accorge del maggiore Schwerin e fa un passo indietro; le sue guance diventano ancora più rosse. “Chiedo scusa, Herr Major.”
Richter gli dà un colpetto sulla spalla. “Conto su di lei, maresciallo. Faccia in fretta!”
Baumgartner prontamente scatta sull’attenti, batte i tacchi e si congeda, mentre i due ufficiali si scambiano un rapido sguardo e scuotono la testa con indulgenza.
Quando escono fuori è buio pesto e i fuochi rischiarano l’oscurità, ma la battaglia continua a infuriare: in quella stagione, a quelle latitudini, il pomeriggio non esiste.
 
Richiamate all’ordine, le truppe corrono avanti e indietro coi fucili in spalla, affondano le ginocchia nella neve mentre i comandanti di plotone sbraitano ordini.
Una volta terminato di dare le proprie istruzioni, il maggiore Schwerin si avvicina alla prima linea dove i soldati lottano con le unghie e coi denti per difendere la postazione duramente conquistata. Fiocchi pigri hanno iniziato a volteggiare nell’aria, sciogliendosi a contatto col terreno bollente. Al di là della terra di nessuno, un ammasso di ruderi riemerge dallo sfondo come un relitto incagliato.
Guidati da quell’ineffabile necessità che unisce in tempo di guerra, i suoi uomini si sono mescolati a quelli di Richter e si comportano come se fossero un unico reparto, sostenendosi l’un l’altro o scontrandosi quando l’egoismo del singolo rischia di causare la rovina del gruppo.
Schwerin ha trascorso gli ultimi due anni della sua vita in prima linea, ma non riesce ancora a dare un nome a quel senso di solidarietà che s’instaura tra i soldati nei momenti di estremo pericolo. È qualcosa che può assumere le sfumature più disparate, dal Landser stanco che poggia il capo sulla spalla del commilitone facendo cozzare gli elmetti come due vecchie gamelle, al vecchio caporale che rimprovera rudemente il ragazzo che piange.
Si chiede se anche il collega abbia esperienza di episodi simili, ma è la presenza di Richter stesso a dargli la risposta: l’ufficiale raccoglie da terra una vanga da trincea e si tuffa nella mischia menando fendenti contro i russi in avvicinamento. Combatte col furore proprio degli antichi guerrieri, anteponendo la sicurezza dei suoi uomini alla propria. Sovrasta in altezza la maggior parte degli elmetti tedeschi, ma la sua figura scompare e ricompare mentre questi si stringono intorno a lui. Lo scontro dura soltanto una manciata di secondi: una recluta urla, le dita strette intorno a una manica inzuppata di sangue; altri soldati corrono a dare manforte al maggiore. Schwerin si avvicina con la pistola in pugno, pronto a fare di nuovo fuoco, ma i russi si sono già arresi.
“Richter!” Tutto bene? vorrebbe chiedergli, tuttavia si trattiene soltanto per non metterlo in imbarazzo davanti ai suoi sottoposti.
L’altro lascia cadere l’arma improvvisata, si volta e annuisce, tamponandosi coi guanti un rivolo scarlatto che gli scende dal sopracciglio. “Qualcuno accompagni il soldato Zimmer al posto di medicazione.”
Schwerin si offre volontario, porgendo il proprio braccio al ragazzo affinché vi si appoggi. Mentre si allontana, rivolge un ultimo sguardo al collega e non può fare a meno di pensare che i suoi uomini siano fortunati a poter contare su un comandante del genere.
 
