December
19th – Eruri
“Superhero”
Levi se
ne era rimasto buono e caro fino al giorno in cui la faccia sorridente ed
incoraggiante di Erwin Smith non aveva preso a sorridergli dal retro di almeno
una quarantina di volumi esposti nella vetrina della libreria davanti a cui
passava ogni mattina nel tragitto dalla stazione al campus. Era rimasto fermo
davanti alla vetrina, indeciso sul ricambiare o meno quei quaranta sorrisi
educati e composti che accompagnavano il titolo del volume, per almeno un paio
di minuti.
Poi
aveva preso una decisione.
*
Che
l’uomo che si infilava nel suo letto almeno due o tre notti a settimana fosse
un professore di filosofia conosciuto abbastanza da pubblicare con una casa
editrice nazionale non era stata affatto una sorpresa, per Levi; d’altronde i
due dividevano la stessa sede di lavoro, sebbene in ruoli nettamente differenti
– Erwin come docente, Levi come guardiano notturno – e un paio di volte gli era
persino capitato di incrociarlo nel campus, anche prima della fatidica serata
organizzata annualmente dal rettore in cui tutti i dipendenti dell’università
erano invitati ad un “rinfresco” – termine che Levi aveva scoperto essere, per
gli over quaranta, sinonimo di “serata con meno cibo e più alcool del previsto”.
Durante quella sera Levi era rimasto perlopiù sulle sue, ad accumulare bicchieri
su bicchieri di vino rosso e ad osservare stimati nomi del panorama accademico
mescolarsi a inservienti e bidelli con la stessa energia danzante ed ebbra di
ricchi del primo novecento in visita a una fiera di campagna, sorridendo del
paragone; ma poi si era fatto tardi, e quando si era alzato per andarsene aveva
scoperto con grande disappunto che fuori, dove la musica arrivava soffocata e i
fumi dell’alcool si disperdevano nell’aria gelida, aveva preso a piovere.
Era
stato a quel punto che Erwin Smith gli aveva rivolto la parola. Era scivolato
fuori dalla porta del ristorante sollevando il bavero del cappotto e osservando
con aria rassegnata la tempesta autunnale che si era abbattuta su quell’angolo
di mondo, e dopo una sola fugace occhiata si era interessato alla sua evidente
situazione di svantaggio. Sei senza macchina? Levi aveva risposto di no,
ed Erwin aveva sorriso comprensivo. Se non ti da
fastidio, aveva detto, posso accompagnarti, in che zona abiti? Levi
gli aveva risposto e il sorriso di Erwin si era fatto un po’ più ampio, un po’
più gentile. Più o meno sulla strada per casa mia, aveva sospirato. Non mi
dispiace fare una piccola deviazione.
Non era
mai tornato a casa sua. Aveva guidato fino all’appartamento di Levi senza mai
apparire inopportuno o inquietante nel suo modo di attaccar bottone, senza mai
distruggere i momenti di silenzio con parole non necessarie e perspicace nelle
risposte abbastanza da catturare l’interesse di Levi. E quando erano arrivati
nel suo quartiere la Ford era stata abbandonata in una viuzza laterale, i
vestiti nell’ingresso ed il ruolo austero per cui era temuto e rispettato dagli
studenti perso da qualche parte tra un sospiro soffocato sulla bocca di Levi e
l’altro.
*
« Ti è piaciuto? »
Un
sorriso raro aveva sollevato gli angoli delle labbra di Levi. Aveva stretto le
mani tra ciocche di capelli biondi e se l’era spinto un po’ più addosso,
cosicché la bocca di lui si era posata sul suo sesso
sopito, morbido tra le sue gambe. Erwin aveva colto l’invito e aveva preso a
carezzarlo con la bocca aperta, ammorbidita dalla sua stessa saliva.
« L’ho trovato interessante. », aveva ammesso Levi. Il libro
di Erwin riposava su un comodino, il segnalibro che aveva tenuto conto dell’avanzare
della lettura ora una lapide sopra la copertina. Non era stata una lettura
semplice, e Levi non era certo di possedere la voglia necessaria a comprendere
per intero i concetti esposti da Erwin – ma non era quella la ragione per cui
lo aveva acquistato. « Illuminante, a tratti. »
Erwin
aveva sollevato le sopracciglia. Era il suo modo di invitarlo a continuare.
Alle sue labbra si erano unite dita calde dai polpastrelli ruvidi. La prima
volta Levi aveva pensato che le mani di Erwin erano le
mani di un operaio, non di qualcuno che svolgeva gran parte del proprio lavoro
seduto dietro ad una scrivania.
Ma Levi
non aveva nulla da aggiungere a quella breve opinione, o perlomeno credeva che
i pensieri e le sensazioni che quella strana lettura gli aveva dato fossero in
gran parte abbastanza intimi da non poter essere condivisi, neppure con lui.
