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Autore: The Custodian ofthe Doors    23/01/2020    4 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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IX- Seven.
 
 

 
I passi si susseguivano gli uni dietro gli alti, il rumore era costante ed inequivocabile e non gli era servito molto per riconoscere l'andatura sicura di un uomo di guerra.
La sala buia, quella gabbia dai confini indefiniti in cui l'avevano lasciato, sembrava amplificare quel singolo suono che proveniva da un “fuori” senza contorni e senza colori.
Non sapeva quanto tempo fosse passato prima che il ritmico incedere si era palesato con lentezza e sempre maggior forza alle sue orecchie, aveva creduto di essere solo, di esserlo ancora come sempre lo era stato al mondo: abbandonato in mezzo ad una marea di anime che non lo comprendevano davvero, che lo vedevano ma non lo guardavano, che lo sentivano ma non l'ascoltavano, proprio come le belle statue dei palazzi, come le liturgie infinite che i fedeli udivano senza capirne il reale significato.
Era un'opera d'arte ammirata ed incompresa, uno di quei monumenti che tutti credevano di poter identificare ma il cui senso intrinseco e profondo sfuggiva a chi non si prendesse la briga di guardare un po' più in là, sotto gli strati di stucco e colori sgargianti.
I colori… da quanto non ne vedeva di veri? Aveva vissuto, se così si poteva dire, fino in quel momento in un mondo tetro e cupo, privo di sfumature che non fossero quelle del nero e del grigio fumo. Neanche il sangue aveva colore da dove veniva, forse perché di sangue non ce ne era più neanche una stilla. Ma allora di chi, chi era il proprietario di quel vitale liquido che gli bagnava le mani, che gli sporcava le vesti e macchiava la pelle candida?
Le sue dita continuavano a brillare, tenuti e poi più forti, seguivano il ritmo dei passi, il battito di un cuore che da troppo aveva cessato d'esistere.
Poi il camminare s'arrestò.
Nel silenzio di un momento immobile sospeso nel nulla qualcosa scivolò, ruotando su sé stesso.
Una lama d'ombra diversa da quella che occupava la stanza penetrò l'aria densa e buia, un rivolo d'aria satura si mischiò a quella che premeva sulle pareti.
Quanto era grande quella sala? Era un enorme anfiteatro al coperto? Era una reggia? Era un corridoio infinito? Una prigione, una cella? Era una gabbia per animali e se avesse provato ad alzarsi avrebbe battuto la testa? Era una camera di bambino? Una al cui centro capeggiava il talamo nuziale o il trono di un re?
Dove si trovava?
Ma soprattutto: perché?
I passi riapparvero lontani e vicini, sempre più vicini ma con un eco lontano. Era grande la sala, doveva esserlo per forza o chiunque fosse il suo visitatore sarebbe già giunto a destinazione. Sempre che quella fosse lui.
L'altra ombra seguì quell'intruso silenziosa come lei e le sue sorelle erano sempre state, abbracciando la figura alta e fine di un uomo, i lunghi capelli che ondeggiavano dietro la sua schiena.
Aveva un portamento fiero e deciso, ma non irruento e orgoglioso come tutti gli uomini di potere che aveva conosciuto in vita, in lui c'era un'aura di eleganza e di leggerezza, di sinuosa lentezza, che mai aveva visto. Quell'uomo era come l'acqua: si muoveva sicuro sulla superficie ora solida ora scivolosa, si insinuava in luoghi sbarrati, incurante del buio o della luce, muovendosi nello spazio come meglio credeva.
A vedere il profilo del suo corpo gli venne in mente una musica lenta di strumenti a corda, il rumore di un ruscello ed il lieve stormir di foglie. Era la pace dei sensi quella che l'uomo portava con sé e lui, forse solo ora, forse mai, non vi era abituato.
Quando la figura si fermò di fronte a lui seppe con precisa sicurezza quanto reclinar la testa per far sì che nell'oscurità i suoi occhi incontrassero quelli del nuovo arrivato. Fendettero il nero denso della stanza e videro un volto dai tratti severi ma incredibilmente delicati, un uomo senza ombra di dubbio, non un ragazzo o un giovane, ma privo di quelle spigolose sporgenze tipiche delle sue genti.
Gli occhi poi, avevano una forma allungata, gli ricordavano quasi quelli dei popoli dell'est ma avevano un taglio ancora più fine, lasciavano che solo una fessura d'iride osservasse il mondo, proprio come la porta di quella sala aveva permesso solo ad una lama di ombra di penetrarvi.
L'uomo ricambiò il suo sguardo, sapeva di nuovo con certezza che era così, per lo stesso motivo per cui sapeva che i suoi occhi erano neri, tanto neri da non riuscir a distinguere l'iride dalla pupilla. Ed erano gentile, gentili e fermi. Sicuri. Erano gli occhi di un combattente ma anche quelli di un maestro.
Un lieve fruscio di stoffe l'avverti che l'uomo si era mosso e malgrado non riuscisse a staccare lo sguardo dal suo poté facilmente intuire che gli stesse porgendo una mano.
 
«Non ho mai avuto l'onore di conoscervi, giovane signore, ma sono qui per rimediare.»
La sua voce era gentile proprio come il suo aspetto e rispettosa e musicale come la melodia che la sua presenza gli aveva ispirato.
Con la voce graffiante, roca dopo il troppo tempo per cui aveva taciuto, l'altro rispose piano.
«Perdonatemi voi, mio signore, per esser in queste pietose condizioni. Vi stringerei la mano ma non vorrei arrecarvi fastidio.» spiegò alzando le sue di mani, mostrandogli quanto fossero sporche di sangue anche se non sapeva se l'uomo sarebbe stato in grado di vederlo.
Quello annuì e si chinò a terra, poggiando incurante il ginocchio nel lago rosso in cui l'altra anima giaceva da tempo indefinito. «Non vi è fastidio alcuno in un così nobile colore ed un così essenziale liquido.» gli prese gentilmente la mano destra e chinò la testa in segno di rispetto, malgrado fosse lui quello degnamente vestito, malgrado fosse lui quello che vagava libero e non rinchiuso in un luogo senza dimensione, malgrado l'altro di nobile non avesse nulla.
Il carcerato chinò anch'esso la testa rispettosamente. «Allora sono semplicemente lieto di conoscervi. Spero non vi sembrerà scortese se vi chiederò chi siete e se sapete dove mi trovo. Sempre che possiate dirmelo.»
Poté giurare di vedere una scintilla brillare negli occhi neri del guerriero, ma la sua espressione rimase immutata e solenne.
«Siete molto saggio, giovane signore. Vi dirò il mio nome e dove vi trovate quando il mio Signore mi concederà di dirvelo. Per ora posso solo chiedervi di seguirmi e di fidarvi delle mie parole.»
Dopo un momento di silenzio un sorriso morbido ed affascinante tese le labbra dell'anima, un'espressione capace di irradiare calore anche in quell'antro cupo ed umido.
«Non posso far altro, mio signore, che fidarmi di chi con tanta gentilezza e tante educazione parla ad un mendicante come me.»
L'uomo con gli occhi neri annuì alzandosi senza lasciare la sua mano, porgendogli piuttosto anche l'altra per aiutarlo a tirarsi in piedi sulle gambe instabili e tremanti.
«Vi prego di non dir tali parole, non siete un mendicante, so con chi sto parlando.»
« Spero di saperlo preso anche io.»
« Lo saprete, il mio Signore vi illuminerà.»
« Allora siate la mia guida.»


 
*
 


Eliza avrebbe voluto dire di non aver mai assistito ad una scena del genere ma purtroppo non era così. Quando lei e Cade erano tornati indietro, stringendo saldamente la medaglia del mastino che avevano affrontato, le era parso di esser tornata in vita, di esser ancora sul campo di battaglia, durante uno scontro ormai al suo termine.
Vedere Nathan riverso a terra, sorretto da una giovane sconosciuta, gli riportò alla mente i corpi dei suoi compagni immersi nel fango e nella terra smossa dai colpi di cannone. Dal sussulto che ebbe Cade, al suo fianco, Eliza poté ben credere che anche lui avesse assistito in passato ad una vista simile.
Face un passo avanti, poi un altro, un po’ più veloce, un po’ di più, sino a ritrovarsi a correre, il suo campo visivo che si apriva ed abbracciava anche gli altri interpreti di quell’atto.
C’era Jane china a terra, le caviglie magre che uscivano scompostamente dal bordo della gonna logora, lo sguardo perso nel nulla, come se si fosse appena ripresa dal colpo di un fulmine. Jonas invece era mezzo nascosto dietro alla figura altissima ed imponente di un uomo dalla lunga barba rossa, che gli teneva una mano sulla spalla e gli parlava a bassa voce.
Non erano in pericolo, lucidamente avrebbe potuto dirlo con certezza, ma vederli così, veder Nathan, quel piccolo stronzetto sempre arrabbiato e strafottente, debole e alla mercé di chiunque; veder Jane così persa, proprio com’era quando l’avevano trovata e non guardinga e diffidente come aveva imparato essere; veder Jonas, piccolo ed indifeso, sovrastato dalla massa gigantesca di uno sconosciuto… Eliza non se ne rese conto ma accelerò ancor di più, finché non sentì qualcosa di fresco sfiorarle il volto ed una spinta gentile distribuirsi su tutta la sua schiena, portandola quasi a volare verso i loro compagni.
Non ebbe bisogno di girarsi per rendersi conto che Cade la stava aiutando, che era in ansia tanto quanto lei.
Cos’era successo?

«JONAS!» la voce dell’Irlandese quasi le sturò un timpano, facendo sussultare Jane, che si volse subito a guardarli, attirando l’attenzione della ragazza bionda vicino a Nathan, che senza troppe cerimonie lo rispinse a terra quando questo cercò di alzarsi, sino a giungere al diretto interessato.
Jonas si sporse oltre l’uomo dai capelli rossi, l’espressione confusa, intontita. Ma probabilmente Cade vide nel suo volto qualcosa che la figlia di Nike non riuscì a scorgere, perché lo sentì imprecare a mezza bocca prima dispiccare un salto in avanti.
La pressione dell’aria alle sue spalle diminuì, ma ormai aveva preso velocità e non le ci volle molto prima di giungere davanti agli altri.
Cade aveva la faccia di uno a cui era stato affidato un compito e che si era distratto solo per quei due secondi utili affinché qualcosa andasse storto. Eliza non poteva dirlo con certezza ma Lea invece, che l’aveva osservato con interesse, classificandolo subito come un semidio nel momento stesso in cui l’aveva sentito arrivare, seppe riconoscere quello stato d’animo che più di una volta aveva visto negli occhi di Giuseppe.
Alternò lo sguardo dal ragazzino biondo al rosso appena arrivato ma non vide nulla che li accomunasse, né i tratti somatici, né il vestiario. Quei due erano sconosciuti, o almeno lo erano in vita, ma allora perché quel semidio aveva la stessa, identica, spiccicata espressione che aveva suo fratello quando lei si faceva male?
Úranus, vedendo quella furia arrivare così velocemente, si spostò automaticamente davanti al più piccolo, facendogli scudo con il suo stesso corpo e allungando anche una mano in direzione di Lea, come se potesse proteggere anche lei dalla sua posizione.
Quel semplice gesto parve prendere di sorpresa l’altro rosso, che frenò il suo salto, scivolando leggermente sulla terra brulla, fissando gli occhi dritti in quelli ghiacciati dell’altro.
Un brivido colò lungo la schiena di Lea, per un attimo terrorizzata all’idea che il potere del suo compagno potesse attivarsi su quel giovane e spingerlo in uno stato tale da sentirsi in pericolo ed attaccare. Nathan, ancora steso a terra, dovette avere lo stesso timore. Puntò i gomiti e cercò di far leva sugli avambracci, non protestando quando Lea, senza pensarci, gli passò un braccio dietro la schiena per aiutarlo a portarsi seduto. Il biondo alzò un braccio verso il nuovo arrivato, pronto a dire qualcosa che rimase però bloccato dalle corde vocali intorpidite da quel sonno forzato. Jane invece volse di scatto la testa verso la ragazza mora che si era avvicinata e la guardò con fare allarmato.
Tutti loro si aspettavano il peggio e fu con grandissima sorpresa che si resero conto che non sarebbe mai successo.
Il ragazzo dai capelli rossi guardò con curiosità Úranus, la schiena dritta, il petto in fuori, le braccia rilassate. Non aveva un accenno di fiatone, non una goccia di sudore, non un fremito delle membra. Fissava l’altro per poi sporgersi a controllare il ragazzino, ignorando completamente il pericolo che stava correndo e che aveva appena sfiorato. Studiò con attenzione il più piccolo e si rivolse di nuovo al gigante buono.
 
«Lo hai aiutato tu?» gli chiese con voce calma e gentile.
Nathan non poté far a meno di strabuzzare gli occhi, Jane si voltò verso di loro a bocca aperta e persino Eliza guardò il loro stupido roscio con espressione incredula.
Úranus dal canto suo rimase sorpreso da quella domanda, ma poi, lentamente, impacciato come solo lui sapeva essere, annuì piano.
«Credo fosse un attacco di panico, ma non dovete darvi pensiero, vostro fratello sta bene.» rispose con garbo.
Un singulto sorpreso scappò dalle labbra pallide di Jonas, che con un passo traballante si fece avanti scostandosi da dietro la sua personale barriera.

Non sono suo fratello.
 
Avrebbe voluto dire, sentiva le parole proprio sulla punta della lingua ma sentiva anche questa pesante, la bocca pastosa. Una ventata di calore gli esplose sul volto, dalle guance alle tempie, le orecchie ed il collo. Sentì una forte pressione allo stomaco e l’unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata sotterrarsi da qualche parte per evitare la vergogna.
Cazzo, l’avevano davvero scambiato per il fratello di Cade? Si poteva morire d’imbarazzo?

«Non è mio fratello.» disse con tranquillità l’altro, senza dar segno che l’affermazione l’avesse infastidito, «Ma ti ringrazio ugualmente per averlo aiutato, questo posto non gli fa bene.»
Jonas aggrottò le sopracciglia: okay essere gentili, ma così sembrava quasi che stessero parlando di un bambino. Quel singolo pensiero gli fece storcere il naso ed incassare la testa nelle spalle.
 
Ma ovviamente sono il più piccolo, quindi per loro ci sta parlar di me come di un moccioso. Magnifico, sì, fantastico, oggi ci siamo guadagnati due attacchi di panico, un pungo in pancia, un discorso di consolazione pietoso, dei ricordi sgradevoli e un bel discorsetto imbarazzante su come io sia il bambino a cui questo posto “non fa bene”. Grazie padre.
 