 
L’artiglieria tuona in lontananza, facendo tremare le pareti del rifugio improvvisato. Casse di munizioni rovesciate e addossate contro il muro offrono altrettanti sedili per i soldati stanchi, che parlano a bassa voce o scambiano qualche facezia coi visi affondati nelle gamelle.
Dalla stanza adiacente si levano i lamenti dei feriti e dei malati in agonia, cui nulla può recare conforto.
I portaordini e gli ufficiali vanno e vengono trasmettendo messaggi, i soldati di guardia sono indistinte sagome scure che si aggirano tra le macerie.
Di tanto in tanto balzano in piedi, ridestati da un tuono improvviso. Chi dormiva abbracciato al fucile si trascina con sé le coperte, anche i feriti gravi strisciano e zoppicano per riprendere posizione. Nessuno viene risparmiato dalla furia dei combattimenti.
Schwerin non ricorda più da quanto tempo non dorme, né da quante notti lui e Richter condividono quella specie di magazzino, di cui non resta altro che un cratere dilaniato dalle bombe. Lì, giorno e notte si confondono – l’uno, troppo breve ed effimero per poter essere apprezzato appieno; l’altra interminabile, illuminata a giorno dai razzi di segnalazione e dai bagliori delle esplosioni.
Chiamato dalla voce del suo parigrado, alza la testa appena e se lo trova davanti. Richter tiene in mano due tazzine fumanti, stringendovi intorno le dita come per scaldarsi – o per preservare quel poco calore che rischia di stemperarsi in fretta. Gliene porge una con un gesto cameratesco ed egli la accetta in silenzio.
“Siamo completamente isolati.” Richter ha le labbra tirate e gli occhi spenti, fissi in un punto indefinito di fronte a sé. Per un attimo, le sue spalle sembrano incurvarsi sotto un peso insostenibile, ma lui cerca di opporvi tutta la propria forza. “Possiamo contare solo su noi stessi.”
Schwerin sospira, tuttavia non osa esprimere ad alta voce i propri pensieri. Rimangono in piedi, uno di fronte all’altro, a sorseggiare il caffè prima che si raffreddi.
 
 
Le trincee sono tutte uguali: fosse senza nome che ospitano uomini di carne pulsante, animati da ideali cui solo il flusso inesorabile della Storia potrà dare torto o ragione. Attraversando i camminamenti gremiti, il maggiore Schwerin si costringe a guardare in faccia ogni singolo soldato che incontra: vecchi, uomini maturi, suoi coetanei e ragazzetti imberbi, conosciuti e sconosciuti. Sono pallidi, emaciati, hanno le mani intorpidite e gli occhi lucidi; qualcuno di loro è ferito, ma si è rassegnato all’impossibilità di essere evacuato prima della fine della battaglia. “Questa guerra ci sta chiedendo più di quanto ciascuno di noi possa dare, ma è nel resistere alle avversità che si manifesta la vera forza degli uomini.” Nonostante il berretto calcato sul capo e il bavero del cappotto alzato fino al mento, dalle sue labbra escono piccole nuvolette di condensa che si disperdono nell’aria gelida. “Non credete ai predicatori che, dall’alto delle loro cattedre, cercano di indottrinarvi su giusto e sbagliato senza conoscere il prezzo del vostro sacrificio. Non credete a chi professa falsi ideali di libertà, dichiarando morte e sepolte le antiche virtù. Non date retta ai borghesi, che coi soldi credono di poter comprare la felicità.” Agli sguardi spauriti delle reclute e ai cipigli arcigni dei veterani, non può far altro che opporre la pacata risolutezza del suo contegno. Come di riflesso, sfiora con le punte delle dita le foglie di quercia della sua croce di cavaliere, come per trarre calore dal contatto col freddo metallo. “Ho condiviso con voi la gavetta, le trincee fangose e le notti all’addiaccio: so quello che provate perché l’ho provato io stesso sulla mia pelle. So quello che avete sofferto, perché ho sofferto, marciato e combattuto insieme a voi. Ma voglio spronarvi affinché non cadiate preda del dubbio, cedendo alla crudeltà e alla vigliaccheria. Voglio che restiate uniti, nel pensiero e nell’azione... e come ognuno di voi, spero di veder sorgere una nuova alba.”
Terminato l’eloquio del maggiore, i soldati si disperdono tornando alle proprie occupazioni. Alcuni approfittano della breve tregua per mangiare o dormire, altri restano vigili nei loro involti di coperte, temendo di trovarsi faccia a faccia coi russi: più volte li hanno visti balzare all’interno delle loro postazioni col favore delle tenebre, le baionette che rilucevano sinistre nel bagliore della luna.
Schwerin esala un profondo sospiro e si passa una mano sul volto, consapevole del peso delle sue parole. Alza lo sguardo verso il cielo scuro, dove le stelle assistono impassibili, mute testimoni di quella lotta senza quartiere. Non può fare a meno di chiedersi quanti uomini ancora dovranno morire, prima che sorga di nuovo il sole.
Un rumore di passi incerti lo ridesta da quei pensieri. Si volta e si ritrova faccia a faccia con Richter, che ricambia il suo sguardo: non lo ha sentito arrivare, segno che era già lì; eppure non si sente in imbarazzo. Per un istante gli pare che i suoi occhi chiari e profondi si illuminino di un bagliore di comprensione, ma la sua espressione seria rimane impenetrabile.
Vorrebbe chiamarlo a sé per scambiare due parole, ma si rende conto che non saprebbe di cosa parlare: se tra i soldati di truppa certe barriere non esistono o crollano in fretta, la loro condizione di ufficiali superiori li porta a mantenere un certo distacco e a comunicare soltanto di questioni prettamente militari. Non importa se l’uomo che ha di fronte è un coetaneo con cui ha condiviso giorni di aspri combattimenti, non importa se le divise che indossano li identificano come parigrado: il principe von Schwerin-Wolfshagen può fingere di essersi scrollato di dosso i retaggi elitari di una società classista, almeno nelle parole e negli atti, ma in quel momento, quel von che ha deliberatamente taciuto nel presentarsi gli pesa più di ogni altra cosa.
“Schwerin, lei...” Qualunque cosa Richter avesse voluto dire, viene coperta da un boato assordante. I motori e le eliche ruggiscono, facendo ribollire l’aria. Una pioggia di dardi infuocati precipita giù dal cielo nero, luci abbaglianti feriscono gli occhi, la terra trema come scossa dall’ira di mille giganti.
“Ai rifugi!” urla Schwerin, afferrando il braccio del collega e spingendolo via.
 
