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Autore: Shadow writer    21/01/2020    14 recensioni
Tridell è una moderna metropoli in cui nessuno è estraneo a scandali e corruzioni. Una giovane donna, abile nell'uso delle vie più o meno lecite, si è fatta strada fino alla vetta di questo mondo decadente.
Dalla storia:
“La duchessa viveva in periferia.
Il suo era un palazzo dall’esterno modesto, circondato da una striscia di giardino prima del grande cancello metallico. Chiunque avesse avuto l’onore di entrarvi, parlava di stanze suntuose, pareti affrescate, una grande corte interna, in cui si innalzava una fontana zampillante decorata da statue di marmo bianco. […]
Chi lei fosse veramente, non si sapeva. Che non avesse davvero il sangue blu, questo era quasi certo, ma nessuno osava contestarlo.
La verità sul suo conto, qualunque fosse, non era nota al pubblico, e alla gente piaceva guardare a questa donna enigmatica nel costante sforzo di capire chi fosse, senza mai riuscirci.”
[Storia partecipante al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di Efp.]
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
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SORPRESA

 
 


La chiamata di Jefferson aveva colto Alexander di sprovvista. Era in ritardo, lo sapeva chiaramente, ma se Paul Jefferson chiamava lui doveva rispondere.
Gli aveva già mandato un messaggio per informarlo che il suo ultimo incontro era andato bene – Jefferson non si era presentato solo per evitare che la sua presenza al fianco del futuro sindaco risultasse morbosa – quindi non sapeva cos’altro gli dovesse dire.
«Sto lavorando sul convincere la duchessa a collaborare. Ho avviato una ricerca sul suo conto» fu la prima cosa che gli disse.
Mentre lo ascoltava, Alexander guadava la pioggia cadere sul finestrino nel taxi.
«Va bene. Hai qualche informazione su come si sia procurata il suo patrimonio?» gli domandò.
«Le fonti più numerose dicono che si tratti di un’eredità, un parente lontano defunto che ha lasciato tutto alla nipotina sconosciuta». Jefferson prese una pausa, poi aggiunse: «In ogni caso, si ritiene che la sua fortuna sia aumentata nel corso degli anni, probabilmente affari tramite un prestanome. La duchessa non si sporca le mani, ma lo fa fare agli altri, dico bene?».
«Già» rispose Alexander laconico.
«In ogni caso, tieniti pronto per la prossima volta che la fronteggerai. Non te ne andrai a mani vuote, puoi giurarlo.»
Alexander gli aveva fornito una versione rielaborata di come si era svolto il suo colloquio con la duchessa. Le aveva fatto la sua proposta, ma lei era rimasta sulle sue. Non era riuscito a convincerla. Jefferson si era subito messo all’opera per rimediare e da allora erano passati quattro giorni.
«Per quanto riguarda la sua identità, non ho trovato nulla. Dice a tutti di chiamarsi Cassandra, ma dubito sia il vero nome.»
“Non mi dire” pensò Alex.
Jefferson continuò: «Ho provato a cercare dei contratti, ma la casa in cui vive è stata acquistata tre anni fa a nome del suo amico, Roman Deleon»
«Sai qual è il rapporto tra i due?»
«No. Qualcuno crede siano amanti, ma il loro atteggiamento in pubblico non lascia supporre nulla.»
Il taxi si fermò e l’autista lo informò che era arrivato.
«Devo andare ora. Ti richiamo stasera» disse al telefono e si congedarono.
Mentre il taxi ripartiva alle sue spalle, Alexander lanciò uno sguardo al grande palazzo davanti a sé.
Prese un respiro profondo e si infilò nell’atrio.
Il portiere lo accolse con un grande sorriso ed estrema gentilezza e lo fece accompagnare fino all’ascensore, dove un secondo uomo aveva già il dito sul piano giusto prima che lui glielo dicesse.
Quando arrivò alla sua destinazione, scese dall’ascensore e si diresse verso una delle due porte del piano.