«Oh, mi spiace aver frainteso, spero di non avervi offeso. Eppure…il vostro volto…» il gigantone pareva imbarazzato quanto lui almeno, anche se più per la gaffe che per altro.
Cade però gli sorrise raggiante. «Deformazione professionale!» trillò allegro. «Credo che l’unico che si sia offeso qui è Jonas, io sono abituato a chiamare fratello qualcuno che non ha neanche una stilla di sangue uguale alla mia. Sono Cade Griffith, comunque, grazie ancora per aver aiutato il nostro moccioso imbronciato-»
«Ehi!» protestò Jonas tornando immediatamente in sé.
« - e grazie alla tua amica per aver aiutato il nostro moccioso stronzo.»
«Vaffanculo roscio di merda!» ringhiò Nathan. Poi il suono secco di uno schiaffo, dritto dietro la nuca.
«Pulisciti la bocca quando parli o giuro che ti rimando dritto dov’era due minuti fa!»
La ragazza bionda che ancora lo sorreggeva lo fulminò con lo sguardo, girandosi poi verso Cade e regalandogli un sorriso di scuse. «Mi spiace che tu debba aver a che fare con questa piaga dell’umanità. Lea Pozzi – si presentò – ti stringerei la mano ma se mollo questo deficiente cadrà di nuovo a terra.» spiegò come se Nathan non fosse lì a sentirla.
«Ma chi te lo dice! So reggermi perfettamente da solo, non sono un cazzo di malato termin- ahio!»
Un secondo schiaffo, questa volta dritto in fronte, lo fece bloccare di colpo.
«No purtroppo, i malati terminali sono decisamente meglio di te. E ti ho appena detto di non usare questo linguaggio! Tua madre era una santa donna, educata e gentile anche nelle situazioni peggiori, potresti portare un po’ d’onore alla sua memoria parlando come ti ha insegnato a fare!»
I due biondi cominciarono a discutere animatamente, rivangando eventi passati successi probabilmente nei Campi Elisi come se si conoscessero da una vita e, da altrettanto tempo, cercassero di togliersi l’altro dai piedi in modo definitivo.
Ma Lea comunque non lasciava la presa attorno alle spalle di Nathan, continuando a sostenerlo e Nathan aveva lentamente abbassato il tono di voce.
Cade ridacchiò divertito e si girò verso le altre due ragazze presenti.
«Stia bene ragazza delle Praterie?» chiese rivolto a Jane.
Quella si limitò a guardarlo male ed accettare con piacere la mano che Eliza gli porse per tirarsi su.
Il rosso si voltò verso il suo nuovo conoscente. «Fa così perché mi adora, sono il suo preferito.» gli sussurrò come se stesse rivelando un grande segreto.
«Ti odia.»
«Non ti sopporto.»
«Le stai palesemente sul cazzo. AHIO! Ma porca di quella puttana, la vuoi smetter di prendermi a schiaffi?»
«E tu la vuoi smettere di esser così volgare?»
Il gigante sorrise, anche se sembrò molto più un tentativo che un sorriso vero e proprio.
« Úranus Mjöllson.» disse impacciato offrendo la mano a Cade.
La differenza d’altezza era lampante, anche se non tanto quanto quella con Jonas, ma con quell’atteggiamento così remissivo, così timido e chiuso era l’Irlandese quello a sembrar più grande. Lui stesso parve notarlo e stringendo vigorosamente la mano dell’altro, senza il minimo timore di toccarlo, gli chiese sorridendo: «Quanti anni hai, ragazzone? No perché, senza offesa eh, ma anche se sei un armadio a tre ante mi pari ancora molto giovane.» 
Jonas, di fianco a lui, lo fulminò con lo sguardo. «Stai per ricominciare quella cosa di chi è il più grande in base ad età di morte o data di nascita?» domandò a voce bassa, cercando di non farsi sentire da Nathan. E fallendo miseramente.
«Non me ne frega un cazzo di quello che dite! È Jonas il più piccolo, io ho ventiquattro anni!»
«Non conta a che età sei morto, conta quando sei nato, cretino! Puoi anche aver sessant’anni, ma se io sono nata anche solo un anno prima di te sono comunque più grande!» lo riprese subito Lea incrociando le braccia al petto ma continuando a tenere sott’occhio il modo pericoloso in cui il militare ondeggiava nonostante fosse seduto.
«A sì?» domandò lui guardandola con aria di sfida. «Allora dimmi un po’, quanti anni avresti?»
«Non si chiede l’età ad una signorina.»
«Peccato che io qui non ne veda neanche una.» non riuscì neanche a finire la frase che un terzo scappellotto lo prese preciso sulla nuca.
Voltandosi di scatto si ritrovò la figura severa ed ammonitrice di Eliza che lo fissava male dall’alto.
«Quante volte ti ho detto di portare più rispetto?» gli domandò retorica.
«Ma che cazzo! Cosa siete? Le mie madri fantasma?» si lamentò cercando l’appoggio di Cade che gli sorrise sorprendentemente dispiaciuto.
«Lo so bello, è brutto star tra due fuochi, ma te la sei cercata de sto giro.» disse alzando le mani. «Comunque, il più grande sono io per il momento, se vogliamo prendere per buona la scelta dell’età di morte. Ho ventisei anni. O per lo meno li avevo… ora saranno un po’ di più.» sorrise ancora rivolgendosi direttamente ad Úranus.
Il ragazzone annuì. «Io ne avevo ventidue.»
«AH!» saltò su Nathan traballando. «Sono più grande anche di lui!»
«Non cantar vittoria, hai la mia stessa età.» sbuffò la figlia di Ecate, lasciando il biondo a fissarla sconvolto da quella rivelazione. «Jane Parris.» si presentò poi.
«Elizabeth Reed. Io ne avevo ventidue.» concluse la mora porgendo anche lei la mano ad Úranus.
Il giovane la fissò per un attimo senza sapere cosa fare e Cade, ridacchiando, gli diede un colpo leggero con il gomito.
«Stringile pure la mano più forte che puoi, è una soldatessa!»
Bastarono quelle semplici parole per catalizzare l’attenzione dei due esterni al gruppo dritta sulla ragazza.
Úranus batté le palpebre e poi annuì rigido, stringendo comunque con delicatezza la sua mano.
«Mi perdoni, signorina.» disse chinando leggermente il capo.
«Una soldatessa? Di dove sei? Quando hanno cominciato a poter arruolarsi anche le donne? Non sembri della mia epoca.» Lea quasi saltò in piedi dirigendosi verso Eliza a grandi passi e stringendole anche lei la mano.
La figlia di Nike rimase quasi stordita da tutte quelle domande.
«Sono- sono americana. La mia famiglia era originaria dei pressi di Nuova York.»
«New York… anche voi lo siete?» chiese poi rivolta agli altri tre, ignorando del tutto Nathan.
Cade scosse la testa. «Irlandese. Sempre che la mia terra esista ancora, o che esistesse quando tu eri in vita.» sospirò in fine con tono amaro.
Il figlio di Ares gli lanciò uno sguardo valutativo ma stette zitto, studiando con attenzione tutti gli altri.
Jane invece annuì. «Salem.» disse solo, poi ci ripensò, «Non so se sapete dove si trova…» continuò con tono vago.
Lea le sorrise gentile. «Purtroppo non per un bel motivo, ma so dove si trova, sì. Me ne parlò mio fratello.»
«Io sono tedesco.» rispose invece Jonas. Tentennò. «Di Berlino. Jonas Friederich. Piacere.»
La ragazza bionda sorrise anche a lui. «Ti sei ripreso Jonas? Se ti senti ancora spossato posso fare qualcosa per aiutarti.» si propose con gentilezza.
L’altro scosse la testa. «Solo un po’ stordito, ma sto bene, grazie.» disse un poco imbarazzato.
Lea gli sorrise annuendo pur continuandolo a scrutare con attenzione, con quell’occhio clinico che già le aveva visto. Quando sembrò soddisfatta del suo esame annuì un’altra volta e si voltò di nuovo verso Eliza.
«Non mi hai ancora detto da che periodo vieni. Io sono della prima metà del 1800, ma non era permesso a noi donne di entrare nell’esercito se non come infermiere.» spiegò con calma, attenta ed interessata a quel discorso in modo particolare.
Ma altrettanto particolare era la risposta che avrebbe potuto darle l’altra.
Eliza la guardò per un minuto senza sapere cosa dire, ritrovandosi quasi a boccheggiare davanti a possibili spiegazioni.
Fu Nathan a toglierla d’impaccio, a modo suo.
«Che cazzo vuol dire “la prima metà dell’Ottocento”? Mi stai dicendo che sei più vecchia di me?»
La bionda si volse verso di lui alzando un sopracciglio. «Che sei un moccioso fastidioso lo si poteva capire anche senza sapere che sei un poppante, cronologicamente parlando e anche a livello caratteriale.» disse storcendo il naso.
«Ehi! Ho fatto la guerra in Vietnam io!» ringhiò.
Úranus lo guardò confuso. «Dove si trova questo luogo?»
Cade si strinse nelle spalle. «Dal nome sembra qualcosa di esotico. Tu nel dubbio annuisci.»
«Non sapete dov’è il Vietnam?» chiese il soldato guardandoli male. I due scossero la testa senza vergogna.
«Non lo so neanche io.» fece Jane scrollando le spalle con disinteresse.
Nathan imprecò a mezza bocca alzando gli occhi al cielo. «Che ho fatto di male nella vita?»
«Vuoi la lista?» chiese sarcastica Lea guadagnandoci un altro ringhio.
«Più che altro, quando e perché sarebbe scoppiata una guerra in Vietnam?»
La domanda di Jonas riportò tutti al punto iniziale.
«Tu sai dove si trova?» domandò Nathan scettico.
Il ragazzino lo fissò infastidito da quella palese mancanza di fiducia. «Non so te, ma io sono stato a scuola.» sputò acido. «E ho studiato. Il Vietnam è uno Stato a confine con la Cina, si trova in Asia.»
Cade fischiò. «Uno a zero per il biondino contro il biondastro. Punto la mia moneta porta fortuna sul piccoletto.» sussurrò rivolto ad Úranus che lo fissò senza capire.
«Sto per darti un pugno.» lo avvisò quello.
«Lo so che mi ami, non c’è bisogno che lo dimostri continuamente.» sorrise il rosso di rimando, guadagnandosi uno sguardo imbarazzato.
«La guerra in Vietnam è scoppiata nel ’55.» disse Nathan infastidito.
Jonas, improvvisamente più interessato lo guardò attento. «Nel 1955?»
«Esatto.»
«E tu quanti anni avevi?» chiese Lea «Quando scoppiò, non quando sei morto.»
Il giovane grugnì. «Sono del ’42.»
«1942?»
«Cristo santo, ragazzino! Sì, quando dico un numero senza dire il millennio intendo il 1900!»
Jonas gli rifilò un’occhiataccia, poi sogghignò, la stessa identica espressione infame di Cade.
«Oh, quindi sei nato parecchi anni dopo la mia morte, ragazzino.»
Le risate trattenute di Cade e Lea ed il ghigno cattivo di Jane fecero drizzare i peli sulle braccia a Nathan, che pareva decisamente intenzionato a prendere a pugni il più piccolo.
«Qualcuno direbbe touchè.»  rincarò la dose il tedesco.
«Va bene, finitela.» s’intromise Eliza prima che la situazione degenerasse. Non sapeva cosa fosse successo ma in un qualche modo aveva dato una scossa a Jonas che ora, sorprendentemente con grande sollievo della figlia di Nike, sembrava riuscire a rapportarsi a Nathan così come faceva con Cade. Solo che il rosso ne rideva, mentre non sapeva proprio quanto il soldato avrebbe potuto farlo.
«Quindi, qualcuno più piccolo del 1942?» domandò malefica Jane sogghignando in direzione del soldato. «Io sono del 1690.» affermò poi.
Cade sorrise. «Wooo! Certo che sei vecchia! Io sto a cavallo tra la fine del 1800 – ed ammiccò in direzione di Lea – e il 1900.» concluse ammiccando a Jonas.
«Hai visto entrambi i secoli?» chiese la ragazza. «Di che anno sei?»
«1891.» sorrise. «Ora posso sapere anche io il tuo? Non ti chiedo quanti anni hai, solo quando sei nata.» disse subito.
Lea gli sorrise divertita. «1827. Sono la più grande nel nostro millennio.» fece soddisfatta.
Cade annuì. «Jonas?»
«Nascita?»
«Yessir!» cinguettò allegro.
«1920.»
Cade fischiò e si voltò verso Nathan battendo le mani. «Sei ufficialmente il più piccolo, ragazzino!»
«Non ti azzardare a chiamarmi così!»
«Eliza? Prima che il bambino si metta a battere i piedi?» lo ignorò completamente.
«1759.»
A quella data però Lea batté le palpebre confusa. «Ma è molto prima di me…»
Jonas annuì. «Una ventina d’anni dopo c’è stata la Guerra d’Indipendenza.»
Eliza prese un respiro profondo. «Ed è in quella che ho militato. La storia è un po’ lunga e complessa.» tagliò corto, e cercando di distrarre l’attenzione degli altri si voltò verso Úranus, che fino a quel momento era stato in religioso silenzio a- fissare il vuoto?
«Úranus, giusto?» chiese piano.
Lea portò subito lo sguardo sul suo compagno e senza esitazione gli si avvicinò poggiandogli una mano sul braccio.
«Úranus? Tutto bene?»
Gli occhi azzurrissimi del giovane gigante si puntarono dritti in quelli della figlia di Apollo ed annuì.
«Quando sono nato correva l’anno del Signore 1599.»
«Abbiamo un vincitore!» rise Cade a gran voce, poi prese un profondo respiro di naso strizzando gli occhi e si bloccò. Iniziò a fiutare l’aria e si espresse in una smorfia contrita che fece alzare un sopracciglio a Jonas.
«Che hai?»
«Che siamo una massa di deficienti.» borbottò a voce bassa.
«Parla per te, roscio di merda.» ringhiò Nathan.
«Invece parlo anche per te, visto che sei stato qui a chiacchierare con noi come se ci fossimo incrociati in piazza e non in mezzo ad un recinto di bestie di satana.»
Jonas sbiancò, facendo un passo verso l’Irlandese e guardandosi attorno allarmato.
«Non dirmi che abbiamo davvero fatto questa cazzata.» sussurrò allungando una mano per afferrare il bordo della giacca di Cade.
Quello gli sorrise tirato. «Peggio, abbiamo perso tempo, fratellino.>
 

 
*
 


Si mosse a disagio nella presa ferrea che lo teneva schiacciato contro il muro. Il braccio era fasciato da un lungo bracciale che lo circondava dal polso al gomito e quel metallo freddo e graffiato quasi gli doleva premuto contro il suo piccolo petto.
Il bambino aprì le labbra secche e rosse, prendendo respiri profondi e silenziosi come gli era stato insegnato per non farsi sentire. Doveva mantenere la calma, doveva rimanere fermo come gli avevano detto, non respirare troppo rumorosamente e soprattutto tenere le orecchie e gli occhi aperti: al minimo segnale avrebbe dovuto correre come mai aveva fatto in vita sua.
Per avere solo sei anni gli era capitato un po’ troppo spesso di dover raccogliere tutte le energie e scattare lontano dai pericoli. C’era nato lui, nel bel mezzo del pericolo. O almeno questo era quello che gli avevano detto, non che ne avesse memoria lui.
Era nato nel bel mezzo del pericolo, all’alba di un secolo che avrebbe portato guerra, morte e distruzione, che avrebbe diviso popoli e famiglie, frammentato Stati, arso Nazioni, sogni, speranze, uomini e libri.
Non lo sapeva, non poteva ancora saperlo per lo meno, nessuno poteva ipotizzare tutte le nefandezze che di lì a pochi anni si sarebbero compiute, non quando il mondo era appena uscito da un conflitto che per la prima volta l’aveva visto coinvolto interamente.
La Grande Guerra aveva toccato tutti, senza risparmiare corone ed eroi, ferendo nel profondo ogni singolo essere di quella terra come mai aveva fatto prima. Era stata la follia dell’uomo, ancora una volta, ad accendere il falò che aveva incendiato ogni cosa.
Ma sebbene la Grande Guerra fosse finita, sebbene le radio avessero gracchiato il termine ufficiale di quel conflitto mondiale, c’erano cose, esseri, che ancora si aggiravano per i continenti fermi e per gli oceani agitati, tra i cieli nuvolosi e nelle viscere più profonde del pianeta. Questa era una delle poche certezze che aveva, una delle poche cose che sapeva per certo dall’alto di quei sei inverni vissuti in movimento, in solitudine.
Respirò ancora attento a non far rumore, avrebbe voluto vedere la prossima estate, gli avevano promesso il mare e la sabbia scura, i sassi ed i tuffi, non poteva permettersi di perdere quell’occasione, l’ultima forse, che avevano di stare tutti assieme.
Sempre che gli Dei glielo avrebbero permesso.
 
«Sei pronto? Stiamo per andare.» disse la giovane che lo teneva fermo.
Il bambino alzò lo sguardo verso di lei ed annuì serrando subito le labbra.
Osservò il suo profilo regolare, il viso girato di tre quarti verso la strada libera, i capelli scuri legati in modo scompigliato, la frangia che le ricadeva sulla fronte coprendo la ferita alla tempia che ancora sanguinava. Non riuscì a scorgere lo scintillio luminoso dei suoi occhi, quel colore così caldo ed avvolgente che per lui significava solo famiglia ma che per tutti gli altri era il marchio indelebile di una maledizione.
I suoi vestiti erano maschili, la camicia forse era appartenuta ad un adolescente, era di un verde cupo e sbiadito, sopra di essa un mezzo pettorale di pelle abraso si legava sotto il seno schiacciato da una stretta fasciatura, così come un tempo le avevano insegnato le Amazzoni per non aver intralci.
I pantaloni marroni erano macchiati di fango e di sangue, c’era dell’Icore lì in mezzo, qualche traccia di uno strano fluido verdastro ed appiccicoso ed un paio di bruciature. In compenso gli stivali da soldato sembravano nuovi.
Stringeva nella mano destra una lunga spada scintillante, sembrava venata d’oro, un mosaico tessellato di grandi mattonelle lucenti. L’elsa era semplice, un grande topazio brillava però in una corona d’ambra, illesi entrambi da qualunque danno, puliti come se qualcuno li avesse appena lucidati.  Malgrado l’impugnatura fosse completamente coperta il bambino sapeva perfettamente che sotto di essa vi era il disegno di un cerchio con un’unica linea, come una meridiana.
Non rispose alla domanda dell’altra, sicuro che quella sapesse alla perfezione che nel momento esatto in cui gli aveva rivolto la parola sarebbe stato pronto ad eseguire qualunque ordine.
Mosse a mala pena il capo, un accenno di assenso che non riuscì a controllare, e fletté le piccole gambe magre in attesa del segnale di partenza.
Non dovette aspettare molto prima di sentirsi tirare per la giubbetta e poi esser preso per mano.
Si ritrovò a correre a perdifiato, prima regola mai guardarsi indietro, e a saltare le buche e le macerie di quella piazza dissestata, aggrappandosi alla sua compagna come se ne andasse della sua stessa vita, come se non fosse neanche capace di lasciare quella stretta solida.
Vide un lampo veloce alla sua destra, la spada della giovane aveva fenduto l’aria con un sibilo feroce, come se fosse stata una belva e non un’arma ben affilata, uno schizzo rossastro s’alzò nel cielo e poi ricadde pesantemente a terra con un rumore umido ed un tonfo sordo.

Non guardare mai indietro, non guardare mai chi cade.
 
Si ripeté quelle parole in testa, gli occhi fissi sul vicolo entro cui si sarebbero dovuti lanciare di lì a poco, un angolo di salvezza in quella terra di nessuno in cui si erano ritrovati.
Sentì la giovane imprecare in una lingua che ancora non capiva alla perfezione, dicendo parole che non conosceva ma che presto, continuando di quel passo, avrebbe imparato molto velocemente.

« Corri! Vai avanti!» gli disse lanciandolo davanti a sé e dandogli le spalle per parare il colpo di un mostro che lui non doveva guardare, non doveva vedere.
 
Non incrociare mai lo sguardo con uno di quegli esseri, non farlo mai a meno che tu non sia certo di poterlo uccidere.
 
Lasciò a malincuore quella mano che gli dava tanta sicurezza, la sensazione che nel momento esatto in cui avrebbe smesso di avvertire il calore dell’altra tutto si sarebbe spezzato e sarebbe andato a rotoli era forte in lui, ma ancora una volta ingoiò quel groppo amaro che gli stava serrando la gola e caricò a testa bassa verso il vicolo, alzando le braccia per proteggersi dai frammenti che volavano in aria, dagli acidi e dai veleni, dal sangue e dalla morte.
Un piede davanti all’altro, più velocemente possibile, le ginocchia sbucciate che reggevano lo scatto veloce, le caviglie piccole che supportavano tutta la pressione del corpo, ad ogni passo, ad ogni salto, ad ogni curva e ogni finta. Dritto verso il vicolo, di lì pochi altri metri e sarebbe stato quasi salvo, superato il cancello, oltre l’inferriata gli avrebbero coperto le spalle, a tutti e due. Oltre il portone spalancato sarebbero infine stati al sicuro da tutto e tutti.
Doveva solo arrivarci, solo mettere un altro passo davanti a quello precedente e non-
Un grido sorpreso lo colse alla sprovvista, la voce della giovane gli giunse chiara e forte e per quella volta – la prima ma di certo non l’ultima – non riuscì a tener fede alle regole che gli erano state inculcate in testa.
Si voltò veloce verso la piazza, guardando con orrore un mostro scaraventare a terra la stessa donna che lo aveva protetto per tutto quel tempo. La vide rotolare via prima che il mostro calasse su di lei e in quel momento non seppe cosa fare. Rimase immobile, voltando solo il capo da una parte all’altra, fissando ora il vicolo salvifico ora la piazza in rivolta. Avrebbe voluto urlare e chiamare aiuto ma sapeva fin troppo bene che finché non fossero entrati in quel cancello nessuno sarebbe potuto accorrere. Forse avrebbero fatto un’eccezione per lui ma non per lei, perché non era come loro, non era lo stesso sangue quello che scorreva nelle sue vene, non erano suoi compagni.
Un tremolio gli scosse le gambe, cosa doveva fare? Correre da lei? Ma era disarmato, come avrebbe potuto aiutarla? Doveva allora andarsene, lasciarla lì, seguire le regole e non voltarsi più?
Abbandonarla o morire assieme?
Non ebbe il tempo di pensarci troppo, la giovane si mise in piedi con uno scatto fulmineo, i capelli le caddero davanti al volto ma lei non parve farci caso. Fu un lampo accecante e minuscolo, neanche il flash di una macchina fotografica avrebbe potuto produrre una luce così intensa eppure così sottile, come un fulmine lontano, come una crepa illuminata a giorno. Quello fu l’unico presagio di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, il bambino ebbe appena il tempo di realizzare che la luce non era bianca che la giovane menò un mal rovescio in aria ed i mostri si fermarono, bloccati nelle loro azioni, paralizzati senza via di scampo.
La guerriera si gettò verso di lui senza neanche guardare il suo operato, recuperò al volo la spada persa durante la colluttazione e lo spinse in avanti, costringendolo a riprendere la corsa.
 