Al bombardamento sovietico segue uno scontro armato: le mitragliatrici riprendono a crepitare, gli obici da campo e i mortai tornano in funzione. A un’ora indefinita della notte, i russi stremati vengono ricacciati indietro e la violenza si mitiga con la stessa velocità con cui è divampata.
Richter scorge l’ombra di Schwerin, in piedi su un cumulo di rovine a fissare la notte scura. Prima della battaglia l’ha sentito arringare i suoi soldati e dispensare incoraggiamenti a chi si sentiva perduto; dopo l’ha visto combattere coi gomiti e le ginocchia a terra, l’immancabile fucile che sembrava un prolungamento del suo braccio. E lo vede adesso, assorto in chissà quali pensieri, come la statua immobile di un soldato di carne e sangue.
Non sa praticamente niente di lui, ma ha come l’impressione di conoscerlo da sempre: ha combattuto accanto a lui giorno e notte, dimentichi del sonno e della fame, e sente come se tra loro si fosse instaurata una sintonia inesprimibile a parole. Del resto, sa bene che poche settimane di battaglia possono forgiare amicizie durature, talvolta perfino più forti di quelle nate dopo anni di conoscenza.
Lo raggiunge in silenzio, arrampicandosi a sua volta sui resti del muretto. Quando giunge sulla sommità, le loro spalle si sfiorano appena, ma nessuno dei due si ritrae a quel contatto inaspettato.
Rimangono lì, avvolti nei lunghi cappotti coperti di cristalli di ghiaccio, a trarre un barlume di calore dalla reciproca presenza.
Richter lascia vagare lo sguardo attraverso lo scenario che si profila di fronte a loro: un cimitero di ruderi sommersi dalla neve, strade ostruite da montagne bianche lambite dalla luna, palazzi sventrati le cui finestre si aprono come orbite vuote spalancate sul nulla.
“Che paesaggio spettrale,” si lascia scappare.
Schwerin annuisce e si volta verso di lui. Nonostante il grigiore onnipresente, i suoi occhi sono luminosi come zaffiri.
Non dice nulla, ma forse non c’è bisogno di parole: sentono di potersi fidare l’uno dell’altro in quella situazione incerta, e non serve altro per descrivere l’intesa che serpeggia tra loro.
Non sanno cosa li aspetta, ma sentono di poterlo affrontare insieme.
È come se avessero condiviso un segreto sotto quella luna indifferente.
 