Il portiere aveva già avvisato del suo arrivo e non dovette suonare il campanello.
Aprì la porta, superò la sala d’attesa ed entrò nello studio, scusandosi per il ritardo.
Mentre si toglieva la giacca, notò che Camille era già comodamente seduta sul divanetto di pelle bianca e sorseggiava una tazza di tè caldo. Su un divano speculare al primo stavano i signori Fairbanks, una coppia intorno ai cinquant’anni di vita e i venticinque di matrimonio lavorando insieme come terapisti di coppia.
Alexander non era entusiasta di dover seguire un corso prematrimoniale - «Devo anche studiare come essere un bravo marito?» aveva detto a Camille – ma la situazione era decisamente peggiore se i terapisti erano grandi amici dei futuri suoceri. Alexander non aveva dubbi che i Fairbanks facessero rapporto ai genitori di Camille, ma se voleva sposarla, non aveva alternativa. Nonostante quello che aveva detto Emily, Camille non era stata scelta da altri per essere sua moglie. Certo, suo padre era stato ben contento quando aveva saputo del suo interesse per la figlia di uno dei più importanti banchieri di Francia, ma Alexander aveva agito di testa sua.
Camille gli sorrise, quando prese posto al suo fianco.
«Non preoccuparti, capiamo quanto tu sia impegnato con la campagna elettorale» gli disse la signora Fairbanks, una donna sottile come uno spillo, con i capelli talmente chiari da apparire bianchi. I suoi occhi cerulei, cerchiati da una ragnatela di rughe, lo scrutavano in attesa. 
Lui fece un cenno di assenso: «Sì, arrivo proprio ora da un incontro con gli industriali della città.»
«Sarai un ottimo sindaco» aggiunse lei e suo marito, al suo fianco, assentì.
Gli offrirono tè e pasticcini e come al solito la terapia fu più che altro una chiacchierata amichevole.
«Dove vi vedete tra dieci anni come famiglia?» domandò ad un tratto il signor Fairbanks.
Fu Alexander a rispondere per primo: «Il piano è quello di comprare una casa più grande e mi piacerebbe aver avuto uno o due figli.»
Si voltò verso Camille e lei prese la parola: «Sono d’accordo per la casa, ma per i figli si vedrà.»
I signori Fairbanks fecero saltare lo sguardo tra i due.
«È una cosa di cui avete già discusso?»
I due scossero il capo.
«Avere dei figli è una scelta importante» disse il signor Fairbanks. «Al di là di ogni problema o gratificazione che può derivarne, è fondamentale che ci sia una profonda comunicazione all’interno della coppia.»
Camille allungò una mano e la mise su quella di Alexander: «È sicuramente qualcosa di cui parleremo, a lungo. Si vede come brillano i vostri occhi.»
La signora Fairbanks fece una risata a metà tra il divertito e l’imbarazzato.
«È impossibile nasconderlo. Il nostro Noah ha appena compiuto gli anni e non potremmo essere più felici del vederlo crescere forte e sano».
Alexander pensò che la signora dovesse essere più giovane di quanto le rughe lasciassero presupporre e si voltò verso Camille, per vedere se le parole della donna avessero fatto breccia nella sua risolutezza.
Lei sorrideva, guardando i terapisti, senza che la sua espressione rivelasse nulla.
«Direi che per questa sera abbiamo finito» disse il signor Fairbanks e aspettò che i due futuri sposi si alzassero in piedi per poterli accompagnare alla porta. 
«Le nostre sessioni sono quasi terminate, si avvicina la fatidica data» aggiunse la signora, seguendo il marito.
«Due settimane» rispose Camille e poi si voltò verso Alexander, che le cinse il fianco per avvicinarla a sé: «Siamo così vicini.»
Quando raggiunsero l’atrio, Alexander le chiese se volesse cenare in quel ristorante italiano sulla via di casa e lei acconsentì.
Mentre cenavano, accompagnati dalla leggera musica del pianoforte, Alexander ripensò a quando le aveva chiesto di sposarlo.