«Che cosa fai qui? Perché ti sei fermato? Lo sai che non devi mai guardarti indietro, non importa chi rimanga, sei ancora troppo piccolo per combattere, non puoi rischiare la vita così!» lo sgridò con il fiato corto ed una scintilla di paura nelle iridi calde.
Il bambino non poté vedere il suo sguardo ma intuì dal tono della sua voce quanto vederlo lì, fermo immobile come tutti quei mostri, l’avesse spaventata a morte, forse le aveva addirittura fatto credere che il suo potere avesse toccato anche lui, che fosse stata lei a colpirlo anche se entrambi sapevano quanto fosse alto il controllo che esercitava sulla sua dote.
« Hai gridato! Ho avuto paura che-»
« Non importa! Non importa nulla di quello che succede a me! Devi rimanere al sicuro. Ho giurato che ti avrei protetto anche a costo della mia stessa vita ed è quello che farò. Finché ci sarò, finché ci saremo noi, nulla ti farà del male.» quell’ultima frase era pregna di gentilezza, traboccava dolcezza ed affetto e sopra ogni cosa sicurezza.
Una carezza gli si posò sui capelli scompigliati ma non ebbe tempo di rispondere che il gracchiare acuto di un rapace fece alzar loro la testa: in lontananza tre punti neri si buttarono in picchiata verso di loro.
I due aumentarono la velocità, il bambino davanti alla donna che lo spingeva a correre ancora più, che lo incitava e gli diceva di resistere, che erano arrivati.
Entrarono nel vicolo scivolando sui liquami che lo inzozzavano, mentre i mostri volanti si facevano più vicini ogni momento che passava. Dieci metri più avanti un cancello alto e cupo accoglieva spalancato tutti i visitatori del fatiscente alberghetto, l’ultimo avamposto in quella città dimenticata da Dio. Oltre il cancello dei giovani di tutte le età attendevano con spade sguainate e frecce incoccate.
 
«Correte! Manca poco!» urlò una ragazza dai capelli striati di bianco, sull’occhio sinistro una benda medica da cui spuntava una cicatrice bitorzoluta.
Erano tutti lì fermi, frementi, in attesa che i due varcassero la soglia, pronti ad aiutarli non appena fosse stato loro possibile, non appena fosse stato loro concesso: perché quei due non erano come loro, non facevano parte della loro stessa famiglia e ciò li obbligava a rimanere fermi finché non fosse stata la loro casa, il terreno sacro su cui sorgeva, ad essere sotto attacco. Potevano difendere delle mura e dei mattoni fino alla morte ma a nessuno di loro era concesso sporsi oltre i cancelli per aiutare due anime a salvarsi dalla morte. Nulla lì legava, nulla li autorizzava a farlo, potevano solo attendere.
Il bambino guardò quello schieramento con un sospiro di sollievo bloccato tra gli ansiti della corsa, aveva ragione Raja, mancava poco, dovevano tener duro. Poi il gracchiare assordante di un corvo gli perforò i timpani, riuscì a sentire chiaramente una bolla esplodergli nelle orecchie come lo scoppio di una bomba. Un’ombra calò su di loro ed il bambino non poté far altro che chiudere gli occhi spaventato, mentre due mani lo spingevano con violenza lontano dal punto d’attacco.
Rotolò a terra, faticando a fermarsi e tirarsi su, così vicino al cancello e così lontano dalla giovane che ora, a spada sguainata, lottava contro quegli esseri mostruosi.
Urla d’avvertimento cercavano di aiutarla a combattere, a parare il colpo di destra, l’affondo a sinistra, ma non potevano far altro, non potevano che guardare la loro amica combattere con tutte le sue forze, consci della sua potenza ma anche del fatto che non potesse usarla a pieno se non voleva esser individuata immediatamente da chiunque.

Gli servirono altri due anni per capire che quel giorno la guerriera non aveva usato i suoi poteri per salvarsi non perché così sarebbe stata rintracciata dai loro nemici, ma perché avrebbero rintracciato lui.
L’orrore gli aveva spalancato gli occhi quando si era reso conto di quante volte la giovane donna avesse rischiato la vita pur di tenerlo al sicuro, nascosto da tutto e tutti. I sensi di colpa lo avevano accompagnato sino alla fine.

Dal cielo cadde un fulmine bluastro, i tre mostri vennero sbalzati via dall’impatto di qualcosa con il terreno, la donna cadde in ginocchio, la spada infilata nel terreno. Il tempo di riuscire a reggersi sulle sue stesse gambe e di lanciare uno sguardo fugace al fulmine e soprattutto a chi l’aveva provocato ed era di nuovo in corsa verso il bambino.
Lo prese in braccio di slancio, premendoselo contro il petto e lanciandosi oltre il cancello per affidarlo alle braccia della ragazza dai capelli bianchi.

«Tienilo al sicuro!» urlò senza ascoltar alcuna risposta e già era di nuovo fuori, la spada in mano e lo sguardo furioso rivolto ai mostri.
Avvolto da uno sciame di scintille azzurrine un giovane da i capelli neri e corti allungò una mano verso la compagna, puntandole contro una lama lucente.
 
«Sta lì!» gridò perentorio.
Lo sciame si espanse di colpo, una seconda onda d’urto che andò a bruciare i mostri e tutto il vicolo circostante.

Nel silenzio che ne seguì nessuno si mosse.
Poi la donna avanzò piano, le membra pesanti e lo sguardo improvvisamente stanco: avevano corso per tutto il giorno, nascondendosi e combattendo contro i mostri che li avevano braccati senza posa.
Anche il nuovo arrivato si mosse, camminando sicuro verso l’altra, allargando le braccia, le mani che ancora stringevano due lunghe lame lucide.
Non servirono che pochi passi e la giovane cadde quasi tra le braccia del compagno.

«State bene?» chiese lui stringendola a sé, sostenendola come poteva. Lasciò la presa sulle spade e queste scomparvero in un baluginio azzurro come i suoi fulmini. «Siete feriti? Riesci a camminare?»
Lei annuì. «Mi dispiace, mi hanno presa al confine della città, non sono riuscita a correre più velocemente.» sospirò con voce tremante.
Le scostò i capelli dal volto e fece una smorfia quasi rabbiosa nel vedere la profonda ferita che le tagliava la pelle. Aveva resistito tutto quel tempo, chissà se riuscisse ancora a vederci bene o se il sangue l’avesse accecata.
«Non ti scusare. Perdonami tu, abbiamo avuto parecchi problemi al picco, la soffiata era giusta, l’avamposto era proprio dove ha detto la vostra ragazzina.»
La giovane sorrise senza gioia. «La loro ragazzina, non è la mia, non è della mia gente.»
L’altro provò a replicare ma una vocetta acuta li riscosse facendoli girare verso il cancello.

«Lasciami Raja! Voglio andare da loro!» strepitò il bambino scalciando in aria.
La ragazza imprecò in una lingua straniera, slava con tutta probabilità, e cercò di tenerlo fermo più possibile.
«Non dire sciocchezze! Non puoi uscire dai confini del palazzo, sei al sicuro qui dentro sta fermo!»
Ma più provava calmarlo più il bambino si agitava, finché non riuscì a sgusciare fuori dalla sua stretta e correre verso il cancello. Altre persone si sporsero nel tentativo di afferrarlo ma il bimbo era veloce, era scattante e sembrava ancora pieno d’energie nonostante le giornate infernali a cui era stato sottoposto in quell’ultimo mese.
Sorpassò il cancello tetro che brillò fiocamente, allarmato anche lui dalla fuga di quella piccola scintilla esplosiva, e si gettò a testa bassa verso i due, come aveva fatto prima puntando il vicolo, come un toro che ha individuato il suo obbiettivo.
Fu un salto alla cieca, carico della convinzione che ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a prenderlo al volo, a sollevarlo da terra, a stringerlo a sé e fargli sentire che era al sicuro, che tutto andava bene, che era a casa, era in famiglia anche se nulla sembrava andar mai per il verso giusto.
E come aveva dato per certo ben quattro braccia lo accolsero, lo sollevarono da terra, lo strinsero in un abbraccio caldo e protettivo.
 
«Mostriciattolo! È così che ci si comporta? Farai venire i capelli bianchi alla povera Raja in questo modo.» lo rimproverò il giovane in modo bonario.
Il bambino gonfiò le guance ma non lasciò la presa, il visino schiacciato trono il torace ampio.
«Tanto li ha già!» disse impertinente.
«TI HO SENTITO MOCCIOSO!» gli gridò da dietro il cancello la ragazza.
Leggere risate si alzarono dal giardino e la giovane guerriera si scambiò uno sguardo d’intesa con il compagno.
«Stai bene tu?» chiese carezzando i capelli scuri del bimbo.
Quello annuì e alzò di scatto il capo.  «La tua ferita! Ha una ferita alla testa!» strepitò guardando l’altro che rispose con un cenno secco del capo.
«Lo so, ora la portiamo in infermeria. E ci portiamo anche te, sei pieno di graffi.»
«Ho combattuto anche io! Vero?» cercò conferma nella giovane che gli sorrise dolcemente e gli baciò la fronte.
«È stato il mio cavaliere senza macchia e senza paura.»
«Beh, a dire il vero un po’ di paura ce l’avevo.» borbottò quello.
Gli altri due risero e con una spintarella gentile l’uomo li condusse verso il cancello.
«Ve bene avere paura, è la paura quella che ti tiene in vita, ricordalo sempre.»
«Non è il coraggio?»
L’altro scosse la testa. «Il coraggio è una conseguenza della paura: non puoi aver coraggio se non c’è nulla per cui esser coraggiosi.»
«Non starlo a sentire.» lo interruppe la compagna. «Si può essere coraggiosi in molti modi e per molti motivi. Si può esser coraggiosi per difendere qualcuno.»
«Ma difendi qualcuno solo per paura che non possa farlo da solo, quindi il coraggio deriva dalla paura.» la corresse alzando un sopracciglio.
Lei lo fulminò. «Non fare questo gioco con me, Alphonse, mi hanno dato una botta in testa ma ancora ragiono bene.» poi rivolta al bambino. «In ogni caso, che la paura ti tiene sveglio è vero. Ma devi imparare a non farti soggiogare da lei, o rimarrai fermo immobile in mezzo al combattimento com’è successo oggi.»
«Come oggi? Perché, ti sei fermato? La prima regola è non guardarsi mai indietro e continuare a correre.» gli disse guardandolo serio.
Il bambino abbassò lo sguardo stringendo il tessuto ruvido della giubba del giovane.
«Ho sentito un rumore forte e poi un grido…» rimase sul vago, non disse chi era stato a gridare ma l’altro parve intuirlo perfettamente perché sospirò e rimase in silenzio finché non furono finalmente oltre il cancello, circondati da amici e alleati.
«Posso capire che questo ti abbia fermato, ma non sei ancora abbastanza grande per combattere-»
«Me lo dite sempre! Me lo dite in continuazione! Ma anche io voglio fare la mia parte! Anche io voglio aiutarvi, combattere con voi e con gli altri!» gridò accorato guardandolo fisso negli occhi.
Il sorriso morbido e triste che piegò le labbra del giovane fece tacere anche il minimo brusio nel giardino.
«Io invece prego che tu non debba mai farlo…» sussurrò piano. «Forse verrà un giorno in cui sarai costretto, dovrai imbracciare un’arma e combattere per la tua vita. Se questo accadrà, però, significa che le persone che vedi attorno a te, tutte quelle che hai conosciuto, i nostri amici, i grandi combattenti sparsi per il mondo, tutti noi avremmo fallito e non saremo stati in grado di consegnare a voi bambini un mondo sicuro.»
«Le guerre ci sono sempre state e sempre ci saranno, è la natura umana.» continuò con tono dolce la giovane donna, «Ma stiamo lottando ora per far sì che le generazioni future non debbano farlo, non con la stessa violenza e la stessa disperazione che anima noi. Lo stiamo facendo per voi, per ogni singolo bambino nato sotto la nostra stessa maledizione e per ogni singolo bambino nato senza. Non vogliamo impedire solo a te di combattere, vogliamo impedirlo a tutti e finché saremo vivi, tutti noi ti giuriamo che non dovrai mai preoccuparti di scendere in campo e lottare perché vi terremo al sicuro. L’ho giurato, anzi, abbiamo giurato davanti agli Dei che nulla ti sarebbe mai successo, che nessuno sarebbe mai riuscito a torcerti un solo capello. Facci adempiere al nostro giuramento.»
Il silenzio si spanse lento e morbido, il bambino chinò il capo sconfitto non tanto dal discorso forse anche troppo complesso per lui quanto dal tono pregno d’affetto dei due.
 
L’avevano giurato, è vero.
 
La mano lunga e callosa del guerriero gli carezzò i capelli cercando di pettinarglieli un poco, gli sorrise quando incrociò il suo sguardo ed il bambino, non per la prima volta, pensò che quelli fossero gli occhi blu più belli del mondo. Senza rendersene conto rispose a quel sorriso, mostrando i dentini piccoli e storti, tirando le labbra in una linea ampia e solare.

«Quando sarò grande però vi proteggerò io! Tutti quanti voi! Questo è il mio di giuramento!»
Alphonse rise e annuì. «Ti prendo in parola, mostriciattolo.»
«Quando sarai grande però, ora dobbiamo andare in infermeria a farci curare.» gli sorrise la giovane.
L’altro annuì. «Sì, prima che Clara ci svenga qui sul colpo.»
Lei sbuffò, «Servisse così poco per mandarmi giù. Non sono più una ragazzina, sai quanto posso resistere.» gli lanciò uno sguardo di sfida e poi, inevitabilmente, si ritrovarono a sorridersi come due bambini che condividono il segreto di una marachella.
Alphonse passò il bimbo da un braccio all’altro, stringendo con quello libero le spalle di Clara per aiutarla a camminare dritta fino alle scale e poi lungo tutto il corridoio che li avrebbe portati all’infermeria.
«Poi ci tocca anche un bagno, temo.»
«Io sto benissimo così!»
«Non fare storie signorino, sei sporco da capo e piedi, sarà quasi una settimana che non riusciamo ad infilarti in una tinozza d’acqua bollente!»
«Ma non mi serve! Diglielo anche tu! Noi uomini non ci dobbiamo lavare!»
Il giovane rise piano. «Questo è assolutamente falso, mi spiace.»
Con un verso tradito e lo stesso scalciare energico che lo aveva liberato dalla stretta di Raja, il bimbo scivolò via dalle braccia di Alphonse e corse per il corridoio affollato di ragazzini poco più grandi di lui che, indaffarati, si erano fermati per osservare il curioso trio appena giunto dal combattimento contro quei mostri alati.
Fece lo slalom tra le gambe dei combattenti più alti e si girò a far la linguaccia ai due che lo guardavano con aria rassegnata ma felice.
Voltò l’angolo infilandosi in uno dei tanti locali dell’albergo, provocando grida di sorpresa e urla di rimprovero da ogni dove.
 
«QUALCUNO FERMI QUEL MOCCIOSO!» gridò una donna.
Da un’altra porta si affacciò un ragazzo di circa vent’anni, i capelli tagliati cortissimi facevano sembrare la sua testa velata di grigio. Alzò un sopracciglio nel vedere i compagni ridotti in quel modo e fece una smorfia all’indirizzo della ragazza.
«Botta alla testa o taglio?» chiese solo.
Clara gli sorrise. «Entrambi temo, impatto da lama.»
«E la calotta cranica è ancora attaccata al resto del teschio, affascinante, sei davvero un fenomeno della medicina, Rioni.»
« Sangue divino, Bas, tutto qui. Hai dell’ambrosia per me?»
«Ho Tali ed un’infinità di litanie curative, accetti? »
«Accetto io per lei.» intervenne Al guardandosi attorno. «E di a Tali di prepararsi anche per la peste.»
Il ragazzo non fece in tempo a chiedergli perché che una voce forte e bassa rimbombò per l’intero edificio.
 
«GIORDANO!»
 
Bas sorrise divertito all’indirizzo dell’amico.
«Mi sa che prima di Tali devi preparati tu per andare a recuperarlo ovunque si sia infilato.»
Clara rise divertita scostandosi dal compagno per andare a farsi curare. «E prepara anche lui per il bagno.»
Alphonse guardò entrambi con un’espressione a metà tra il perplesso ed il tradito. Aggrottò le sopracciglia e sospirò: «Temo che nessuno sarà mai abbastanza pronto per il nostro piccolo Giordi, neanche gli Dei stessi.»
Furi dall’edificio il pesante cancello scuro si chiuse con un cigolio ed un mormorio lugubre, sigillando la barriera magica che proteggeva quel manipolo di eroi rimasti a vegliare le notti più scure di tutte, quelle che vengono dopo la fine.
 
 
 