 
“Anche stavolta, il conto del macellaio è stato salato,” osserva Richter guardando i teli verdi che celano altrettanti corpi, allineati sul cassone di un camion. La sua figura è un’ombra scura che si staglia contro il tramonto. “Quanti giorni abbiamo combattuto in quel buco? Quattro, cinque? Ho perso il conto.” Volta le spalle alla finestra, schermata da un telo trasparente per proteggere l’interno dagli spifferi, e si versa una tazza di caffè. “L’ultimo dei miei era un ragazzo di diciassette anni, arrivato dalla Germania pochi mesi fa. Aveva passato l’addestramento con ottimi risultati e si sentiva onorato di essere entrato a far parte della divisione Eisenfaust. Camminava coi piedi piagati dal freddo, ma non passava giorno in cui non lo vedessi ridere e scherzare insieme ai suoi camerati.”
Cala un lungo silenzio assorto, dove entrambi sembrano indugiare in qualche ricordo lontano. Schwerin conosce bene la nostalgia, è una sensazione che ormai è entrata a far parte del suo essere. “Muore giovane chi è caro agli dei,” mormora infine, come rivolto a se stesso.
Dulce et decorum est pro patria mori. Una volta ci credevo anch’io.” Anche Richter sembra aver pronunciato quelle parole tra sé e sé, in tono distaccato, tuttavia Schwerin non può fare a meno di fissare lo sguardo su di lui: la sua espressione è indecifrabile, come se una barriera lo separasse dal resto del mondo, ma nei pozzi gelidi dei suoi occhi sembra ardere qualcosa che gli risulta familiare.
“Siamo nati per morire,” gli fa eco lui. “Ce lo ricordano dal giorno in cui ci siamo arruolati.”
“Ho visto morire centinaia, forse migliaia di uomini. Alleati, nemici, camerati... amici. Eine Kugel kam geflogen: gilt es mir oder gilt es dir? [*]” Richter appoggia la nuca allo stipite divelto e si perde a contemplare una crepa sul soffitto. La visiera del berretto nasconde in parte il suo volto, ma non l’ombra di tristezza che alberga in fondo al suo sguardo. “Il mio Vecchio diceva sempre: o ti abitui alla morte, cerchi di renderti insensibile, oppure impazzisci e ti spari un colpo alla testa. Non c’è una via di mezzo.” Esala un sospiro. “Adesso è morto anche lui.”
Schwerin non risponde subito, ma riflette a lungo sulle sue parole, mentre ricordi dolorosi riaffiorano in superficie.
“Non mi fraintenda, non ho alcuna intenzione di sminuire il sacrificio dei nostri soldati,” continua l’altro, senza farci caso. “Non sono come quegli ufficiali infatuati dei loro gradi e dell’autorità che rappresentano, che amano sfilare in alta uniforme per le strade di città conquistate col sangue altrui. Non sono come quegli ipocriti che mandano a morire frotte di disperati mentre se ne stanno rintanati come talpe nei loro bunker. Amo la mia Patria e darei la vita per essa, se dalla mia morte potesse dipendere un futuro migliore.” Finisce il caffè, posa la tazza sul davanzale. “Adesso, però, sento che la marea si sta rivoltando contro di noi: se dovessimo perdere questa guerra, per noi resteranno soltanto l’infamia e l’oblio della Storia.”
Schwerin, ancora seduto su una cassetta di munizioni rovesciata, si versa una tazza a sua volta. È caffè riscaldato, di pessimo sapore, ma si sforza di inghiottirlo senza una smorfia. “Sa, Richter, una volta ero convinto che avremmo vinto la guerra. Ricordo ancora le marce attraverso le cittadine polacche, coi volti sporchi di fuliggine e gli stivali infangati, ma l’animo lieto. Di ritorno dalle missioni cantavamo Bomben auf Polenland e Wir sind die schwarzen Husaren der Luft. Credevo che niente ci avrebbe potuti piegare – e lo credo ancora: piuttosto ci spezzeremo, pur di non darla vinta ai nostri nemici.”
“La vita è una lotta, ma finché c’è lotta c’è vita,” mormora l’altro, in tono assorto. “Combatti perché devi, perché la legge universale dentro di te ti impone di non gettare le armi.”
Schwerin indugia per un po’ sulla sua figura: ha imparato a fare affidamento su di lui come un pilastro, ma non si è mai accorto di quanto i suoi lineamenti spigolosi siano in realtà armonici e gradevoli. Anche l’altro si sorprende a guardarlo; i loro occhi s’incrociano e si incatenano gli uni agli altri, comunicando l’inesprimibile. Si rende conto che parlare con lui è come vedere riflesso in uno specchio il se stesso di pochi anni prima: un’anima che soffre per le stesse ferite, ma più fresche e più brucianti. È come muoversi in un terreno insidioso, nel quale una sola parola fuori luogo potrebbe scoperchiare un vaso di Pandora di segreti inconfessabili.
È proprio Richter a cambiare discorso, distogliendolo dalle sue riflessioni. “C’è una cosa che non le ho mai chiesto. L’altro giorno... come ha fatto a trovarmi a colpo sicuro in mezzo a quel pandemonio?”
“È stato un caporale a condurmi fin lì. Non si è presentato, ha solo capito chi ero e chi cercavo. Ma se devo essere sincero, avevo già sentito parlare di lei e non è stato difficile riconoscerla.”
Richter si lascia scappare una leggera risata priva di allegria. “Ah, sì? Non pensavo di essere così famoso.”
“Tutti nella Divisione parlano di Smolensk e di come lei, con una compagnia dimezzata...” Vuole essere cortese, ma s’interrompe a metà, rendendosi conto che l’espressione dell’altro si è improvvisamente indurita.
“Davvero una vittoria schiacciante,” replica, a denti stretti. “Ma il merito va tutto al capitano Altendorf.”
Schwerin apre la bocca per dire qualcosa, ma Richter ha già lo sguardo rivolto verso l’uscita. “Adesso, se vuole scusarmi... devo proprio andare.”
Rimane a guardarlo mentre raccoglie il cappotto e lo saluta, asciutto e sbrigativo; poi, quando la porta si chiude, si prende la testa tra le mani ed esala un sospiro.
Non riesce a spiegarsi quello scatto repentino, ma più di tutto fatica a capire che cosa lo attiri verso quell’uomo freddo e distaccato, spingendolo a ricercare la sua compagnia con tanta assiduità.
 