Erano a Parigi, in quel ristorante che affacciava sulla Tour Eiffel che a Camille piaceva tanto.
Aveva dovuto prenotare settimane in anticipo – sarebbero stati mesi se non avesse usato il cognome di Camille – e aveva aspettato fino al dolce, per porgerle quella scatolina di velluto blu notte.
L’aveva aperta lui, senza mettersi in ginocchio – entrambi concordavano che si trattasse di un gesto imbarazzante ed esibizionista – rivelando il diamante che conteneva.
Gli occhi di Camille si erano sgranati, improvvisamente lucidi e aveva annuito.
«Sì, Alexander, lo voglio» erano state le sue parole.
Fuori dalla finestra, la Tour Eiffel aveva cominciato a scintillare. 
 
 
 
Alexander aveva atteso con ansia il sabato sera per poter rimanere in casa e riprendersi dalla frenesia della settimana.
Aveva convinto Camille che avrebbe cucinato lui, anche se, poco fiduciosa, lei aveva tentato di insistere ad uscire.
«So quello che faccio» le aveva detto e si era diretto in cucina.
Quando aveva iniziato ad impastare gli ingredienti per fare dei ravioli, lei gli aveva rivolto uno sguardo perplesso, ma non si era alzata dalla poltrona da cui stava leggendo un romanzo né aveva fatto commenti.
«Dove hai imparato?» gli chiese, quando lo vide stendere l’impasto con il mattarello.
Alexander non indossava il solito completo elegante, ma una semplice maglia a maniche lunghe che aveva arrotolato per non sporcare con la farina e si chiese quanto dovesse apparirle diverso dalla veste ufficiale che portava tanto spesso.
«Una volta mi piaceva cucinare. E non avevo nessun altro che lo facesse per me».
Camille sollevò le sopracciglia: «Credevo fossi sempre stato ricco.»
Non c’era presunzione né accusa nella sua voce, ma semplice curiosità.
Lui annuì: «Ricordi quando mio padre parlava del mio “periodo di sbandamento”? Avevo deciso di vivere da solo e cavarmela con le risorse che riuscivo a procurarmi, così ho imparato a cucinare.»
La donna socchiuse il libro, lasciando il pollice all’interno per tenere il segno.
«Mi ricordo. Com’è andata la tua avventura?»
Lui rise: «Un disastro. La prima sera sono rimasto chiuso fuori casa, non ero tagliato per quella vita.»
«Ci credo» replicò Camille e il sorriso sul suo volto dimostrò che la cosa la divertiva. 
Riaprì il romanzo e tornò alla lettura.
Non molti minuti dopo – Alexander aveva appena cominciato a ritagliare i ravioli – il cellulare dell’uomo squillò. Si pulì le mani su uno straccio e rispose.
«Pronto?»
«Ha accettato di vederti» annunciò Jefferson. 
«Chi?»
«La duchessa. Mi ha chiamato poco fa e ha detto che accettava ed è già arrivata. Ti aspettiamo nel mio ufficio, non fare tardi.»
Prima che potesse replicare, Jefferson riattaccò.
Alexander guardò la pasta sul bancone, poi prese il cesto dell’immondizia e vi buttò dentro tutto.
«Jefferson mi ha chiamato, devo andare al suo ufficio» disse a Camille. «Non aspettarmi per cena, se ti va di uscire.»
Le si avvicinò, le lasciò un bacio leggero sulle labbra e andò a cambiarsi.
Camille non protestò, era abituata, e lo salutò ancora con un bacio qualche minuto dopo mentre usciva vestito di tutto punto.
L’ufficio di Jefferson si trovava a una ventina di minuti di taxi dall’attico che divideva con Camille, e Alexander promise all’autista una mancia abbondante se fosse riuscito a ridurre i tempi.
Quando arrivò alla sua meta, Jefferson lo aspettava nel corridoio e camminava avanti e indietro, passandosi nervosamente la mano tra i capelli radi.