*
 


C’era un momento della giornata in cui ogni cosa avveniva con lentezza.
Era come esser immersi nella calura estiva, i piedi che affondano nella battigia bagnata, infida e instabile come sabbie mobili. È miele quello che avviluppa le membra ad ogni mossa, resina destinata a solidificarsi sulla pelle e creare una seconda, scintillante, trasparente corazza sulla carne viva.
Aprì con lentezza le palpebre, restio ad uscire da quel mondo lontano che era l’ormai Ex Jugoslavia, il vecchio cancello lugubre ed il palazzo fatiscente. Lontano dalle braccia muscolose di Raja, che era troppo forte per essere una ragazza di ventiquattro anni, che brandiva una sciabola neanche fosse Sandokan e teneva i capelli striati di bianco legati con una bandana. Lontano dai salmi lenti e musicali, quasi ipnotici di Tali, che riusciva a curare ogni ferita con un sorriso dolce e confortevole. Lontano dai capelli cortissimi di Sebastian, dalla sua aria scanzonata e la sua balestra congelata.
Lontano da Alphonse e le sue spade lucenti, la nebbia azzurrina, carica d’elettricità, che lo avvolgeva durante ogni combattimento. Lontano da Clara che era sempre calma, brandiva la sua spada a mosaico, gli carezzava i capelli e gli giurava che l’avrebbe protetto fino a che avesse avuto fiato in corpo.
Erano lontani i giorni in cui le sue orecchie sentivano solo parole slave, gli accenti più diversi mescolati in un mix letale che, alla fine di tutto ciò, gli aveva insegnato idiomi in cinque lingue diverse.
Era piccolo allora, i suoi pantaloncini lasciavano scoperte le ginocchia costantemente sbucciate, le mani sporche di terra, spesso anche di sangue.
Aveva passato settimane di fuoco, a scappare dalle incursioni dei mostri che, per qualche strano motivo, avevano deciso di risalire tutta la Turchia e schiantarsi sul confine con una terra che non c’era più. Avevano perso alleati, amici, parenti… avevano perso tutto e nulla, eppure se ripensava alla sua infanzia il vero inferno era iniziato quando lo avevano lasciato di nuovo in quell’orfanotrofio, quando per la seconda volta era stato costretto a vedere le spalle della sua nuova famiglia allontanarsi da lui, andando verso un destino ignoto che gli aveva strappato dalle braccia molti di loro.
La guerra gli aveva portato via tutto e dato tutto ben due volte, la terza non l’avrebbe tollerata probabilmente, o più semplicemente sarebbe finalmente morto.
Se solo per lui fosse stato possibile.
Un sorriso amaro stirò le labbra dell’uomo, un leggero strato di barba si era formato sul mento e sulle guance e Gio vi passò sopra la mano per saggiarne la ruvidità. Gli ricordava un po’ la testa di Sebastian quando si radeva i capelli. Quel solo pensiero lo fece sorridere di nuovo.
Aveva imparato, alla fine di tutto, inginocchiato in un campo di battaglia, sporco di sangue e di icore, che ogni cosa prima o poi si trasforma in ricordo, in dolce e silenzioso ricordo. Forse qualcuno faceva un po’ di rumore, ma nessun dolore rimaneva vivido per sempre, dopo un po’ diventava un eco costante, la fitta ad un osso malandato, il volto di chi ami che si fonde con i lineamenti di ogni essere che incontri. Il dolore scemava e rimaneva solo il tormento, quello non ti abbandonava mai.
Si alzò dal suo giaciglio con lentezza, poggiando i gomiti sulle ginocchia e meditando su quanto quell’attimo di pausa non gli servisse a nulla. Doveva uscire da quella stanza e lavorare, un po’ con gli Dei un po’ per affar suo, nulla si sarebbe concluso da solo.
Varcò la soglia senza guardarsi indietro, senza controllare di aver lasciato qualcosa, qualcuno, magari il fantasma di una vita passata, magari di più vite.
Il corridoio lungo e spazioso era completamente grigio, non di marmo, perché nelle viscere dell’Olimpo nulla lo era, ma di solida pietra levigata, consunta da tutti quei passi che vi erano calcati sopra dall’inizio di tutto sino a quel momento. Gli ricordava un po’ la scalinata dell’orfanotrofio, dove i bambini si divertivano a saltare e correre, dove ogni gradino era scavato perché quell’edificio era stato tante cose nel corso del tempo ed i piedini nudi o mal vestiti di bambini magri e gracilini non avrebbero potuto consumarli in quel modo.
Se si fosse diretto a destra sarebbe tornato nella Sala del Delta, oltre le grandi porte sarebbe sbucato nella sala di pietra e risalendo la stretta scalinata sino alla Sala delle Colonne.
Non erano i luoghi dei grandi Dei quelli che gli interessavano però, non la magnificenza e lo sfarzo del marmo bianco, dei bacini d’oro traboccanti piante esotiche e fiamme immortali, non la finezza dei decori più minuziosi, il gorgogliare delle grandi fontane ed i canti delle ninfe, i suoni delle lire e dei flauti.
A Gio interessava il silenzio delle mura quiete e degli spazi vuoti.
Sulla costa sinistra del Monte Olimpo vi era sempre pace e tranquillità. Forse perché gli Dei non amavano scendere così in basso, così vicini a quelle pendici vere, terrene, rocciose e mortali. Il grande monte si trovava in ogni luogo della Terra e in nessuno. Era in cima all’Empire State Building e sulla Torre di Londra, nelle sale più grandi del Taj Mahal e negli archi del Colosseo, oltre le porte delle Città Proibita, sul cratere del Monte Fuji. Sfiorava le limpide acque della Barriera Corallina, era baciato dallo stesso solo che baciava il Cristo Redentore di Rio, lo stesso che carezzava la foresta Amazzonica e quella Siberiana. Era al centro del Sahara, seppellito nel ghiaccio della Groenlandia.
L’Olimpo era ovunque così come lo erano tutte le sedi delle divinità che si affollavano affannate ed irrequiete sulla superficie di un così piccolo pianeta.
Solo Asgard guardava tutti dall’alto, impilata nei suoi nove mondi e nei suoi regni bellicosi e pacifici. Solo le radici di un antico albero sfioravano la Terra per connettere quel mondo a quello degli Dei norreni.
Ma lì, sul versante ovest del Monte Olimpo, sulle pendici del vero monte, sulla terra bagnata dal Mar Egeo, non vi era rumore, non vi era caos, non vi era divin tormento.
Aveva scoperto anni addietro che uscendo da quella particolare porta si sarebbe trovato proprio nella vecchia Europa, nella sua vecchia casa. Così, in quegli anni lontani in cui le sale di marmo bianco ed oro erano diventate per lui così famigliari, aveva preso il vizio di introdursi fin nelle profondità del monte, rompere le scatole ad Efesto e poi, silenzioso come l’ombra che era, sgattaiolare verso quella che, a tutti gli effetti, sembrava essere la porta di una baracca di pastori.
Poggiò il piede sulla superficie erbosa e fresca, poteva sentire la suola scivolare un poco per colpa della rugiada che impregnava quei fili verdi. Non era cambiato molto nel corso del tempo: c’erano sempre le collinette verdeggianti puntellate di massi bianchi, qualche fiore di campo che imperterrito viveva del clima privilegiato che emanava il monte, un piccolo patio rotondo, con delle colonne ormai vecchie e panche ricoperte di muschio poggiate su un mosaico invaso dalle erbe aromatiche piantate da chissà chi.
Il cielo era terso come sempre, da lì a poco avrebbero potuto assistere allo spettacolo notturno che solo un ambiente pulito e privo d’inquinamento come lo era un fazzoletto di mondo del 2000 a.C. poteva essere. Da lì Gio aveva visto le stelle con un occhio completamente nuovo, aveva visto davvero loro e non solo quei piccoli e luminescenti puntini che tutti davano per scontato.
Con un sorriso mesto si domandò come se la cavassero i suoi amici lì su, come stessero quegli agglomerati di gas incandescenti che altro non erano che anime più antiche del mondo stesso.
Ma non era ancora sera, non vi era ancora occasione di scorgere vecchi amici, non vi era vero silenzio in quel momento, non vera solitudine.
Nel patio, con la schiena poggiata contro una delle sedute muschiate, un uomo dalla pelle scura e scintillante come l’onice sedeva tra l’origano ed i fiori di basilico. Era probabilmente l’uomo più bello che mai avesse messo piede su quel suolo e su tutti gli altri, il suo viso era regolare, gli zigomi alti ed il naso dritto, il mento aristocratico e sopracciglia dalla curva morbida come quella della sua bocca. Una bocca così bella che anche solo guardarla portava ad anellare un bacio, un sorriso, una misera parola.
I suoi capelli lunghi, neri come solo Nyx ne aveva, parevano intessuti di quelle stelle che ancora non erano comparse. Il torace scoperto era muscoloso ma asciutto, ogni curva pregna di un’eleganza che mai essere umano avrebbe potuto replicare.
Ed era quanto di più ironico al mondo che la Morte fosse così bella e pacata, così elegante ed amorevole. Così forte e delicata.
Tra le braccia, con il capo riverso sul pettorale sinistro, dormiva beato un curioso figuro dalla pelle così pallida da sembrar quasi malata. Era bianco dello stesso candore della luna, fumoso, fantasma, impalpabile e inarrivabile. Il naso appuntito era rivolto verso il collo dell’altro, sfiorava quella pelle liscissima e ne respirava a pieni polmoni l’odore come se si trattasse del profumo più buono.
Le guance piene ricordavano quelle di un bambino, le labbra a cuore erano lucide e socchiuse, lasciavano intravedere gli incisivi meno bianchi della pelle.
Teneva un braccio attorno alla vita sottile del compagno, l’altra mano poggiata sullo stomaco, come se non potesse far a meno di sentire quel calore sotto i polpastrelli. Era strano vederlo senza guanti, senza la grande cappa nera a coprirlo, senza il cappello dalle larghe falde, sembrava quasi più piccolo così.
Giaceva tutto rannicchiato contro il fratello, le ginocchia piegate verso il busto, comodo tra le sue gambe che lo cingevano morbide.
Dormiva il sonno dei giusti, sospirando di tanto in tanto, forse – sicuramente – sognando.
I capelli scuri gli coprivano la fronte alta, Thanatos glieli carezzava con dolcezza, chinando il capo di tanto in tanto per posargli piccoli baci tra le ciocche scompigliate.
Era un’immagine così dolce e al tempo stesso irreale che quasi pareva una visione. Quando mai degli Dei era stati così vicini, si erano amati così tanto, come facevano i due gemelli della Notte?
Giordano Delle Vie osservò i fratelli riposare tranquilli, la Morte che coccolava i Sogni, proteggendoli da una realtà cruda che l’uomo delle sabbie dorate conosceva forse anche meglio di lui.
Fu una fitta silenziosa, quel tormento che non ti abbandona, il dolore di un osso malandato, quello che aveva imparato a sopportare e che improvvisamente gli si ripresentò come una ferita appena inferta. Ma non era gelosia, non era invidia quella che gli graffiava le vecchie cicatrici, non c’era un solo sentimento negativo che si scontrasse contro i due davanti ai suoi occhi: ciò che più gli faceva male era distante da loro, erano le mani fantasma di una sorella che lo carezzava nelle notti più buie, che lo abbracciava e gli diceva quanto fortunata fosse stata ad averlo al suo fianco, sempre, per sempre.
Non era stato così. Non vi era più nessuno al suo fianco, nessuno di quella vecchia famiglia che il termine del conflitto mondiale gli aveva strappato completamente.
Era solo come lo era sempre stato ed in un modo completamente diverso.
Quanto avrebbe voluto riaverli indietro, tutti quanti, anche solo per un minuto, anche solo il tempo di uno sguardo, di un abbraccio, una carezza, un bacio, di una parola.
Avrebbe venduto l’anima al diavolo se solo fosse stato possibile, ma ben preso Giordano aveva imparato che non c’era diavolo o demonio che potesse rendergli ciò che aveva perduto. Forse, si ripeteva, perché lui non aveva più nulla da vendere.
 
«Temo di non esser mai stato in grado di comprenderli, non fino in fondo.» sussurrò una voce conosciuta all’orecchio dell’essere.
Gio chiuse solo per un istante gli occhi, assaporando quel suono che inevitabilmente gli ricordava giorni passati e perduti. Sorrise mesto riportando lo sguardo sui due gemelli.
«Questo perché sei figlio unico, amico mio. Anche per gli Dei è difficile comprendere ciò che mai hanno sperimentato sulla loro stessa pelle.»
Al suo fianco un giovane fanciullo di forse diciotto anni annuì.
Era anche lui di bell’aspetto ma mai quanto lo era il nero figuro che silenzioso amava il proprio fratello seduto tra le erbe aromatiche.
Il ragazzo aveva la pelle chiara, rosea come un bocciolo, quasi irreale anche per il fatto che, al tatto, essa aveva esattamente la stessa consistenza del fiore. Giordano lo sapeva fin troppo bene.
Il volto dolce, i lineamenti morbidi, tipici di quei fanciulletti ritratti nei quadri dei grandi maestri. Era affascinante, attirava lo sguardo, ti faceva scendere un brivido lungo la spina dorsale, facendoti desiderare cose che mai avresti pensato di volere. Ma anche questo incanto su Gio non funzionava più. Come lui stesso aveva detto un giorno a quel bell’essere, ormai il suo veleno era diventato panacea per il suo sangue, non era più intossicante come il morso di una serpe, doloroso ed appagante come la stretta serrata di un amante. Non provava più il desiderio opprimente di passare le mani tra quei ricci morbidi, non desiderava più perdersi in quegli occhi d’ambra per lo stesso motivo per cui ogni altra anima lo desiderava. Le labbra morbide, piene, dolci, non lo chiamavano più a sé come il canto di una sirena, il suo tocco non lo incendiava più nel profondo delle sue viscere.
Giordano non era più un ragazzino sconvolto dalla vista dell’amore, incapace di articolare una frase educata e gentile davanti a lui, riuscendo solo a tirar fuori provocazioni e battute sarcastiche.
I tempi in cui Eros lo guardava negli occhi e riusciva a fermare il suo cuore erano lontani.
La chimica che li aveva uniti una vita fa, no.
 
«L’amore ha molte sfaccettature, malgrado ciò che possano pensare gli altri, non ho la presunzione di comprenderle tutte senza averle vissute, proprio come dici tu, Giordi.» disse con la sua bella voce ipnotica, spostandosi al fianco dell’uomo e sorridendogli con delicatezza.
Indossava dei semplici jeans grigi ed una maglia bianca, lo scollo a v che lasciava in bella mostra le clavicole delicate e sporgenti, obbligando quasi l’occhio a fissare quella porzione di pelle scoperta, il collo da cigno e poi su, verso il mento, le labbra, gli occhi. Ma era un gioco a cui lui aveva smesso di giocare da anni ormai.
Inclinò la testa lasciando che il suono di quel nomignolo gli riempisse le orecchie. Curioso che solo pochi minuti prima avesse ricordato un’altra voce chiamarlo in quel modo.
«Era moltissimo che nessuno mi chiamava così.» mormorò infatti.
Non si scostò quando Eros si sporse verso di lui poggiandosi con la spalla al suo braccio, assecondò invece il volere di quel dio così complesso e contraddittorio e lo accolse contro il suo fianco, passandogli l’arto attorno alle spalle dalla linea morbida ma dai muscoli guizzanti.
«Lo so. Solo Alphonse ti chiamava in quel modo, me lo disse lui stesso, una vita fa.»
«Cos’è una vita per un dio?» chiese retorico lanciandogli uno sguardo divertito.
Eros lo fissò per un attimo, come se l’incanto dei suoi stessi occhi gli si fosse rivoltato contro. Avevano parlato molto anche di questo in passato, di come non vi fossero state altre iridi che avessero mai attratto il dio come le sue. Solo la sua Psiche l’aveva incantato a quel modo.
 
«Non sono una maledizione, mio dolce fanciullo. Sono ciò che di più prezioso c’è tra gli Dei, belli come gli ori dell’Olimpo intero. Non vergognartene mai, te ne prego, questi occhi potrebbero illuminare il mondo e l’ignoto. Gli altri sono così stolti da non riuscire a comprendere cosa siano davvero.»
«E cosa sono allora?»
«L’avvenire. Sono il futuro e noi lo stiamo ignorando solo perché ne siamo terrorizzati.»

 
«Ho imparato a mie spese che le vite sono solo attimi.» gli confessò piano. «Li invidio, sai? Non credo di aver mai avuto nessuno al mio fianco che mi abbia amato così tanto.» indicò poi i gemelli.
Gio sfregò la mano sul suo braccio nudo, a dargli conforto. «Hai la tua splendida moglie.» gli ricordò.
«Psiche mi ama ed io amo lei, ma non è ciò che unisce loro. Lo sento, Giordano. Sento che l’amore che scaturisce dalle loro anime è più forte di quello di chiunque altro.»
«Tu sai cosa sono, perché continui a porti domande?» chiese allora.
Eros si strinse nelle spalle. «Perché non ho mai provato un amore come il loro. L’ho vissuto solo riflesso dai loro stessi occhi.»
«Temo di non poterti aiutare neanche io allora.»
Il dio alzò la testa, la tempia premuta sul braccio solido dell’uomo. «Sei malinconico oggi. Da tempo non ti vedevo così, non sentivo questa tua voce.»
Giordano stette in silenzio per un po’, riflettendo sulle parole del dio. Poi lo guardò senza paura, senza pentimento. «Finirà mai?» chiese sapendo perfettamente che l’altro l’avrebbe compreso.
Così fu. Eros si mosse nella stretta che lo riscaldava e si fece più vicino all’uomo, il petto piccolo e magro premuto contro quello ampio. Gli cinse la vita con le braccia, facendo risalire le mani affusolate fino alle scapole. Poggiò il mento contro il suo sterno, guardandolo da sotto le lunghe ciglia scure.
Tutto quello gli riportava alla mente il periodo in cui erano stati alti uguali, la prima volta che si erano incontrati, la voce ancora infantile ed acuta con cui l’aveva apostrofato, le sue stupide battute ironiche dettate da un imbarazzo che non riusciva a capire a differenza sua.
Rafforzò la presa e gli sorrise.
«No, mio piccolo Giordi, non finirà mai. Ma che vita sarebbe senza amore? Varrebbe la pena smettere di soffrire se poi non si avesse nulla di cui gioire?»
Giordano gli restituì quel piccolo sorriso, stringendolo a sua volta e poggiando il mento tra i ricci nocciola.
«Come può la gente credere che sia Atena la più saggia tra gli Dei, senza prima averti sentito parlare?» domandò retorico.
Eros rise strofinando il volto contro la stoffa morbida della camicia che l’altro indossava. Era liscia e fina ed il dio non ebbe bisogno di chiedere per capire che fosse una delle più vecchie che possedeva, che prima di essere sua era stata di un altro uomo che ormai da anni aveva abbandonato quella terra.
«Perché io sono ciò che c’è di più bello e crudele al mondo. Sono una dolce bugia ed una violenta verità. In un qualche modo io e Thanatos ci somigliamo più di quanto la gente non creda.»
«Oh, ma io so perfettamente quanto morte e amore vadano a braccetto.» sbuffò con un pizzico di cinismo.
Eros premette la guancia contro il suo torace. «La morte è solo un’altra via, ha detto una volta qualcuno.»
«L’amore invece è infinte vie.» sussurrò lui.
Chiuse gli occhi e beandosi di quel calore così umano, così famigliare. Poi chiese ciò che tutti, in un modo o nell’altro, si stavano domandando.
«È per questo che lo fai?»
Giordano sorrise, Eros lo seppe con certezza anche se non poteva vederlo.
«Per amore dici? E di chi?» chiese divertito.
L’altro si strinse nelle spalle. «Di tua sorella?»
«È morta amico mio, da tempo.» soffiò via con malinconia.
«Ed è tornata in vita.» precisò l’altro.
Gio annuì. «Lo sai tu, lo so io.» fece vago.
«Allora se non è per lei, per chi?» domandò distanziandosi di mala voglia da lui. Lo fissò negli occhi e cercò una verità, una risposta che a molti era stata negata.
Il sorriso che si aprì sul volto dell’uomo era storto e inquietante, prometteva ogni cosa ma nulla di buono. Era il ghigno pericoloso di un mostro ed Eros ne aveva sempre avuto paura nell’ugual misura in cui ne era stato attratto. Il pericolo era parte dell’amore, l’amore era pericolo. Eros amava il pericolo quasi quanto amasse amare.
«Mi deludi così, non ci arrivi? Per me ovviamente.» la voce scivolò fuori da quelle labbra tese con strafottenza, con cinica ironia. Perché se c’era una cosa di cui il dio era certo era che i tempi in cui Giordano Delle Vie aveva fatto qualcosa solo ed unicamente per sé erano così lontani da non aver più testimoni viventi.
Quella non era altro che una delle sue innumerevoli punizioni, dei castighi che si era autoinflitto nella vita. Per cosa, doveva ancora scoprirlo.
Tuttavia trovava eccitante contraddire le persone, specie Gio che rispondeva sempre ad ogni battuta con egual impeto.
«Ma tu non sei mai morto,» gli ricordò con una sottile nota di cattiveria, «è ciò che sei, dopotutto.»
La stretta di Giordano sui suoi fianchi si fece più forte, quasi fastidiosa.
Oh, sapeva quanto lo ferisse ricordare di non esser mai passato a miglior vita. Forse avevano smesso di giocare alle sirene ammaliatrici, ma quello della provocazione crudele era un gioco da cui entrambi erano dipendenti, masochisti e consapevoli di esserlo.
Quel fastidio non fece altro che accrescere la sua voglia di sapere, il suo divertimento, l’eccitazione latente che si faceva via via più intensa.
«Esatto, quindi?» gli rispose con voce bassa e roca.
Eros sogghignò, battendo le lunghe ciglia con un broncetto infantile ed innocente, come quello di un bambino a cui non viene concesso un capriccio.
«Quindi cosa vuoi dalla morte?» tubò dolcemente.
Ciò che li aveva sempre accumunati, oltre ad un cinico, crudele ed ironico senso del sarcasmo, era quella capacità di mutare l’atmosfera, i propri sentimenti, il proprio comportamento, come se nulla fosse, come si passa da un argomento all’altro: con sorprendente facilità ed estremo realismo.
Era triste, malinconico, il vecchio Gio quando Eros era giunto al suo fianco. Era stato per un attimo il bambino confuso di una vita fa. Era diventato un saggio e gentile uomo. Ora era solo lo stronzo che tutti avevano imparato a conoscere, con quel pizzico di pericolosità mal celata che troppe anime aveva fatto impazzire.
Era il loro gioco preferito da sempre, temeva.
Giordano gli passò con lentezza una mano tra i capelli, scostandogli i riccioli ribelli dalla fronte liscia ed alta.
«Non da lei, da lui,» disse accennando all’uomo in nero che ancora cullava il suo gemello, «ma dalle sue ancelle. L’amore è crudele, lo sappiamo entrambi.» sussurrò pericolosamente vicino al volto del dio.
Eros non poté far a meno di aggrottare le sopracciglia chiare: che significava quell’ultima frase? Cosa c’entrava ora?
Scrutò quelle iridi accecanti e qualcosa, nella sua mente, scattò.
Restituendo a quell’essere lo stesso sorriso pericoloso che prima gli aveva regalato, Eros tornò a farglisi più vicino, alzandosi sulle punte per poter arrivare al suo orecchio.
«E cosa ci si guadagna? Cosa ci guadagnerebbe chi ti seguirà?» chiese con voce suadente.
Gio ghignò ancora, le mani che tornavano a stringere quella vita fine che tanti avrebbero desiderato anche solo poter ammirare da vicino.
Strusciò il naso contro la tempia del dio e sussurrò piano. «Divertimento e caos.». Poggiò un bacio morbido sulla pelle tesa, sfiorando la conchiglia sensibile dell’orecchio, soffiandoci dentro il respiro cocente di un’anima mai morta. Il collo di Eros si ricoprì di brividi, così come tutto il suo corpo.
Quella sì che era una proposta allettante.
«Ed un precedente impossibile da ignorare in futuro.» terminò con fare enigmatico.
Il dio dell’Amore chiuse gli occhi estasiato da quelle parole. Divertimento. Caos. Qualcosa che non potrà esser più ignorato, qualcosa che gli alti Dei sui loro scarni dorati non potranno più negare. Oh, che gioco eccitante che si prospettava.
C’era solo un’immagine vacua di quello che Giordano Delle Vie voleva fare, che gli aveva proposto tra trabocchetti e parole dette a metà, ma Eros, dio dell’Amore, amava il pericolo come null’altro al mondo, perché lui stesso era fatto di questo: sentimenti soffocanti ed impossibili da gestire, indomabili e impudenti, animaleschi e divini.
Ed infido e pericoloso era lo sguardo di quel mostro che mai sarebbe dovuto nascere e che invece dominava gli animi di troppi esseri, tirava le fila di troppi destini.
Era già successo in precedenza ed Eros non ebbe alcuna remora a lasciare di nuovo anche i suoi di fili alla mercé di quell’anima maledetta, sottomesso e vezzeggiato come un amante.
L’amore aveva tante facce, troppe sfaccettature.
Che Giordano gli mostrasse quelle più oscure.