Aprendo quel libro aveva quasi sperato di trovare una discrepanza tra l’Erwin
insegnante e l’Erwin amante, ma tra le righe aveva solo trovato la conferma del
suo più grande timore.
Il
libro di Erwin era un saggio riguardante il ruolo di eroe, o supereroe, nella
società moderna; una riflessione sulle aspettative imposte dalla società nei
confronti del singolo individuo, un interrogatorio continuo su come la
necessità e il dovere sociale, più che un reale senso di eroismo, facciano
emergere determinate figure al di sopra di altre. Quella era la parte che Levi
aveva letto e compreso senza apparente difficoltà; poi era arrivato il capitolo
sull’uomo dietro il superuomo – una parte la cui lettura Levi aveva interrotto
e ripreso più volte, spaventato.
L’uomo
dietro l’eroe, sosteneva Erwin, spesso diveniva la maschera più dell’eroe
stesso. Non un pensiero nuovo, ma un pensiero terrificante per lui; perché Levi
era certo di averlo visto – seppur con la coda degli occhi – slacciare la
maschera sovrimposta sul suo volto ogni qual volta muoveva un passo dentro la
soglia di casa sua, ogni qual volta si spogliava dei propri vestiti e si
infilava sotto le sue coperte, ogni qual volta lo implorava di distruggerlo in
maniere che Levi non aveva mai sperimentato o pensato prima e che – un altro
grande timore – era certo non avrebbe sperimentato o pensato poi. Ma se un
giorno avesse trovato il coraggio di voltarsi completamente e avesse scoperto
che il gesto che aveva scambiato come una liberazione era in realtà
un’imposizione, se avesse scoperto che con lui Erwin indossava una maschera
anziché mettersi a nudo, come si sarebbe sentito?
E
perché quel pensiero lo spaventava tanto?
Erwin
lo aveva preso in bocca completamente, i capelli biondi arruffati e il corpo
muscoloso lucido di sudore. Aveva la particolare tendenza ad alzare lo sguardo
di tanto in tanto, durante l’amplesso, come per assicurarsi della presenza
effettiva di Levi – almeno fin quando in lui non scattava ciò che Erwin
sembrava ricercare disperatamente, quella perdita di coscienza che lo rendeva più
attivo, dominante, persino crudele.
Lo
guardava anche in quel momento, confuso e divertito nel sentire i tremiti
involontari del bacino di Levi – il cui corpo ricercava disperatamente il
piacere che la lingua di Erwin gli donava, ma lentamente – e le sue dita sulla
sua guancia, in contrasto con il resto di lui.
« Mi sono chiesto chi dei due conosco. », aveva ammesso,
finalmente, per nulla sorpreso nello scoprire la propria voce molto meno sicura
dei suoi pensieri. « Se l’eroe o l’essere umano. »
Erwin
si era ritirato, tutt’a un tratto serio e composto. Sollevandosi sui gomiti,
gli si era trascinato addosso – coprendolo, schiacciandolo, imponente ma non
impositivo. Il suo sguardo non mostrava traccia di calore, eppure quelli che
Levi stava guardando erano gli stessi occhi della persona che dopo la loro
prima volta gli aveva domandato scusa, che la mattina dopo lo aveva portato a
fare colazione e mai una singola volta aveva insistito per parlare di sé o del
suo lavoro – ragion per cui Levi aveva esitato ad acquistare il libro, timoroso
di infiltrarsi a forza in un mondo che non aveva nulla a che fare con loro.
Era
stato certo, in quell’istante, che quell’ambiguità lo avrebbe ucciso. Aveva
afferrato le guance di Erwin, ricordandolo sporco del suo sperma e libero di
vivere le proprie fantasie senza pensare a chi o cos’era aldilà delle pareti di
quella stanza; aveva fissato il proprio sguardo in quello di lui, ricordando di
averlo evitato, una volta, passandogli accanto in corridoio e fissando in
silenzio le dita strette attorno alla ventiquattrore – le sue dita ruvide, le
dita che si erano insinuate in lui con una facilità che avrebbe quasi potuto
definire familiarità nemmeno ventiquattro ore prima di quel non-incontro.
« Erwin. », aveva detto, sicuro. « Solo
Erwin. »
Era
stato come posare delicatamente un chiodo dritto tra i suoi occhi e colpire
piano quella che aveva temuto poter essere una maschera, per poi sentire la
punta del chiodo graffiare, ma non ferire, la pelle umana. Erwin era sorriso ed
era stato un sorriso sincero quanto il primo che gli aveva rivolto, sotto una
pioggia torrenziale, alle spalle un mondo a cui nessuno dei due apparteneva.
Levi aveva atteso qualche istante, spaventato all’idea di vedere una crepa
sotto quel sorriso gentile e perfetto; poi se lo era tirato addosso e mentre
Erwin entrava in lui aveva cercato a tentoni la forma familiare del libro sul
comodino e con un unico gesto secco l’aveva gettato a terra, quanto più
distante possibile dalla sua vista.
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