«Eccoti» quando lo vide gli andò incontro. «Questa è un’occasione unica. Non conosco nessuno che l’abbia incontrata fuori da casa sua.»
Mentre gli parlava, Alexander si diresse verso la sala conferenze, l’unica stanza illuminata degli uffici in quel sabato sera.
«E c’è un'ultima cosa…ho trovato un’informazione che potrebbe ridurla totalmente in nostro potere…»
Impaziente, Alexander aprì la porta e Jefferson si zittì.
Lei era lì.
Sedeva al capotavola del lungo tavolo di vetro della sala. Era il posto che di solito occupava Alexander, esattamente di fronte al proiettore.
Indossava una sorta di kimono di raso nero, stretto in vita da una cintura, rosa come i fiori che decoravano il tessuto. L’abito era talmente lungo da coprirle i piedi.
«Finalmente, Alexander» gli disse, muovendo il capo nella sua direzione.
«Ho avuto poco preavviso» si giustificò lui e ricambiò il suo sguardo.
Si sedette al suo fianco, lasciando un posto tra di loro, mentre Jefferson rimaneva in piedi.
«A cosa dobbiamo questo cambio di decisione?» le chiese e sentì il suo collega tossicchiare.
“Al diavolo” si disse, “so quello che faccio”.
«Quale cambio di decisione?» la duchessa sbatté le lunghe ciglia nere con aria ingenua.
Alexander strinse i denti. Jefferson non aveva tutti i torti, doveva essere cauto con lei.
«Intendo la decisione di concederci un nuovo incontro. Siamo…molto onorati da questa scelta» si morse la lingua per trattenersi.
Lei si appoggiò allo schienale della sedia.
«Dovete ringraziare Roman. È stato lui ad insistere che vi ascoltassi ancora.»
«Non sprecheremo quest’occasione.»
Alexander si schiarì la voce: «Credo potremmo ottenere un buon accordo se ci fosse da parte sua un sostegno pubblico alla campagna. Ovviamente da parte nostra ci sarebbe un supporto garantito dalla posizione attuale e successivamente da quella di sindaco. Avere dalla sua parte un’autorità potrebbe aprirle molte porte.»
Lei non rispose subito, ma ci pensò su, con le braccia incrociate strette al petto.
«La cosa che non mi piace di questa faccenda è che io otterrei dei vantaggi solo se voi vincerete le elezioni, o sbaglio?»
Jefferson fece per intervenire, ma Alexander lo bloccò e prese la parola: «La mia posizione attuale nell’economia e nella politica non è indifferente. Ci sarebbero dei vantaggi immediati, in qualsiasi settore lei richieda, ma vincere le elezioni sarebbe di certo un vantaggio per entrambi.»
Lei tamburellò con le dita sul tavolo di vetro. Spostò lo sguardo sulla vetrata, che affacciava su un altro grattacielo, poi tornò nella sala e si posò su Jefferson.
«Cosa dovrei fare io?» gli domandò.
«Presenziare ai nostri eventi, non a tutti, ma abbastanza da dimostrare adesione alla nostra campagna. Se possibile, anche favorire alcune trattative o accordi con persone che vi sono legate per amicizia o legami di altro tipo. Come ha detto Alexander, vincere queste elezioni è di interesse per le due parti in causa.»
«Quali eventi?» incalzò lei e Jefferson proseguì: «Alcune inaugurazioni, incontri con la popolazione e, certamente, il matrimonio di Alexander e Camille tra due settimane. Sarà un evento meraviglioso.»
Alexander tossicchiò e Jefferson lo intese come cenno di fermarsi. Gli sguardi di entrambi gli uomini furono sulla duchessa.
«No» disse lei. 
Nessuno parlò per qualche istante, finché Jefferson chiese: «No cosa?»
Lei spinse la sedia indietro, come per alzarsi, e aggiunse: «Non vi aiuterò.»
«Aspetti» tentò ancora l’uomo, mentre Alexander rimase in silenzio.
«Non sono interessata» scandì lei, rivolgendogli uno sguardo di ghiaccio.