«Come potrei mai rifiutare una simile proposta?»
 

 
*



 
L’uomo lo aveva scortato per un corridoio buio come parevano essere tutti gli ambienti di quel luogo sconosciuto. Non aveva più parlato dopo averlo aiutato ad alzarsi, si girava solo di tanto in tanto controllando che non avesse bisogno di fermarsi, di fare una pausa.
Quantificare il tempo che avevano impiegato per arrivare in quella sala sarebbe stato completamente inutile, non ricordava minimamente come scorressero le giornate, figurarsi i brevi periodi come quello.
L’ambiente in cui si fermarono era grande e decisamente più luminoso rispetto a tutto il resto, c’erano addirittura dei piccoli lumi, deboli e fiochi, a contornare le pareti lisce ma di certo, non di pietra. C’era del mobilio, una grande panca sopra cui erano appesi dei ganci di ferro grezzo, dei tappeti a coprire il pavimento lucido, delle sedie ed un tavolo di legno massiccio. C’era persino un triclinio vicino ad un tavolinetto dalla superficie di vetro. Accostato al muro, sul lato sinistro, un grande camino emanava calore dalle braci spente. Non vi erano finestre, non vi erano aperture, solo la porta anonima da cui erano entrati ed un’altra, sul fronte opposto che, decisamente, non aveva nulla di anonimo. Era in legno anche quella, intagliato però con strani disegni e ghirigori che l’anima non aveva mai visto prima di allora. Si intrecciavano in volute e in nodi, c’erano greche dalla precisione maniacale ed altre linee ancora che parevano scritte in una lingua incomprensibile ed antica almeno quanto gli Dei. Sulla sua destra una maniglia lunga, inchiodata su foglie di metallo dorato, il manico una spirale stretta che si allargava solo nel centro, ospitando una sfera dai riflessi perlacei. Sulla sinistra un pomello opaco color bronzo riproduceva un fiore in boccia, solo alcuni petali aperti ad allargar la superficie, rendendolo grande come un’arancia. Al centro il muso di un leone che teneva tra le fauci un grande anello, i toni cupi e freddi di un ferro ormai ossidato.
Da che parte si apriva quella porta?
Questo era l’unico quesito che riusciva a porsi, dimentico anche di quel piacevole tepore che proveniva dalle braci, ignorando tutti gli altri oggetti della sala che avevano avuto la sfortuna di non esser notati prima di quell’uscio.
«Aspettate qui, il mio Signore arriverà a breve. Accomodatevi pure.» La voce dell’uomo dagli occhi fini lo riscosse dai suoi pensieri.
Ora che poteva osservarlo meglio si rese conto di come le sue vesti fossero di una foggia che mai aveva avuto il piacere di vedere. Indossava dei pantaloni larghi sulle cosce e poi stretti da nastri su tutto il polpaccio. Una fusciacca color bronzo stringeva il bordo della casacca incrociata e dei pantaloni, mettendo in evidenza la vita regolare dell’uomo. Le maniche di quella maglia erano lunghe e larghe, terminavano con un decoro del medesimo colore della fusciacca che si abbinava alla perfezione a quella stoffa lucida del colore dello smeraldo. Anche solo alla vista pareva così morbida e delicata, un tessuto degno di un re. O di un alto ufficiale. Chi era davvero l’uomo che lo aveva scortato sino a lì?
S’arrischiò a chiederglielo.
«Vi ringrazio, mio signore. Posso chiedervi di nuovo di dirmi chi siete? Non per forza il vostro nome, solo da dove venire, perché mai in vita ho incontrato qualcuno come voi.» la sua voce ancora graffiava un po’ ma il tono gli era uscito morbido e gentile come quella stoffa verde.
L’uomo fece un inchino, la schiena dritta e le braccia lungo i fianchi, i lunghi capelli neri, che ora poteva veder legati in parte dietro la nuca con uno strano fermaglio, ondeggiarono sfiorando quasi il suolo.
«Il mio nome ve lo saprà dire colui a cui porto rispetto ed obbedienza. Quanto il luogo da cui provengo, le mie terre si trovano ad Est delle vostre, oltre i grandi monti, oltre le lande deserte e quelle ghiacciate, oltre il mare ed in mezzo ad esso. Mai il mio popolo ed il vostro si sono incrociati quando voi o io eravamo in vita, solo secoli dopo uomini coraggiosi ed intrepidi esploratori sono riuscita ad aprir una vita di seta tra i nostri mondi.»
L’anima inclinò il capo, poi annuì. «Mi rammarica non esser riuscito a veder la vostra terra come l’avete vista voi con i vostri occhi. La vostra sola figura ispira in me un misticismo che il mio popolo non ha mai avuto, mi domando come dev’esser quello della terra che vi ha dato la luce.»
L’uomo in verde si tirò su con un gesto fluido, sul volto serafico solo un sorriso educato si mosse.
«La mia terra non è più così come l’ho vissuta, non lo è neanche la vostra. Non decadi, non secoli, ma millenni sono passati da quando camminavamo su qui suoli. Si sono susseguite guerre, regni, albe di ere giunte ormai alla fine. Temo, mio giovane signore, che il mondo che noi conoscevamo non esista più da troppo tempo.»
«Spero allora di poter vedere ciò che è venuto in seguito.» disse sorridendogli con delicatezza.
L’altro fece un secondo cenno con il capo. «Ve lo auguro. Colui che ora ci è a capo verrà a breve da voi.» gli ricordò infine.
«Attenderò paziente, mio signore.»
«Vi auguro che l’attesa sia ripagata.» e con un terzo inchino l’uomo dai lunghi capelli neri si voltò ed uscì dall’anonima porta da cui erano entrati. Quando l’uscio si chiuse un rumore metallico fece voltare di scatto l’altro: era appena stato chiuso a chiave in quella stanza?
Si avvicinò velocemente alla maniglia, provando a tirarla verso di sé e a spingerla in fuori. Nulla, era bloccata, non si muoveva neanche un poco, come se non fosse altro che una scultura nel muro.
Si girò ancora, questa volta guardandosi attorno e notando quei particolari che la vista dell’altra porta gli aveva celato: c’era quella che pareva una grande cassettiera, un divisorio dalla struttura di legno ed i piedi in metallo. C’era anche un grande recipiente in legno, con delle strisce di ferro borchiate a stringere le assi ed un curioso tubo con due pomelli.
Non riusciva a capire l’utilizzo di quella sala, che pareva ospitare mobili di uso completamente diverso l’uno dall’altro.
Con un brivido di freddo a scuotergli le membra, come se d’improvviso un vento gelido avesse iniziato a tirare tra quelle mura, l’anima si accostò al camino ormai spento, piegandosi sulle ginocchia e allungando le mani verso le braci.
Cosa ci faceva in quel luogo lui?

«Senti freddo?»

Avrebbe voluto girarsi immediatamente a vedere chi fosse entrato, a chi appartenesse quella voce bassa e roca, ma la sorpresa lo congelò sul posto, chiudendogli gli occhi mentre si malediceva da solo: aveva dato le spalle alla sala, aveva lasciato a chiunque l’opportunità di sorprenderlo proprio com’era appena successo.
Si volse con lentezza, stringendosi inconsciamente le braccia al petto, coprendosi come poteva e come quegli stracci logori che portava indosso non facevano più.
Davanti alla porta dalle tre maniglie vi era un alto uomo dall’aspetto sicuro. Era ben proporzionato, il lungo soprabito nero che indossava metteva in risalto le spalle larghe, la schiena dritta, il torace ampio ed aperto. Il suo abbigliamento era sicuramente moderno, decisamente più del suo ma anche più del guerriero dell’Est che l’aveva scortato sino a lì. Teneva la mano destra in tasca, nella mancina brillava un legno dalla punta incendiata. Aveva un portamento rilassato, disinvolto, era completamente a proprio agio in quella stanza, in quella situazione, con lui e con sé stesso.
Dal suo volto non traspariva nessuna preoccupazione, era sereno e quasi disinteressato, non si sarebbe mai detto che si trovasse a tu per tu con un giovane mezzo nudo, sporco di sangue e pieno di lividi e vecchie ferite.
La sua pelle era olivastra, i capelli neri corti tirati indietro verso la nuca, parevano morbidi a quella distanza. La mascella squadrata era sbarbata, le labbra dalla piega morbida appena lucide, forse umide di saliva. Il naso aquilino era una linea dritta che divideva il volto, gli zigomi alti sembravano i responsabili della curva degli occhi. Avevano una forma felina, ma più di questo ferina: erano gli occhi di un predatore e l’anima accucciata davanti alle braci non ci mise molto per capirlo. Le palpebre leggermente socchiuse e le ciglia scure gettavano un’ombra spessa sulle iridi dal colore indefinito, aiutate dalle sopracciglia folte che davano un’aria seriosa a quel viso ben scolpito.
L’uomo davanti a lui era potente, lo era in molti modi diversi e ne era perfettamente consapevole.
Ma soprattutto, ciò che lo pungolava dritto nella memoria sbiadita, era la certezza di averlo già incontrato, ma dove?
Deglutendo e prendendo un profondo respiro si risolse a rispondergli, la mente ormai sgombera di qualunque domanda fosse stata affollata prima.
 
«Non avrei mai creduto di poterne sentire ancora.» disse a bassa voce. Gli uscì tremula e docile, se avesse provato intenzionalmente a farlo non ci sarebbe riuscito, quella era la semplice conseguenza dell’aura emanata da quell’individuo.
L’uomo fece un passo avanti, portando quel legno al suo volto dischiuse le labbra e lo strinse tra i denti. Continuò ad incedere verso di lui, si tolse la palandrana nera e si chinò per poggiargliela sulle spalle.
«Alzati di qui, riaccendo il fuoco.» glielo disse come un ordine gentile, il comando di un adulto ad un bambino, conscio che l’altro non avrebbe né avuto il motivo né l’intenzione per disobbedire.
L’anima si strinse la pesante stoffa contro le spalle, chiudendosela sul petto e nascondendo quel corpo martoriato di cui improvvisamente provava vergogna. L’indumento era caldo, di quel calore umano e vivo che da tempo immemore non ricordava più. Era un peso piacevole indosso, lungo oltre i suoi piedi, che strusciava sul pavimento e sui tappeti perfettamente puliti come lo strascico plumbeo di un re tiranno.
Si scostò dal camino, osservando l’uomo chinarsi di nuovo e portare una mano sulle braci scure e fumanti. Non dovette neanche schioccare le dita, gli bastò accostare il palmo a quei sassi bruciacchiati e questi tornarono ad ardere, brillando rossi e gialli nelle loro crepe, disfacendosi in polveri bianche ed impalpabili.
Visto da dietro, in quella posizione, l’uomo sembrava ancora più imponente. Aveva davvero le spalle molto larghe, come quello di un uomo di mare, abituato a combattere contro i flutti e le correnti più impetuose. Il tessuto chiaro della camicia che aveva indosso era tirato sotto la pressione dei muscoli guizzanti e sporgenti, delle scapole grandi, del trapezio e delle vertebre. Non era un semplice uomo di potere, era forte tanto nella sua aura quanto nel fisico, non aveva dubbi che se avesse brandito una spada sarebbe riuscito a staccargli la testa dal collo con un unico colpo.
L’uomo si alzò pulendosi le mani sui pantaloni scuri, un gesto così semplice e spontaneo che per un attimo stordì l’anima.
Tornò a guardarlo, togliendosi dalla bocca quello che, ad occhio e croce, doveva esser un involto da fumare, e lo fissò dritto negli occhi, senza paura e senza giudizio.
«Senti ancora freddo?» gli domandò solo.
L’anima scosse la testa. «Mi sarebbe bastata anche la vostra veste, vi ringrazio.» chinò leggermente il capo, inconsciamente condizionato dalle azioni che aveva visto fare al combattente in verde.
«Quello che indossi non è certo classificabile come vestiario, riesce a mala pena a coprirti.» disse secco dirigendosi verso il lato opposto della stanza.
L’altro si sentì improvvisamente imbarazzato, quel commento sui suoi vestiti, si quegli stracci che si ostinava a chiamare così, l’aveva fatto vergognare come mai prima d’allora. Ciò aveva dello straordinario, poiché in vita raramente, se non mai, gli era capitato di provare vergogna per il suo aspetto o per il suo corpo, nel mostrarsi vestito o nudo che fosse in generale. Aveva sempre avuto una giusta considerazione del suo aspetto, malgrado in quel momento non fosse dei migliori.
Ma il solo fatto che un sentimento come la vergogna fosse affiorato alla sua mente, unito a tutte quelle vibrazioni che la presenza di quell’essere gli trasmetteva, stava facendo suonare lunghi ed assordanti allarmi nella sua testa.
L’uomo misterioso si era intanto avvicinato alla grande tinozza di legno, macchinando con quei pomelli e facendo fuoriuscire acqua fumante dal tubo che si gettava in quella che, ora chiaramente, doveva esser una vasca.
«Faremo qualcosa anche per quelli.» riprese a parlare. «Per ora credo che sia più importante darti una ripulita e vediamo anche di riuscire a far qualcosa per quei lividi e quelle ferite.» e mentre lo diceva iniziò a sbottonarsi i polsini della camicia, arrotolandosi le maniche sino al gomito. Si piegò verso la vasca infilando una mano nell’acqua per sentirne la temperatura, sbuffò una nuvola di fumo.
«Acqua bollente o solo calda?» gli chiese da sopra la spalla.
L’anima batté gli occhi sorpresa e confusa da quella domanda: in che modo gli era possibile scegliere? Che quelle due manopole regolassero il calore di un qualche fuoco nascosto?
«Io- non saprei.» si ritrovò a balbettare senza saper cosa dire, sconvolto anche dalla sua stessa risposta, dalla sua voce, dalla sua indecisione.
L’uomo annuì. «E allora facciamo calda quanto basta.»
Rimasero in silenzio fino a quando la vasca non fu piena, solo allora il curioso individuo si voltò verso l’altro e gli porse una mano.
«Su, vieni qui. Posa la giacca sulla sedia.»
Con un gesto del tutto involontario la giovane anima si strinse per un attimo il vestito al corpo. Sul volto dell’uomo si aprì un sorriso storto.
«Non ti vergognerai mica, spero. Ti assicuro che non hai nulla che non abbia anche io o che non abbia già visto.»
Quel commento così canzonatorio fece scattare qualcosa dentro l’altro. Fu come se finalmente si fosse svegliato e ciò che era sempre stato, la sua personalità, i suoi modi di fare, il suo stesso essere, si fosse riscosso e fosse tornato a ruggire, ora indignato da quell’affermazione.
Con un moto di stizza si tolse la cappa di dosso e la poggiò sullo schienale di una di quelle sedie di legno e pelle. Tenne gli occhi fissi in quelli dell’uomo e poi, con lentezza, portò una mano alla vita per sciogliere la corda ormai logora che teneva la stoffa adesa ai suoi fianchi. Lasciò che il tessuto si allargasse a campana, retto ormai solo dal nodo sulla sua spalla e risalì paino sino a quello, sciogliendolo con attenzione, prendendosi tutto il tempo che gli serviva per districare quell’intreccio consolidato dal tempo e da tutto il sangue che vi si era rappreso in mezzo. Quando infine riuscì ad aver la meglio trattenne i due lembi tra le mani per un momento, un attimo di esitazione che non era altro che l’attesa dei un via, di un cenno di partenza.
La veste scivolò veloce sul costato asciutto e martoriato, superò le anche sporgenti lasciando bella vista del bacino stretto, delle gambe costellate di lividi e cicatrice, cadendo mollemente sulle caviglie fini che si liberarono di quell’ormai inutile pezzo di stoffa ed incedettero verso l’uomo.
Quello non aveva smesso di fissarlo dritto negli occhi neanche per un momento, senza mai abbassare lo sguardo ma non per pudicizia quanto per quella sfida silenziosa che l’anima gli aveva lanciato nel momento esatto in cui era tornato ad essere sé.
Accettò con educazione la mano che l’uomo gli porgeva, lasciandosi aiutare a scavalcare il bordo alto della vasca di legno. Un brivido gli percorse la schiena quando sentì la gamba avvolta dal calore dell’acqua, ed un altro brivido lo colse quando, vedendolo vacillare, l’uomo gli passò un braccio attorno alla vita e lo alzò senza problemi da terra, accompagnandolo a sedersi, lasciando che si immergesse nel bagno bollente seguendo il suo volere, assecondando la sua discesa.
Quando l’acqua gli sfiorò le orecchie il giovane poggiò la testa contro il bordo di legno e si lasciò scappare un sospiro di puro piacere: quanto tempo era che non si faceva un bagno? Un bagno vero e non uno di fuoco?
La sensazione dei muscoli che si rilassano, che si sciolgono fu quasi estraniante, annebbiata solo dal bruciore che le sue ferite si ostinavano a produrre.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare, che lo uccidessero in quello stesso istante, non gli sarebbe importato meno di niente, avrebbe accettato la morte con piacere, quello stesso piacere che continuava a farlo sospirare, ancora ed ancora. Se fosse stato un po’ più lucido si sarebbe reso conto di in che modo vergognoso quei suoni sembrassero gemiti, il ghigno divertito dell’uomo sarebbe stato ugualmente utile.
Ciò che lo riscosse da quella sua piccola oasi di pace su un oggetto morbido, soffice come una piuma, caldo ed imbevuto d’acqua che gli si poggiò sul capo.
Aprì gli occhi chiari e li puntò immediatamente verso l’uomo. Questo teneva una spugna in mano e con una lentezza dettata solo dalla tranquillità gli bagnava i capelli incrostati di sangue e terra.
«Quante ferite hai?» gli chiese con voce bassa.
L’altro scosse piano la testa. «Spero non pensiate che io tenga il conto.» gli disse con una punta di ironia, tornando a chiuder le palpebre.
L’uomo sorrise leggermente. «Lo prenderò come un “troppe”.»
«Le ferite non sono mai troppe, così come le torture non sono mai tutte.» replicò con lo stesso tono.
Quello rimmerse la spugna nell’acqua, la strizzò e gliela passò sulla fronte. «A che tipo di torture ti hanno sottoposto?» domandò ancora.
«Pensatene una ed io l’ho subita.»
«Di ogni tipo?»
«Dalle più leggere alle più cruente, dalle più innocue alle più umilianti. I torturatori dell’Ade non si risparmiano, più si scende in profondità e più si subisce.»
«Ti fidi un po’ troppo di mani estranee per aver sofferto le pene dell’Inferno.» gli fece notare con tranquillità.
«Se avreste voluto uccidermi l’avreste fatto mentre vi davo le spalle.» rispose piano.
Un leggero riso gli sfiorò le orecchie, coperto in parte dal rumore dell’acqua strizzata via dalla spugna.
«Potresti metter in conto che io non sia una di quelle persone.»
«Che pugnalano alle spalle?»
«Già, trovo molto più gratificante guardare negli occhi il mio avversario.» annuì.
La giovane anima si strinse nelle spalle. «Allora non aprirò i miei.» sussurrò. «Ma non mi affido in questo modo a chiunque.» tenne a precisare poi.
Questa volta la risata fu più chiara e anche canzonatoria. «Mi arrogo il diritto di esser speciale allora.»
«Avete delle mani gentili.» gli confessò senza remora, conscio di quanto commenti del genere facessero sempre piacere a persone di potere, soprattutto uomini che giocavano ai buoni samaritani come stava facendo il suo ospite.
«Come fai a dirlo?» gli chiese però sorprendendolo. «Posso ben credere che siano secoli che una mano gentile non si posa su di te.» disse senza particolari intonazioni.
Il giovane non poté far altro che aprire gli occhi e alzare lo sguardo per incontrare il volto calmo dell’uomo.
«Esattamente per questo motivo. So riconoscere il tocco di chi vuole ferirmi, di chi vuole qualcosa da me e di chi no.» rispose con serietà, fissandolo senza paura.
L’uomo ghignò. «Mi spiace dirtelo ma il tuo istinto è caduto in fallo. Io voglio qualcosa da te.»
Quell’affermazione scosse l’anima di brividi, per un attimo intimorito all’idea di non riuscire più a riconoscere chi gli si poneva davanti, i desideri più stupidi e quelli più animaleschi che si celavano dietro ad ogni essere. Eppure qualcosa gli diceva di non aver sbagliato troppo, l’uomo stesso gli aveva detto che voleva “qualcosa” da lui, non “lui” stesso, ma forse, di nuovo era stato confuso da quei modi gentili. Se così fosse stato però, se fosse stato il suo corpo quello che l’uomo voleva, allora avrebbero iniziato una partita di un gioco che l’anima conosceva fin troppo bene, in cui era fin troppo brava.
Poggiò le mani sul bordo della vasca e si tirò sulle ginocchia, ignorando il freddo dell’aria fuori dalla copertura bollente dell’acqua, lasciando che i riccioli puliti da strati e strati di sporcizia gli ricadessero morbidi sulla fronte, gocciando stille lucide sul volto arrossato dal calore dei fumi.
Si sporse in avanti, il petto candido e macchiato proteso verso quello ampio dell’uomo. Inclinò il capo e lo guardò con attenzione.
«Allora cosa posso fare per voi, mio signore?» chiese con voce morbida e languida. Se si era sbagliato, se quello che aveva davanti era un “comune” uomo di potere, allora avrebbe potuto volgere la cosa a suo favore, avrebbe potuto assoggettarlo al suo volere, anche se ciò implicava lasciarsi alla sua mercé inizialmente.
L’uomo lo fissò per un lungo istante, lasciando cadere la spugna nell’acqua e poggiando le mani ai lati delle sue. Si sporse anche lui in avanti, ad un soffio dal suo naso, il respiro caldo, incandescente più dell’acqua in cui era stato immerso fino a quel momento e delle braci che ora crepitavano nel camino.
Da quella prospettiva l’anima riuscì a vederlo in modo completamente diverso: era un bell’uomo, su questo non c’era dubbio, ma più che la bellezza c’era un fascino, un’aura che attirava chiunque. Era un richiamo sinistro e pericoloso, ballava su un’ambiguità nascosta, sul dubbio costante che l’uomo avrebbe potuto portarti in gloria sul palmo della mano o sprofondarti nel Tartaro stesso. Era una fiamma ardente e tutti gli altri solo falene perse nella notte. Un uomo non poteva aver quel potere, non poteva essere una calamita, un canto di sirena, un incanto, una malia, solo gli Dei avevano quel potere, loro e i loro figli, ma qualcosa gli diceva che quell’individuo era molto, molto di più.
Per la prima volta in vita sua si ritrovò nella spiacevole sensazione di percepire il pericolo a cui stava andando incontro in modo preciso, vivido, perfetto… ma di volervisi precipitare ugualmente se non con ancora più foga.
Le labbra dell’uomo si piegarono in un ghigno obliquo, il sorriso di una belva che sapeva di aver la sua preda in pungo, chiusa in un angolo e senza via di scampo.
«Permettimi una piccola citazione, anche se non potrai capirla.» gli disse lasciandolo di sasso. L’anima aggrottò le sopracciglia, presa di sorpresa ondeggiò leggermente e non riuscì a reagire in tempo prima che l’uomo le ponesse un asciugamano attorno alle spalle e la tirasse fuori dall’acqua come se non pesasse nulla.
Con un verso strozzato il giovane si ritrovò a stringere le braccia attorno al collo dell’uomo, rimanendo ipnotizzato da una lunga cicatrice che gli lambiva il muscolo teso.
L’altro lo posò con delicatezza sul triclinio su cui vi era steso un altro spesso lenzuolo morbido. Si tolse piano le sue braccia di dosso e gli diede le spalle per dirigersi verso uno dei mobili, aprire un cassetto ed estrarne dei vestiti.
Il sorriso sul suo volto non era ancora cambiato, i denti scoperti sembravano una fila di zanne lucide di saliva e assetate di sangue.
«Sto per farti un’offerta che non potrai rifiutare.»
 