Fuori nel pomeriggio gelido, Hermann muove qualche passo nel cortile sommerso dalla neve. Gli stivali vi affondano fino al polpaccio e il suo respiro si condensa in nuvolette di vapore che sembrano quasi avere consistenza fisica. Stringe le braccia intorno al petto per proteggersi dal freddo e getta un ultimo sguardo in tralice alla finestra della postazione di comando. Con la coda dell’occhio gli sembra di scorgere l’ombra di Schwerin affacciato; è tentato di tornare da lui, ma quando si volta di nuovo la luce all’interno è spenta.
C’è qualcosa, nelle maniere cortesi del suo parigrado, che lo affascina e lo mette in imbarazzo: non riesce quasi a credere che qualcuno si sia voluto intrattenere con lui di sua sponte e non per obbligo militare.
Si pente subito di quello scatto, ma rivivere ciò che ha visto in quella battaglia è come una pugnalata al cuore. Certe volte si ritrova a pensare che avrebbe preferito morire lui al posto del capitano, ma non può far altro che rassegnarsi al sonno e lasciare che quei ricordi lo perseguitino anche nei peggiori incubi. Non riesce a perdonarsi di non essere arrivato in tempo, di non aver potuto far nulla per lui: ogni volta che ci ripensa, il senso di colpa lo ghermisce come una morsa gelida e gli mozza il respiro.
Da una parte, però, una voce gli suggerisce che ha fatto bene ad andarsene: la solitudine è una benedizione, è la compagnia – per quanto disinteressata – a costituire un’invasione del suo territorio, quella landa desolata e sferzata da venti gelidi su cui nessun altro dovrebbe affacciarsi.
Come può aver pensato, anche solo per un istante, che il maggiore Schwerin possa essere diverso dagli altri?
 
 
[*] Giunse fischiando una pallottola; è per me, oppure per te?
 
 
 
  
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