Jefferson perse ogni atteggiamento accondiscendente e si indurì.
«Aspetti ad alzarsi. Devo farle vedere una cosa. Mi dispiace essere arrivato a questo.»
Mentre lui si avvicinava al computer e accendeva il proiettore, la giovane lanciò un’occhiata ad Alexander. Lui resse quello sguardo che cercava su di lui informazioni, senza farle capire che ne sapeva meno di lei. Immaginò che Jefferson stesse per sfoderare la notizia di cui parlava prima di cominciare l’incontro.
Ronzando il proiettore cominciò a caricare l’immagine sul telo bianco. 
Alexander vide la reazione di Emily ancora prima di guardare l’immagine. La ragazza sbiancò e ogni espressione si spense sul suo volto, paralizzandosi. Dischiuse le labbra, sgranò gli occhi, come terrorizzata.
Lui si voltò lentamente, mentre Jefferson diceva: «Mi hanno detto che queste fotografie risalgono a poco più di quattro anni fa.»
Quando vide l’immagine, Alexander ebbe un capogiro. Si sentì improvvisamente senza forze e la stanza prese a vorticare intorno a lui.
La prima fotografia rappresentava una giovane Emily all’interno di un supermercato. Nonostante il maglione che indossava, era evidente il grosso pancione che nascondeva.
La seconda fotografia ritraeva la stessa ragazza, in una stanza di ospedale, con un piccolo fagotto stretto al petto.
Senza gli abiti elaborati, senza l’alone di mistero, senza un ricco palazzo, quella era solo Emily, struccata, stanca, appesantita. E con un bambino appena nato.
Jefferson stava parlando, ma Alexander non riusciva a distinguerne le parole.
Si voltò a fatica verso la ragazza e vide che stava evitando il suo sguardo, ma che le sue guance erano rigate dalle lacrime. 
«Quando è nato?» le chiese e percepì la propria voce come un rantolo strozzato.
Avrebbe voluto gridare, alzarsi e sbattere la sedia contro il tavolo e invece si sentiva come di marmo, mentre dentro di lui tutto era in subbuglio.
Emily lo guardò e strinse le labbra, senza parlare, ma i suoi occhi furono eloquenti.
Alexander si passò una mano sul volto e si accorse che stava piangendo a sua volta.
«Dov’è?» le chiese a fatica.
Emily, tremando, fece cenno di no con il capo.
Alexander imprecò e si alzò in piedi di scatto, poi le si avvicinò a grandi passi. La ragazza si era come rimpicciolita sulla sedia.
«Dov’è ora?» quasi ringhiò.
«Alexander» lo richiamò Jefferson e si rivolse alla ragazza. «Puoi lasciarci soli?».
Lei scivolò via dalla sedia e superò Alexander, ma lui la bloccò per un braccio.
«Emily…» la sua voce era a metà tra una supplica e una minaccia.
«Lasciala, le potrai parlare dopo» gli disse Jefferson e quando lui allentò la presa, lei si liberò e uscì dalla sala.
«Quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, ti ho chiesto un’unica, semplicissima cosa» gli disse l’uomo, cercando con insistenza lo sguardo di Alexander, «qualsiasi scheletro nell’armadio tu avessi, anche il peggiore, dovevo saperlo. Solo conoscendo i tuoi punti deboli avrei potuto difenderti.»
Tacque come in attesa di una replica, che non arrivò.
Alexander aveva il respiro affannato, la mascella tesa e i pugni contratti.
Jefferson proseguì: «Come ti è saltato in mente di non dirmi che avevi una relazione con la donna più importante della città? E avete anche avuto un figlio!»
«Non lo sapevo» mormorò lui.
«Non sapevi di essere andato a letto con lei? Gesù, Alexander chissenefrega del bambino, è del tuo passato che sto parlando.»
L’altro non replicò. Fissava Jefferson con uno sguardo accecato dalla rabbia. Era palese che non stesse ragionando lucidamente.