 
*




L’odore che permeava l’aria ero lo stesso che aveva sentito sin dal primo momento in cui erano entrati tra quelle mura, ma questa volta, con suo sommo disappunto, era più vicino, era più circoscritto. Se prima ne erano immersi ora ne erano accerchiati.
«Cazzo.» ringhiò Cade a mezza bocca. Con un gesto veloce afferrò la mano con cui Jonas si reggeva alla sua giacca e si tirò il ragazzo più vicino, portandoselo alle spalle e controllando la zona apparentemente vuota attorno a loro.
Jonas lo lasciò fare, non si lamentò neanche quando sentì le dita fredde del compagno stringersi attorno alle sue. Cercò invece di individuare ciò che l’aveva messo tanto in allarme e si fece un po’ più vicino alla sua schiena.
«Vedi qualcosa?» chiese a bassa voce.
Cade scosse la testa. «Tu gigante? Così in alto dovresti aver una migliore visuale.»
Úranus si mosse a disagio, anche lui facendosi più vicino a Lea come a volerla proteggere da qualcosa che non potevano vedere. 
«Nulla di chiaro e nulla di buono.»
Nel mentre anche gli altri si erano avvicinati, Nathan ed Eliza si schierarono spalla contro spalla, gli ultimi due blocchi di quel muro protettivo formato da loro ed i due rossi.
Dietro i soldati, attenta a non toccare nessuno, Jane tenne gli occhi sgranati puntati verso l’orizzonte, cercando di convogliare al meglio il potere di sua madre per riuscire a scorger qualcosa anche lei. Tutto ciò che ne ricavò però fu solo un vago eco, un tremolio del terreno conosciuto ma neanche lontanamente paragonabile alla prima carica.
 
«Dov’è Nerone?»
La domanda di Lea, che poggiata ad Úranus cercava come tutti di individuare il pericolo imminente, fu completamente estemporanea.
«Chi?» chiese Nathan con voce dura.
Lea fece un gesto vago con la mano che il biondo neanche vide. «Non ti impicciare, non to parlando con te!»
«Ma Nerone non era tipo un imperatore romano?» chiese Jonas con voce tentennante. Che c’entravano ora personaggi storici morti? Che i due fossero arrivati fino a lì con l’imperatore?
La giovane annuì con vigore. «Sì, è l’imperatore che si dice suonasse la lira mentre Roma era in fiamme.»
«Che è una cazzata, fatevelo dire che uno che ha studiato i miti.» grugnì Nathan.
«Ma nessuno te lo ha chiesto.»
«Così come qualcuno ha chiesto a te chi cazzo è Nerone e tu hai glissato.»
«Non sono affari tuoi e non stavo parlando con te, dannazione!»
Lea si voltò verso il biondo che abbandonò la sua posizione fronteggiando l’altra.
«In un momento così delicato tu chiedi che fine abbia fatto Nerone e io non posso sapere chi cazzo è?»
«Perché devi essere sempre così scurrile? È una cosa tra me ed Úranus, non mi pare che io sia venuta a chiederti perché discutevi con il ragazzo quando ti ho incontrato!»
A quella frase Cade drizzò le orecchie, la presa attorno alla mano di Jonas si fece più forte.
«Discutevate?» chiese solo con tono piatto, quasi non gli interessasse neanche.
Il più piccolo però si affrettò comunque a spiegare: non sapeva per quale motivo ma non voleva che Cade pensasse che, lasciatolo solo per un attimo, fosse riuscito subito ad attaccar briga con Nathan. Non voleva che-
 
Si preoccupi per me?
 
«Non stavamo discutendo, anche se poteva sembrare, è stato- poi ti spiego ora non credo che-»
«Quelli non sono cazzi tuoi.» specificò Nathan con voce dura rivolto a Lea.
La ragazza lo guardò con occhi di fuoco. «Non credere di poter far il bello e cattivo tempo con me Wright, non sono la prima animuncola che hai incontrato, non mi faccio mettere i piedi in testa da te. Se vuoi sapere qualcosa lo chiedi con garbo come ogni dannata persona di questa terra oppure ti chiudi quella stupida boccaccia che ti ritrovi e non mi scassi l’anima!»
Con un guizzo di pura rabbia la figlia di Apollo fece un passo avanti, senza il minimo timore di ritrovarsi a fronteggiare un soldato ed un semidio sicuramente più addestrato di lei.
L’altro tentennò per un secondo, forse toccato da quell’audacia che la giovane non dimostrava a prima vista o forse semplicemente innervosito da quella risposta, quella che sottintendeva che Lea non era al suo comando, che lui non era il capo e non aveva diritto di pretendere risposte.
Anche se erano potenzialmente circondati da mostri e la citazione a quello che poteva essere un imperatore era stata assolutamente estemporanea.
«Finitela entrambi!» abbaiò Eliza prendendo Nathan per una spalla e riportandolo alla sua posizione di difesa. «Non è il momento di litigare, non quando siamo in questa situazione e non quando siamo palesemente tutti dalla stessa parte.»
«Beh, veramente ognuno è dalla propria di parte, dovemmo essere rivali.» precisò Jane vaga.
Lo sguardo di ghiaccio che le rifilò la figlia di Nike le fece subito abbassare la testa, le gote rosse per la vergogna d’esser stata ripresa.
«Allora cosa si fa?» domandò Cade.
Eliza non batté ciglio. «Dobbiamo capire qual è la situazione. Úranus?»
Il ragazzo rimase fermo per un istante, concentrato nel riuscire ad individuare chi c’era, se era un nemico, se non lo era.
«Avverto una forte presenza attorno a noi. L’aria sembra più densa.» sussurrò piano.
La mora annuì. «Sapete combattere?» chiese allora.
Lea scosse la testa. «So poco e niente, mi spiace…» disse mortificata.
«Ero un cacciatore, sono stato addestrato in un certo qual modo.» poi si bloccò. «Ma noi non abbiamo nulla da temere.» disse più a sé stesso che agli altri. Poi con un gesto sicuro si voltò verso la compagna. «Lascia che uno di loro stia dietro di noi, possiamo proteggerli.»
A quelle parole Lea si illuminò di colpo, annuendo con vigore e poggiando una mano sulla spalla di Eliza.
«Fammi posto, mettiti dietro di me.»
La giovane la guardò senza capire. «Hai appena detto che non sai combattere.» le fece notare.
La bionda però annuì convinta, i ciuffi biondi le rimbalzarono sul viso come farebbe la frangia di una bambina intenta a correre. «Lo so, ma ti assicuro che i mastini non mi faranno nulla, non possono più.»
Jonas si volse allora a guardarla, improvvisamente folgorato da quell’affermazione.
«Quando ti abbiamo incontrata stavi giovando con un Mastino Infernale. Voi avete già superato la prova!»
Lea annuì e a quel punto lo fece anche Eliza, prima di dire perentoria. «Cade, fa a cambio posto con lei.»
Il rosso la guardò male da sopra la spalla. «Con tutto il rispetto, perché giuro che non vorrei sembrar insolente o che so io, ma non mi metto da parte per farmi far scudo da una ragazza.»
Nathan ringhiò. «Io ed Eliza siamo quelli che sanno combattere meglio, razza di deficiente, possiamo difenderci bene mentre lei non verrà comunque toccata.»
«Fai a cambio tu, anche io so difendermi.» rispose allo stesso modo.
«Neanche per sogno, io sono un soldato. Hai presente quella guerra di cui parlavamo prima? Quella in quel posto che nessuno di voi conosce perché siete troppo ignoranti?» chiese con quel tono strafottente e fastidioso. Jonas strinse i pugni, cercando di frenare la gran voglia di sbatterglieli dritti sul naso. La stretta che ricevette in cambio da una parte gli ricordò che ancora teneva la mano in quella dell’Irlandese ed in un qualche modo lo calmò ed imbarazzò in egual misura.
«Ecco, non è stata proprio una passeggiata. Era un inferno-»
«Come tutte le guerre.» precisò Eliza già spazientita: perché per una volta non potevano semplicemente fare quello che diceva loro senza discutere per ogni cazzata?
« c’è morta un botto di gente, c’erano armi terribili ed è stata la più dura dopo la Seconda Guerra mondiale.»
Non appena ebbe detto quelle parole però Jonas divenne un pezzo di ghiaccio. La sua mano fredda e morta iniziò a sudare e Cade lo guardò con la coda dell’occhio, improvvisamente dimentico dell’americano.
«S- se- Hai detto, seconda?» domandò il ragazzo balbettando. «Ce n’è stata un’altra?»
Nathan tentennò, sorpreso da quella domanda, poi annuì. «Sei morto prima che scoppiasse forse, però sei tedesco no? Hai detto che eri di Berlino. Ti dice niente Hitler? Ha fatto un bel casino, il figlio di puttana.»
Una secchiata d’acqua cadde dritta in testa al giovane, mentre il mondo si restringeva e tutto perdeva colore. Gli sembrò che qualcuno gli avesse appena infilato una mano nella gola, ostruendogli la trachea e stringendo lo stomaco in una morsa dolorosa e soffocante.
Cos’era successo? Che significava quella frase? Gli avevano dato potere, avevano permesso a quel folle di scatenare una guerra, una guerra mondiale? Non gli era bastata la prima? Non erano bastate le tasse, i dazi, la pressione incredibile che i vincitori avevano esercitato sulla Germania? Non erano bastati tutti quei tronfi signorotti a distruggere la sua terra, avevano lasciato che qualcuno lo facesse anche dall’interno?
L’intero pianeta sarebbe potuto collassare su sé stesso in quel preciso istate, Jonas non avrebbe battuto ciglio, non avrebbe fatto una piega, ne sarebbe solo stato felice.
Cosa aveva fatto? La sua famiglia… i suoi amici… Lu…
 
Cosa ho fatto? In che mondo orribile vi ho abbandonato? Cosa ho fatto?
 
Abbassò la testa, sconfitto nel profondo, nell’animo che era tutto ciò che gli rimaneva, nel nulla del suo corpo mortale e nell’eternità fittizia di quello spettro di sé che gli era rimasto.
Lui non aveva visto la guerra, era morto prima che tutto scoppiasse e sì, sì cazzo, il regime era diventato rigidissimo, le rappresagli e le proteste venivano soffocate con brutalità e violenza, non ci si poteva fidare davvero neanche del proprio vicino e ci si doveva guardar attorno prima di parlare, di esprimere qualunque idea o anche solo una battuta. Il Reich era potente, era terribile, nero come le loro divise ma- ma, stupidamente, Jonas non aveva mai pensato che tutte quelle parolone, quei discorsi provocatori sul portare la purezza della razza nel mondo, sulla pulizia delle specie miste e inferiori… tutti quegli orrori, sarebbero mai usciti da casa sua.
Stupidamente non aveva mai creduto fino in fondo alla forza e alla volontà di un folle che aveva diviso un popolo e che a quanto pare aveva fatto lo stesso con il mondo.
Voleva vomitare… dio santissimo, voleva vomitare tutto quello che non aveva nel suo inesistente corpo. Voleva vomitarsi anche l’anima e gridare e battere i piedi e prendere a pugni Nathan che gli aveva sparato addosso quella terribile, disgustosa verità senza sapere cosa stesse facendo. Senza sapere quanto questo lo avrebbe ferito.
Perché lui era morto e non aveva visto la seconda – seconda cazzo! – guerra mondiale, ma le persone che amava, tutte loro, non solo l’avevano vista, l’avevano anche vissuta.
Jonas si portò le mani alla gola, soffocato da quei pensieri, da delle immagini che non aveva mai visto ma che in un qualche modo la sua mente gli proponeva. Scene apocalittiche in cui uomini in divisa nera marciavano a ritmo dei tamburi sotto l’emblema della svastica, il braccio alzato e la mano tesa, le replica pacchiana e disgustosa del saluto romano distrutta dalle manie d’onnipotenza di un uomo, un uomo come tanti, solo più deciso e più folle.
Strinse una mano attorno al proprio collo, l’altra all’orecchio e poi anche la compagna all’altro. Se le premette sugli occhi, soffocò un singulto serrando le labbra e non si accorse del movimento repentino affianco a lui.
Non vide Lea guardarlo allarmata e provare ad allungare una mano per toccarlo.
Non vide Úranus con gli occhi sgranati, scioccato da quella reazione.
Non vide Jane fare un passo indietro orripilata, come se sapesse riconoscere quel comportamento e cercasse di scostarsene il più possibile.
Non vide Eliza far scattare la testa da lui all’area circostante.
Non vide Nathan andare poco onorevolmente nel panico e tentennare cercando di far qualcosa senza saper effettivamente cosa fare.
Non vide Cade afferrare Lea per un braccio, trascinarla al suo posto e infilarsi in quel piccolo angolo sicuro.
Non lo vide anche perché Cade se lo spinse contro e l’abbraccio, premendogli la testa contro il petto, carezzandogli i capelli e la schiena. Cominciò a sussurrargli piano all’orecchio parole di conforto, il tono basso, dolce e rassicurante.
 