Jefferson prese un respiro profondo, poi allungò un braccio e gli batté la mano sulla spalla, guardandolo negli occhi.
«Sono stato assunto per farti vincere le elezioni, e lo farò al meglio delle mie capacità. Ma questo, Alexander…» prese un altro lungo respiro, «questo mette in forse tutto, lo capisci?»
Alexander strinse le labbra e non parlò.
«Torniamo da lei.»
Così fecero e trovarono la giovane fuori dalla porta, al centro del corridoio. Bastò un’occhiata per capire che Emily era sparita ed era tornata ad essere la duchessa.
«Complimenti, signor Jefferson» anticipò ogni possibile parola dei due uomini, recuperando la sua solita freddezza «ha legato la propria squadra con le sue mani. Faccia quello che vuole con la fotografia, ma ormai avrà già capito che diffonderla causerebbe più danni al suo protetto che a me. Se avrete ancora bisogno di me, sapete dove trovarmi».
Senza lasciar loro il tempo di parlare, si voltò e si diresse verso l’ascensore.
Alexander la seguì con lo sguardo, senza muoversi. Aveva recuperato sufficiente buon senso per capire che non era abbastanza lucido. Si sentiva ribollire, era sudato e instabile sulle gambe, e sapeva benissimo cosa succedeva quando lasciava le emozioni guidarlo. “L’ira non ti dona affatto” gli diceva sempre Emily.
La guardò sparire, al di là delle porte dell’ascensore, e la lasciò andare.
“Per ora” si disse.
 
 
 
***
 
 
 
Camille aveva insistito perché andassero a quella galleria in centro, dove era appena stata inaugurata una nuova esibizione. Era raro che la donna gli chiedesse con insistenza qualcosa, così Alexander l’aveva accontentata senza pensarci due volte. 
«Ci saranno anche molte persone a cui farà piacere vedere un candidato amante dell’arte» gli aveva sussurrato lei a fior di labbra, mentre si preparava per uscire.
Il suo profumo inebriante aveva invaso le narici di Alexander e lui aveva pensato che quella sera Camille era bellissima. Portava un abito di tulle lilla che le lasciava scoperte le gambe lucide e toniche e, per uscire, si infilò una pelliccia dello stesso colore delicato. Grazie ai sottili tacchi argentati, abbinati alla pochette, era quasi alta come lui.
«Ti ricordi quando ci siamo incontrati?» le chiese lui una volta che si furono seduti nell’auto che avevano chiamato.
Lei gli sorrise, il suo profilo perfetto si stagliava sul finestrino scuro.
«Certo, perché me lo chiedi?»
Lui scrollò le spalle: «Non so, ci stavo pensando. E tra una settimana ci sposiamo, non lo trovi strano?»
«Sei tu che stai facendo discorsi strani questa sera» rise lei e si inclinò verso Alexander, diffondendo ancora il suo profumo nell’aria.
«Eravamo in quel caffè a Portobello. Tu stavi sfogliando un libro appena comprato e io ti guardavo da un altro tavolo» le disse e lei si voltò a guardarlo, come per invitarlo ad andare avanti.
«Ti avevo vista in università, quindi sapevo chi fossi.»
«E io sapevo chi fossi tu» replicò lei, inclinando leggermente il capo.
Lui sorrise. «Quel giorno ho pensato che fossi bellissima. Portavi gli occhiali e indossavi un maglioncino color crema, me lo ricordo. Credo sia stato questo a spingermi a venire a parlarti.»
Camille allungò una mano e gli sfiorò la guancia appena ruvida. Si era rasato quella mattina stessa.
«Sono contenta che tu l’abbia fatto» 
Lui si sporse e le lasciò un bacio sulla guancia. Sapeva che non l’avrebbe perdonato se le avesse rovinato il rossetto.
 
La galleria era già affollata da signori elegantemente vestiti. Camille aveva ragione, era una bella vetrina.
I quadri e le installazioni erano disposti in una serie di stanze con le pareti di un bianco splendente.