«Ehi, ehi. Va tutto bene, va tutto bene. Ssssh. Sei al sicuro, nessuno ti farà male, nessuno se ne farà. È finita, la guerra è finita da tanti anni. Va tutto bene, sono qui. Sono qui, tranquillo, va tutto bene. Sssh. Va tutto bene, è finita. Sono qui.»
Continuava a ripeterlo come una litania, cullandolo mentre cercare di recuperar il respiro, di smetterla di piangere.
 
Stava piangendo?
 
Cade serrò la mascella e portò la mano a coprire il volto di Jonas, cercando di non far vedere a nessuno quei grossi lacrimoni che scendevano sulle guance paonazze per lo sforzo, per la paura, per il dolore.
Non voleva che gli altri lo vedessero il quel modo, che vedessero quanto fosse fragile. Gli ricordava cose brutte, gli ricordava urla e lamenti, singhiozzi devastanti che scuotevano il petto e impedivano di respirare. Labbra viola dalla mancanza d’aria o di ricircolo sanguigno. Gli ricordava persone – amici, fratelli – riversi a terra, morti mentre lui era altrove, a far qualcos’altro. E Cade lo sapeva, a livello coscio sapeva che non avrebbe mai potuto essere ovunque sempre, ma era l’inconscio quello che lo fotteva, che gli diceva che se solo avesse preso lui quella missione, se ci fosse stato lui in quel momento… forse nessuno si sarebbe fatto del male o alle brutte sarebbe stato lui a morire e la sua famiglia, i suoi Liberty sarebbero ancora tutti vivi, tutti felici, tutti assieme.
Sentire Jonas piangere, saper che le sue lacrime erano provocate dal ricordo di un periodo, di vicende, a cui non aveva neanche assistito, con la sola consapevolezza di non esser stato vicino a chi amava quando era successo il peggio… non poteva sopportarlo, non poteva sopportare il modo in cui gli tremavano le spalle, in cui sussultava o serrava le labbra per non farsi sentire, il modo in cui chinava il capo per non farsi vedere. Non poteva sopportarlo. Aveva provato lui stesso quelle sensazioni sulla pelle, non poteva vederle riflesse negli occhi di un altro innocente.

«Va tutto bene piccoletto, ci sono, sono qui con te, va tutto bene, te lo giuro.»
Cade alzò gli occhi solo per puntarli in quelli di Eliza, il verde scuro del folto di una foresta che si affaccia sui prati scintillanti dell’Irlanda.
La figlia di Nike annuì, non poteva saper per certo cosa gli stesse chiedendo di fare l’altro ma poteva assicurargli tutto il suo supporto.
Di fianco a lei, Nathan fissava la scena ammutolito. Lui non ci sarebbe riuscito, non sarebbe riuscito ad avvicinarsi, abbracciare Jonas e consolarlo in quel modo, calmarlo. Non era mai stato bravo con i bambini, ce n’era stato solo uno che riusciva a calmare e aveva comunque impiegato parecchio tempo per farlo. Al rosso invece sembrava riuscire così facile, così spontaneo.
Nathan non era mai stato uno che faceva gruppo, lo sapeva perfettamente da sé. Era un leader nato, comandava la squadra, dirigeva la missione, era ascoltato, acclamato. Festeggiava con i suoi amici e con i suoi compagni ma… ma lui aveva una famiglia, fuori dal Campo, lontano da quel mondo terribile e mistico in cui vivevano. I suoi fratelli, gli altri ragazzi, erano gli amici di quelle avventure spesso mortali che erano costretti a compiere, non erano proprio la sua famiglia. O per lo meno, non dovevano esserlo stato con la stessa intensità con cui lo erano stati gli amici di Cade per lui.
Deglutendo sonoramente il figlio di Ares si volse verso Eliza.
«Hai un piano? Per portarlo fuori di qui il più velocemente possibile?» domandò con voce bassa e pacata. Se c’era una cosa in cui era davvero bravo, invece, era non far sentire la sua ansia ed i suoi dubbi a chi gli era vicino. Era stato ed era ancora un condottiero e chi ricopriva quel ruolo doveva mostrarsi forte agli occhi dei suoi sottoposti e dei suoi compagni. La regola era semplice e basilare: se il mio capo è calmo vuol dire che ha tutto sotto controllo e che vinceremo.
Anche a costo di morire di nuovo Nathan non avrebbe permesso che qualcuno di quei deficienti lì presenti credesse che fossero spacciati.
Eliza dal canto suo aveva annuito piano. «Dobbiamo muoverci in fretta, verso quella direzione.»
«Fuggire è inutile.» disse Jane con voce strozzata.
Aveva gli occhi torbidi puntati ancora su Jonas e Cade, persi in ricordi e pensieri che loro non potevano neanche immaginare.
«Che intenti?»
«Non abbiamo le medaglie. Eliza forse ne ha una, o Cade.» spiegò con semplicità.
La figlia di Nike imprecò e Nathan alzò un sopracciglio.
«Complimenti, questa era Oxford.» la prese in giro.
La mora gli rifilò un’occhiataccia. «Da te non accetto commenti. La medaglia del mastino ce l’ho io. Dobbiamo trovare un modo per prendere anche le altre quattro.»
«Ne basterebbe una sola.» mormorò Cade. «Ne facciamo prendere una a Jonas, poi tu e lui uscite di qui e ci aspettate al sicuro mentre noi cerchiamo le nostre.»
Eliza lo guardò attentamente. «E tu come farai?» gli chiese con una nota preoccupata nella voce.
Il rosso si strinse nelle spalle, abbassò la testa per sussurrare qualcosa al più piccolo e poi tornò a guardare la compagna. «Me la caverò, come ho sempre fatto.»
«Oppure possiamo aiutarvi noi.»
Úranus si era girato vero il centro di quel piccolo assemblamento, guardando con apprensione Jonas ancora scosso, poi Lea che annuì con vigore.
«Noi abbiamo già preso le nostre medaglie, possiamo aiutarvi a tenere a bada i mastini e se la situazione dovesse peggiorare e servisse anche il tuo aiuto – indicò Eliza – potrei uscire io di qui con Jonas e aspettarvi fuori. Sono una figlia di Apollo, posso calmarlo e farlo rilassare se siamo in un posto tranquillo.»
«Io invece posso aiutarvi con i mastini. È retaggio divino di mio padre parlare con gli animali, io non ci riesco ma li capisco, capisco i loro stati d’animo per lo meno e loro si fidano di me.»
Nathan fece un cenno secco con il capo. «Mi sembra un buon piano. Grazie, accettiamo la proposta.»
Lea allora alzò un sopracciglio sorridendo ironica. «Ti ho davvero appena sentito dire “grazie”? Allora sei un bambino cresciuto ormai!»
Quella stupida battuta, oltre a far sbuffare infastidito il soldato, stemperò un poco la tensione che si era andata creando. Eliza diede un leggero colpo con il gomito al compagno ed ammiccò verso il ragazzino. «Poi dovrai chiedergli scusa.» disse con tono così basso da riuscir a farsi sentire solo dal diretto interessato. Nathan comunque annuì.
«Temo di sì.»
«Quindi? Cosa facciamo?» chiese allora Jane mettendosi le mani sui fianchi. «Il gigante ha detto che l’aria è densa no? Come la facciamo diventare più leggera?»
«Da quel che mi risulta sei tu la figlia di Ecate qui, hai qualche coniglio nel cilindro?» domandò ironico Nathan.
Jane lo guardò senza capire. «Perché dovrei aver un coniglio in cosa?»
«Nulla, battuta moderna.»  sbuffò infastidito. «Rompi palle, tu puoi far qualcosa?» chiese poi rivolto a Lea.
La ragazza lo guardò male, alzando un sopracciglio con fare piuttosto offeso.
«Vorrei dirti che così ci chiami tua madre ma temo che sarebbe ingiusto nei suoi confronti. Comunque, caro il mio signor “sono andato al Campo e so tutto a differenza vostra”, ti informo che noi figli di Apollo sappiamo curare, infettare, abbiamo una mira fantastica, sappiamo tirar d’arco, siamo affini a tutte le arti ma guarda te il caso con l’aria non abbiamo nulla a che fare!»
Il soldato non fece in tempo a replicarle a tono che una leggera brezza si alzò nella valle.
Pareva venir da tutte le direzioni e al contempo risucchiare l’aria da ogni parte, come se l’epicentro da cui partisse fosse in mezzo a loro.
Con un attimo di ritardo rispetto agli altri, i due biondi si voltarono verso Cade che, continuando a stringere a sé Jonas, aveva chiuso gli occhi e prendeva respiri profondi. Respirava – l’aria si ritirava, risucchiata lontano in un abisso, spazzando la terra e portando via odori e fumi – ed espirava – l’aria veniva soffiata via con forza, spingendo arbusti e balle di sterpaglia –.
Quando il ragazzo riaprì gli occhi sembravano più chiari del solito, più simili a quelli di Elena che non a quel colore sgargiante che sfoggiava sempre. Sbiaditi dal vento e dalle correnti.
La pressione che avevano sentito fini a quel momento, qualunque cosa fosse stata, si disperse nel nulla.
Nessuno disse niente, rimasero tutti in silenzio a fissarlo, l’unico rumore dato dai singhiozzi ogni momento più flebili di Jonas.
Cade abbassò di nuovo il volto avvicinandolo a quello del ragazzo e gli chiese con gentilezza.
«Ce la fai a correre? Dobbiamo cercare i mastini, il prossimo è il tuo, va bene?»
Quando Jonas annuì mesto, strofinandosi le mani sugli occhi e tirando su con il naso, l’altro gli sorrise raggiante e gli sfregò ancora sulle braccia, come a scaldarlo.
«Di questo giro ti sei fatto davvero un bel tuffo nell’acqua, gattino
Una risata stonata e soffocata rimbombò dentro al petto vuoto di Cade che lo strinse un’ultima volta stampandogli un bacio sulla testa.
«Oh! Questa volta niente minacce di morte o percosse? Ne sono onorato!»
Jonas accennò un’altra risata e provò ad asciugarsi meglio il viso, continuando a tenere il capo chinato per non farsi vedere.
Fu Lea questa volta ad avvicinarsi, con cautela, attendendo un consenso da parte del ragazzino, e poggiargli le mani sulle guance.  Con fare rigido ed impacciato Jonas lasciò che la ragazza gli sfiorasse la pelle, trattenendo il respiro in attesa di qualunque cosa.
Fu un calore piacevole a scaldargli il viso, un qualcosa molto più leggero e del tutto diverso rispetto a quello che aveva sentito stretto nell’abbraccio di Cade, ma comunque gentile, morbido. Gli rilassò i muscoli, fece scomparire le tracce di pianto dal suo volto e gli diede l’illusione di essersi appena lavato sotto l’acqua fresca in piena estate, un contrato di sensazioni che gli fece provare un piacevole attimo di pace.
«Così va meglio?» gli domandò sorridendo.
Jonas annuì arrossendo. «Sì, grazie mille.» poi guardò gli altri. «Scusate se ho creato tutto questo disturbo – disse a testa alta, cercando di non mostrarsi come il moccioso debole che si era sentito fino a quel momento – possiamo andare.»
Eliza gli sorrise gentile e annuì. «Nessun disturbo, l’importante è che ti senta meglio.»
« Eliza ha ragione. Se sei pronto ci muoviamo subito e-» Nathan si bloccò, riprese il suo solito cipiglio duro e drizzò le spalle. «Mi spiace di averti sganciato quella bomba così, ma se vorrai sapere altri dettagli, posso parlartene quando vuoi.» concluse con serietà.
Jonas annuì. «Grazie.»
Dopo di ché Lea batté con forza le mani e sorrise. «Bene! Ora che tutto è finito possiamo metterci in marcia e cercare il prossimo mastino prima che quella cosa torni. Diamo il via a questa stramba combriccola, tanto siamo tutti semidei qui, vero? Oh, e visto che ci siamo, Úranus, dire che ci conviene recuperare Nerone, ci sarà sicuramente d’aiuto.»
«Ma me lo vuoi dire chi cazzo è sto Nerone?»
 
I due biondi ricominciarono a litigare ancora e per l’ennesima volta Jonas si ritrovò a rimanere indietro, aspettando che Eliza, alzando gli occhi al cielo e borbottando qualcosa tipo “una volta era con Cade, ora con lei” si muovesse; che Jane, apatica e scocciata come sempre la seguisse e che il gigante anche si avviasse svelto dietro la sua amica nel vano tentativo di smorzare la sua discussione con il soldato.
Rimase indietro e prese un respiro profondo, pronto a fare qualcosa che gli era sempre pesato, che in un qualche modo gli era stato inculcato a forza in testa essere sbagliato, terribilmente sbagliato.
Lasciò che Cade facesse solo qualche passo avanti, senza digli nulla, senza far altre battute, solo seguendo il resto del gruppo. Quei pochi metri che gli servirono per prendere coraggio, per dirsi che era una cosa che andava fatta e che ora, in quel momento, in quel luogo, nessuno avrebbe mai potuto dirgli nulla, nessuno avrebbe mai potuto criticarlo, sgridarlo, insultarlo.
Glielo doveva, cominciavano ad essere un po’ troppe le cose che doveva a quel rosso fastidioso e rompiscatole ma… ma non gli pesava, non lo faceva più.
Una volta suo nonno gli spiegò l’importanza dello scegliere le persone giuste a cui affiancarsi, nel lavoro così come nella vita. Gli disse che era essenziale trovare qualcuno di valido anche solo come amico, perché più tempo si passava con quella persona e più si prendevano le sue abitudini. E forse anche in vita, ad un certo punto, avrebbe dato di matto e mandato al diavolo l’intero creato, magari anche in vita avrebbe mosso quei passi veloci e avrebbe annullato la distanza tra lui e qualcun altro. Jonas scacciò le voci sibilanti e maligne dei suoi compagni di classe, degli adulti, dei soldati scurrili e vanesi, degli uomini di potere crudeli e malvagi. Il suo spirito, qualunque cosa fosse rimasta di esso, ruggì come una fiera e gli gridò di fregarsene, di fare quello che voleva perché sapeva fosse giusto.
Jonas aveva passato la vita sentendosi dire che certe cose non stavano bene, che non andavano fatte, ma quando afferrò saldamente la mano di Cade, quando vide quelle iridi verdi così licide, così vivide, quando se ne ricordò un altro paio, si disse anche che per le persone con quel colore d’occhi, che sembrava così ricorrente ed importante per lui, poteva fare uno sgaro a tutte le regole.
Si disse che per un amico poteva fare – doveva fare – questo ed altro.
Cade lo guardò incuriosito, per un momento una scintilla di preoccupazione gli fece credere che il ragazzino si stesse sentendo male di nuovo, ma poi vide la determinazione nel suo sguardo, la serietà della sua espressione.
Non ebbe modo di parlare, fece appena in tempo a schiudere le labbra che Jonas gli passò un braccio attorno alle spalle ed uno attorno alla vita, stringendolo a sé proprio come Cade aveva fatto pochi minuti prima, per tutto il tempo che gli era servito per calmarsi.
L’irlandese rimase immobile, scioccato, per un istante. Un sorriso raggiante si aprì sul suo volto, le labbra fine tirate sino a scoprire tutti i denti. Portò le mani attorno alle spalle di Jonas e rispose a quell’abbraccio stretto e soffocante, sincero e sentito.
«Grazie.» disse con tono fermo, stringendo gli occhi e poggiando la guancia contro il torace del più grande.
Cade gli posò un secondo bacio sul capo, mormorandogli piano tra i capelli.
«Quando vuoi piccoletto, io sono qui, non dimenticartelo.»
 


 
*


 
Ade si sedette mollemente sul suo trono, spostando in malo modo il lungo tendaggio che vi era poggiato sopra e che gli creava un fastidioso spessore dietro la schiena. Le anime imprigionate nella trama fitta si agitarono urlando i loro lamenti tormentati, centinaia e centinaia di volti ormai deformati dal tempo e dal dolore si unirono in un grido unanime che il dio zittì con un cenno della mano.
Aveva già mal di testa, non gli servivano anche anime dannate che si lamentavano nelle sue orecchie, non appena si fosse ricordato di chi era stata quell’idea geniale di tessere morti e fili assieme l’avrebbe incenerito. Ah, no, erano state le Parche, dannazione.
Massaggiandosi le tempie tentò di far mente locale di tutto ciò che doveva fare. Casa sua era ancora invasa da tecnici di ogni tipo, la sua servitù privata si stava dando da fare per arredare al meglio le camere personali di tutte le divinità che volevano vedere da vicino la gara o che, malauguratamente, dovevano partecipare alla realizzazione delle prove. Era riuscito a liberarsi di Artemide giusto poche ore prima, quando anche l’ultimo Mastino Infernale aveva perso il suo ciondolo o l’ultima anima era stata divorata, non che facesse molta differenza per lui l’esito di quella stupida prova.
La Death Race a lui aveva portato tanti problemi quanti vantaggi in fine dei conti: stava gestendo un flusso di divinità e media mai visto prima, ma sull’altro fronte le sue terre si stavano liberando di più di ottomila anni di morti, il ché, non era poco. Se gli altri avessero potuto anche solo lontanamente rendersi conto della mole di lavoro che lui ed i suoi sottoposti dovevano affrontare ogni singolo giorno per gestire tutte quelle anime, forse avrebbero avuto pietà di lui e sarebbero scesi ad aiutarlo. O magari l’avrebbero fatto padre degli Dei e spedito lì sottoterra qualcun altro.
Sospirò. I suoi erano solo sogni utopistici, nessuno si sarebbe mai interessato al sottosuolo esattamente com’era stato fino a quel momento.
Come sempre l’unico che si interessava di cose che non lo riguardavano era Giordano, con il suo dannato ghignetto da delinquente e quello sguardo accecante, folgorante, che ti penetrava sottopelle, nel cervello e poi anche nell’anima, scrutandola nei suoi più profondi anfratti e tirandone fuori ombre che persino le Parche avevano dimenticato. Se c’era una cosa che gli era stata donata in abbondanza, oltre alla bastardaggine, alla cattiveria, al sadismo e a quella cinica ironia che riusciva a far saltare la mosca al naso anche al Budda, era una memoria eccezionale. Gio aveva il brutto vizio di perdonare solo alle volte, andare avanti sempre e non dimenticare mai. Se fosse stato possibile dar un volto al detto “la vendetta è un piatto che va gustato freddo” non sarebbe certo stato quello di Nemesi ma quello del figlio Delle Vie. Ed il fatto che Nemesi concordasse con lui e ne fosse così schifosamente felice e fiera, orgogliosa come una mamma che assiste alla vittoria schiacciante ed assoluta del suo pupillo, avrebbe dovuto far riflettere molti.
Ma ora non era la Dea della Vendetta il suo problema principale.
Se Artemide era partita da poco dalle sue terre significava solo che presto sarebbe sceso un altro dio a fargli compagnia e purtroppo Ade sapeva per certo che non sarebbe stato nulla di piacevole.
La prova successiva sarebbe stata nelle mani di un dio che chiamar inaffidabile sarebbe stato riduttivo e scorretto. Era stato tante volte fautore di disastri quanto di salvezza, la sua personalità, così come quella di chiunque altro di loro, ondeggiava su un filo sottile che divideva il baratro oscuro della cattiveria da quello candido della magnanimità. Essere un Dio Greco significava aver tutti i pregi ed i difetti di un mortale conditi da poteri disumani. Era una fregatura, a conti fatti.
Alzo la mano e chiamò uno dei suoi scheletrici servitori, che si arrampicò ondeggiante sulle scale nere portando in braccio un enorme specchio dalla cornice fregiata. Dentro di esso si agitava una nebbia torbida e inquieta, che ben preso prese contorni definiti e divenne una finestra chiara su un giardino verde e quieto, fatto di bianche rocce e sedute di pietra ornate di muschio. Una piccola vibrazione ed il volto nero e perfetto di Thanatos apparve curioso e rilassato.