Prima si preoccuparono di salutare tutti quelli che conoscevano. Camille si era tolta la pelliccia e con quel suo abito lilla attirava l’attenzione di molti uomini. Lei pareva non rendersene conto e scivolava con disinvoltura tra la gente.
Trovarono anche la madre della ragazza, che viveva a Tridell anche quando il marito conduceva affari a Parigi.
Mentre Camille e sua madre chiacchieravano sorseggiando champagne, Alexander ne approfittò per allontanarsi e visitare la mostra.
Passeggiò nelle varie stanze, facendo scorrere lo sguardo sulle varie opere.
Una in particolare attirò la sua attenzione. Si trattava di un vaso di alabastro su cui erano state dipinte le figure di un uomo e di una donna che ballavano abbracciati. La finezza del tratto lo assorbì nella contemplazione e non si accorse che qualcuno si era avvicinato fino a che non lo ebbe al suo fianco.
Inizialmente non ci fece caso – pensò si trattasse di un normale visitatore – ma quello se ne stava stranamente vicino e sembrava non avere intenzione di andarsene.
Si voltò a guardarlo e il suo cuore accelerò all’improvviso quando si rese conto che si trattava del giovane biondo che aveva visto nel palazzo di Emily.
Roman – ricordava che questo era il suo nome – lo guardava dritto negli occhi.
«Buona sera, Alexander» gli disse e lui si accorse che una sfumatura nel suo accento rivelava che veniva da lontano.
Alexander non rispose, ma lo fissò, con i denti serrati.
L’altro sorrise, quasi divertito dal suo atteggiamento. 
«Non credere che le tue visite nella scorsa settimana siano passate inosservate» gli disse infatti, allegro.
Alexander strinse i pugni. Non aveva più visto Emily dal loro ultimo incontro, ma aveva passato i giorni seguenti a fare ricerche. Come sospettava, nessun registro riportava la nascita né diceva dove si trovasse il bambino. Si era recato al palazzo della duchessa diverse volte, lo aveva guardato da lontano, ma non si era mai avvicinato per suonare il campanello. Qualcosa lo aveva trattenuto.
«Emily aveva ragione a dire che sei molto irascibile» continuò Roman.
I muscoli di Alexander guizzarono involontariamente. Lui sapeva il suo vero nome e, per quanto Alexander ne sapesse, era l’unica persona oltre a se stesso.
«Cosa vuoi? Ti manda lei?» gli chiese, stringendo gli occhi.
Roman non smise di sorridere. «No, se lo scoprisse potrebbe cacciarmi di casa. Sono venuto di mia spontanea volontà.»
La risposta sorprese Alexander, ma non lo lasciò vedere. Non sapeva quanto potesse fidarsi dell’altro.
«Emily ha tenuto la bicicletta che le hai regalato. La tiene appesa nella sua libreria personale. Si mette a fissarla quando ha bisogno di conforto e consolazione e questa settimana non si è mossa un attimo dalla libreria.»
Questa volta Alexander non riuscì a trattenere il suo stupore. Non solo Roman sapeva molto più di quanto si aspettasse, ma gli stava anche rivelando qualcosa che metteva Emily in debolezza, qualcosa che la faceva apparire come la piccola, goffa Emily che lui aveva lasciato quattro anni prima.
«Perché me lo stai dicendo?» 
Roman si strinse nelle spalle: «Dovresti parlarle. Questa storia del bambino la distrugge ogni volta.»
«Quale storia del bambino?» Alexander sentì di nuovo il sangue rombargli nelle orecchie e il volto dell’altro ondeggiò per qualche secondo.
Roman scosse il capo: «Come ho detto, dovresti parlarle. Emily ha tutta la mia lealtà, per questo te lo sto dicendo.»
Gli fece un cenno di saluto e si allontanò.
Alexander rimase fermo per qualche istante. Tornò a guardare le figure sull’alabastro e le fissò così a lungo che avrebbe giurato di averle viste ballare davvero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 




 
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