«Buona sera Ade, a cosa devo il piacere?» la voce del dio della Morte gli arrivò bassa e melodiosa ed il primo dei grandi fratelli non ci mise molto a capire che il tutto era dovuto a quella macchia scura e pallida che ronfava alla grande sul petto nudo di suo fratello.
«Si è addormentato davvero o è impegnato in uno dei suoi viaggi?» chiese facendo un cenno con il capo per rispondere al saluto
Gli occhi lucidi dell’altro risposero prima ancora che potesse farlo lui. «Sei solo?»
«Come sempre nella mia Sala del Trono, qui non c’è tutta l’agitazione che si trova in quella di mio fratello.» poi ci rifletté, «C’è solo Sidmund che mi tiene lo specchio. Vuoi che lo mandi via?» gli domandò alzando un sopracciglio scuro.
Le belle labbra di Thanatos si arricciarono divertite. «Credo di potermi fidare del silenzio del caro Sidmund. Non è forse lui quello a cui tagliarono la lingua?»
«No, quello è Roderic. Che in ogni caso ha imparato la lezione direi.» fece con un gesto vago. «Cosa sta combinando il gemello della luna per farti chiedere tutto questo riserbo?»
Thanatos storse il naso. «Non mi piace quando lo chiamate così.» gli fece notare.
Ade si strinse nelle spalle. «È un gemello ed è pallido come la luna.»
«Ma non è il gemello di Artemide.»
«Dio non voglia.» quasi rise. «Ce ne basta uno. Ma bando ai convenevoli. Cosa sta succedendo?»
Thanatos si sistemò meglio contro il suo giaciglio di muschio spesso e morbido, tirando a sé Ipno come avrebbe potuto fare con un bambino assopito.
«Non sta semplicemente dormendo, è impegnato in uno dei suoi viaggi nella dimensione Onirica.»
«Dev’esser qualcosa di estremamente impegnativo se ti ha chiesto di vegliare il suo sonno.»
L’altro scosse la testa. «Gliel’ho imposto io quando mi ha detto cosa voleva cercare.»
Ade lo guardò con più interesse, mentre un brutto presentimento si faceva largo in lui.
«Cosa sta facendo?» chiese ancora.
Thanatos sospirò. «Cerca risposte, temo. Come tutti noi. Alcuni sono più bravi a nasconderlo, altri meno, altri ancora se ne disinteressano completamente. Questi, sono quelli che vivono meglio.»
«Per favore,» quasi lo supplicò, «dimmi che non sta andando ad intromettersi nelle linee temporali come l’ultima volta.»
Il silenzio che ricevette in cambio lo fece gemere di frustrazione.
«Davvero?»
«Ipno crede che ci sia un momento preciso in cui tutto ciò è nato, ben prima del consiglio indetto da Zeus e ben prima della proposta di Giordano.»
«Certo che c’è un inizio, prima o dopo che sia, ma ormai tuo fratello dovrebbe aver imparato cosa succede a chi gioca con il tempo.» lo ammonì con sguardo severo.
Il dio della Morte non potette dargli torto. «C’è una strana vibrazione nell’aria, l’hai percepita?» gli chiese invece.
Ade annuì. «Le stelle brillano ad una frequenza particolare
«Per usare un eufemismo.» borbottò l’altro ironico.
«Ed Ipno crede che sia tutto partito da lì?» indagò.
Thanatos sembrò pensarci su, poi scosse la testa. «No, crede che quello possa esser stato solo un incentivo. Allora si è messo a cercare più approfonditamente per capire quale sia il vero disegno dietro a tutto ciò. Ci sono strani movimenti, anime salvate, perdute, scomparse e tornate e in tutto ciò c’è un solo punto fermo.»
Lo disse fissandolo dritto negli occhi, a chilometri di distanza, a piani di distanza. Entrambi conoscevano la risposta.
«Se cerca l’inizio di tutto, puoi svegliare tuo fratello e dirgli che è il 1913. Se vuole invece il preludio dovrà andare circa vent’anni più indietro.» disse amaramente. «Siamo stati degli sciocchi, lo siamo ancora temo. Siamo stati sordi alle preghiere di una donna disposta a tutto per ottenere ciò che più desiderava, abbiamo giocato con i frutti di quella preghiera esaudita dalla persona sbagliata e non contenti abbiamo mischiato le carte. Come direbbero gli umani, abbiamo giocato a fare Dio
«Ma è ciò che siamo…» sussurrò Thanatos carezzando la testa del fratello. «Siamo Dei.»
«Sia noi che loro.» concordò Ade, «Ma questo non cambia le cose. Nel momento in cui quel desiderio si è realizzato avremmo dovuto tenerlo sotto stretto controllo. È stato un caso, chiunque muova i fili del destino di qualunque popolo può esser stato il responsabile di quest’infelice incontro; ma in quel momento, invece di domandarci cosa sarebbe successo se avessimo intrecciato quelle trame, avremmo dovuto mandare i nostri eroi più potenti, i nostri Dei più bellicosi, a dividerle per sempre.»
Thanatos annuì distrattamente, completamente concentrato sulle ciocche ribelli dei capelli di Ipno.
«Al tempo, se non ricordo male, sembrò una buona idea anche a te.»
Ade fece un verso di scherno. «Eravamo usciti da una profezia mefistofelica, ne era già stata promulgata un’altra e avevamo troppe possibili opzioni. Più di un oracolo ci aveva detto, ad entrambi i lati, che se non avessimo trovato un ponte ci saremmo ritrovati a combattere gli uni contro gli altri senza possibilità di scampo. Chi ne sarebbe uscito sconfitto avrebbe perso la possibilità d’esister, il vincitore invece sarebbe stato così sfinito che a mala pena la sua stirpe sarebbe tornata a calcare questa terra. Al tempo pareva un’idea geniale. Avremmo creato l’arma più potente mai immaginata, avrebbe potuto distruggere ogni nemico, ogni pericolo, fermato apocalissi e rigenerato mondi.»
Il sogno passato di un’epoca gloriosa in cui nessuno avrebbe mai più osato sfidarli, in cui nessuno avrebbe cercato di toglier loro un potere immenso e loro, loro di diritto… Oh, sarebbe stato il coronamento di una vita e quella degli Dei era così lunga che solo una tale vittoria avrebbe potuto appagarli in pieno. Avevano creduto di poterci riuscire, di elevarsi ancora una volta su ogni essere ed ogni caso fortuito del destino. Ma il Fato aveva voluto ricordagli che nulla poteva soggiogarlo e nel momento in cui le due parti erano scese a patti, pronte a coronare un sogno comune e glorioso, si erano resi conto di quanto tutto ciò sarebbe potuto esser, sì, la loro vittori suprema, ma anche potenzialmente la loro sconfitta più cruenta.
Non avevano capito quanto fosse oscuro l’abisso in cui si erano tuffati finché non aveva iniziato a brillare una luce sul fondo. Ed era così lontana, così fioca e al contempo accecante da aver preso tutti alla sprovvista.
Avevano provato a fermare il tutto, le anime che avevano spinto le une verso le altre erano state divise immediatamente, spedite ai poli opposti di quel mondo. Le Dee dell’amore avevano infilato le loro candide mani nei cuori che prima avevano ammaliato e svelte avevano sciolto i loro incanti, ridando a quelle menti lucidità e libero arbitrio.
Ancora una volta il Fato aveva riso di loro, aveva guardato quelle due anime e le aveva semplicemente spinte ancora più in là, a forza di camminare si sarebbero rincontrate.
Così era stato ed il grande piano degli Dei si era compiuto senza che nessuno di loro potesse rendersene conto, senza che nessuno di loro potesse sorvegliare che tutto filasse per il meglio.
La cosa ironica era che, probabilmente, se invece di dividerli avessero semplicemente lasciato che tutto andasse come doveva, sarebbero stati presenti al momento opportuno ed avrebbero potuto porre il loro sigillo su quell’arma di distruzione e creazione che avevano tanto agognato e poi temuto.
«Giocare con le anime è qualcosa che solo le Parche possono fare. Neanche io e te possiamo osare tanto.» disse Thanatos in un sospiro.
«Anche il loro Re era felice di quel piano, fremeva dalla voglia di creare una nuova stirpe.»
«Più che una stirpe, sarebbe stata un’altra razza in tutto e per tutto.»
«L’abbiamo comunque ottenuta, no?» chiese con un sorriso disgustato. «Una nuova razza benedetta da entrambi i fronti.»
«Da tutti e tre, per la precisione.» scosse il capo. «Siamo stati degli sciocchi, Ade, come sempre abbiamo voluto troppo in più rispetto a quello di cui avevamo bisogno.»
Ade grugnì infastidito. «Direi che dopo Icaro avremmo dovuto imparare qualcosa…»
«Siamo Dei, non impariamo mai dai nostri errori, quello è un dono puramente umano.»
Il silenzio li cullò per alcuni minuti, entrambi erano persi nei loro ragionamenti, nei loro ricordi.
«Credi-» iniziò Thanatos titubante, «Credi che cerchi vendetta?»
Quella domanda fece quasi ridere Ade, che si trattenne per pura forma, ricordando cosa avesse pensato prima di chiamare l’altro.
«La vendetta è qualcosa che Giordano ha nelle vene, ma non credo che sia questo il suo scopo. No, sta facendo qualcosa di più pericoloso e decisamente più preoccupante.»
«Più pericoloso che giocare con gli Dei sotto il loro naso?» e prima che Ade potesse replicare, «Domanda stupida, lo ha sempre fatto e sempre lo farà.» scosse la testa.
Ade annuì. «Il suo gioco è più grande, è più delicato e, accantonando il nostro famoso egocentrismo, dubito che riguardi noi.»
«Pensi che stia cercando la sua famiglia? Sappiamo entrambi fin troppo bene che non potrà mai riportare indietro i suoi genitori, così come sappiamo che sua sorella è rinata e con lei la figlia.»
A quelle parole il dio dei morti strinse i pugni. «Lo so. Gio non lo farebbe mai, sa cosa significa infastidir le anime, lo sa meglio di chiunque altro.»
«Allora dobbiamo preoccuparci?» chiese in fine, come se non avesse più altre domande da fare.
 
«Direi di sì e di no.»

Una voce impastata di sonno attirò l’attenzione di entrambi.
Adagiato ancora contro il torace del fratello, la faccia addormentata e le palpebre socchiuse, Ipno si stropicciò gli occhi e sorrise raggiante al gemello.
«Ciao Than.» cinguettò come un pulcino, alzandosi un poco solo per stampare un bacio sotto il mento del nero figuro.
Thanatos si abbassò di rimando per baciargli al testa, un gesto naturale ed istintivo che però non lo distolse dalle parole del fratello.
«Che vuoi dire?» gli chiese infatti.
Ipno sorrise ancora. «C’è odore d’amore nell’aria, Eros è stato qui? Questo spiegherebbe perché improvvisamente tutte le vie che potevo prendere mi apparivano così strettamente legate all’amore!»
«Non ne ho la più pallida idea. Ho già abbastanza Dei da seguire qui nell’Ade, non posso mettermi a tracciare tutti quanti.» borbottò il dio degli inferi, infastidito per esser stato ignorato.
L’altro sorrise anche a lui. «Ciao zietto, come va?» e prima che potesse rispondere. «Non vuole vendetta, il caro vecchio Gio, su questo non ci sono dubbi. Però non pensare che non voglia qualcosa dai morti.» continuò accigliandosi. «Ma non proprio dai morti. Sta seguendo un filo che ha visto anni addietro ma malgrado sia riuscito a scorgere il momento in cui lui stesso l’ha trovato, il filo, il modo per fare quel che vuole intendo, non sono riuscito a capire cosa portasse. Oh, ma avreste dovuto vedere i suoi occhi… hanno brillato come le stelle in cielo. C’è stata una scintilla, un qualcosa che mi ha fatto rabbrividire. Alle volte, vedendolo così amichevole e simpatico, mi dimentico di cosa sia in grado di fare, dimentico chi gli ha dato la vita e a quale scopo.»

«Lo scopo è stato null’altro che l’amore.» s’intromise una quarta voce.
I due gemelli voltarono il capo e anche senza veder il nuovo arrivato Ade già sapeva perfettamente di chi si trattasse.

Parli del diavolo
 
«Eros! Lo sapevo che sentivo odore d’amore!» trillò Ipno.
L’altro sorrise. «Spero nulla di troppo spiacevole.»
«Assolutamente! Schifosamente stucchevole e amaro come sempre.» l’espressione genuina e rilassata del dio dei sogni fece ridere di cuore quello dell’amore.
«Concesso.» poi si affacciò nello specchio di Ade. «Salute a te zio.» gli sorrise ammaliante come la bugia che era.
Ade rispose di nuovo con un cenno del capo. «A cosa dobbiamo il piacere?»
Eros sogghignò. «Ero qui per fare visita ad un amico ed offrigli un aiuto.» disse vago. Gli altri tre ebbero il terribile presentimento di saper già di chi stesse parlando ma il bel dio diede loro la conferma subito dopo. «E visto che ci sono direi anche di prender le sue difese. Il nostro caro Giordi non è nato “per uno scopo”. È una di quelle fortunate anime nate per amore. Non così frequente come cosa me neanche così rara.» disse stringendosi nelle spalle.
Ipno lo guardò con gli occhi a palla sgranati. «Quindi Gio ti ha detto che vuole fare? E ha accettato il tuo aiuto?»
«Mi sono proposto…» iniziò l’altro vago, «ma non mi ha detto nulla, sono riuscito ad arrivarci da me con relativa facilità. Dopotutto posso vantarmi di conoscerlo davvero bene.»
«Nel profondo.» sputò ironico Thanatos.
Eros gli fece l’occhiolino. «Assolutamente e non sai che piacere sia stato.»
«Ora basta.» disse perentorio Ade. «Eros – comandò – di cosa stai parlando?»
Il dio lo guardò sorridendo suadente come sempre. «Vi state domandando cosa voglia fare, quali pericoli sta per creare ma, ad essere onesti, credo dovreste chiedervi cosa abbia già fatto e che conseguenze ci saranno in futuro.» Fece una lunga pausa e guardò il dio dei morti dritto negli occhi. «Ci ha già fregato Ade, il gioco è appena iniziato e sta già per finire.»
La tensione era alta e soffocante e solo il sorriso di miele di Eros riuscì a sciogliere un poco i loro animi tormentati da quell’oscura profezia.
«Ma non è noi che vuole. È altro e ho l’arroganza di dire che riuscirà a prenderselo.»
Thanatos strinse la presa attorno alle spalle del fratello e si issò a sedere eretto trascinandolo con sé.
« Eros…» iniziò con voce di rimprovero. «se sai veramente qualcosa faresti bene a dircelo.»
L’altro sorrise. «E perché dovrei? Vi ho appena detto che non vuole noi, che non ci riguarda. La privacy è una cosa importante Thanatos, dovresti saperlo meglio di chiunque altro.» lo fissò dritto negli occhi, dolce ed affascinante come solo l’amore poteva esserlo.
«Continuate i vostri scambi di battute in separata sede.» li richiamò Ade. «Eros, Thanatos ha ragione.»
«Ma ne ha anche Eros.» disse allora Ipno. «Se non ci riguarda è affar privato di Gio e se non gli diamo un minimo di fiducia noi, che siamo coloro che più gli sono rimasti vicini, non so chi dovrebbe farlo. Non ha più una famiglia che lo sostenga da troppo tempo.»
Il fratello lo guardò male. «Non prendere le use difese.»
«Però pensaci Than, tu più di tutti…come fai a non ricordare il suo sguardo, quel giorno, ogni volta che lo guardi in viso? Come fai a non ricordare la sua voce? Le battaglie che ha combattuto…Neanche nei suoi sogni è felice.» l’ultima affermazione gli scivolò dalle labbra pallide come il segreto di un condannato a morte, la preghiera di un fedele, la confessione di un peccatore.
Giordano, che loro tutti conoscevano da una vita, la sua, non era più felice e non lo era da così tanto tempo che forse neanche ricordava più come fosse esserlo.
Eros annuì lentamente. «Forse ciò che sta per fare gli ridarà un minimo di felicità.» disse.
«In che modo? Giordano è una di quelle poche anime che potrebbe esser felice solo con qualcosa che non esiste.» sbuffò Thanatos.
Il dio dell’amore si strinse nelle spalle. «A questa nostra allegra riunione mancano ancora un paio di dolci signorine per completare il gruppo di Dei affezionati a Gio.» se ne uscì estemporaneo.
Ade alzò un sopracciglio. «Gli Dei che gli sono affezionati sono un po’ troppi, in realtà.»
«Questo perché il periodo in cui ha vissuto con noi è stato probabilmente il più divertente. Io non ridevo così tanto da quando Eris ha smesso di lanciar frutta ai matrimoni.» sogghignò Eros, Ipno non poté ché ridacchiare di sottofondo, stroncato poi da un’occhiataccia del fratello.
«Eris è una delle grandi assenti, mi stai dicendo che dovremmo andare a chiedere alla Discordia se sa’ cos’ha in mente Giordano e se può impedirlo?» domandò Ade.
«Assolutamente no! Anche perché Eris non farebbe altro che alimentare qualunque terrore sia presente in voi.»
«In noi, vorrai dire.» precisò il grande dio.
Eros sorrise. «Oh, ma io mi sono già schierato, zio. Siete voi quelli che devono fare una scelta.»
«Come posso schierarmi da una parte se non so quel è l’altra e, soprattutto, non conosco il fine ultimo che il mio ipotetico alleato vuole raggiungere?» domandò seccato Ade.
Ci fu un attimo di silenzio.
«Sai, credo che sia per questo che piaci a poche persone.» tubò Eros con un’espressione accigliata in volto.
Ade grugnì. «Grazie nipote, sempre gentilissimo…»
«Vi serve davvero sapere cosa sta cercando? Zio, tu sei il primo di noi che si è fidato ciecamente di lui, che lo è andato addirittura a cercare. Ricordati che prima di allora non aveva mai incontrato uno di noi, pregava il Dio dei Cristiani e conosceva solo eroi di un altro mondo. Al tempo, quando non era altro che un moccioso di dodici, tredici anni, cosa ti ha spinto ad andare da lui?» gli chiese serio.
Il dio lo fissò attraverso il velo lucido di quella proiezione e poi sospirò. «Il suo sangue, credo. Era un richiamo così forte, così famigliare… e poi sua madre, di certo anche quello ha influito tantissimo. Dopo quello che aveva fatto-» si interruppe e lasciò la frase in sospeso: tutti loro ricordavano perfettamente cos’era stata in grado di fare quella donna, non c’era bisogno di rievocare quelle immagini ad alta voce.
«Ed ora invece cosa ti blocca?» insistette il fanciullo.
«Non lo blocca nulla, davvero.» s’intromise Ipno, «Ha già preso le sue difese con Artemide, sia lui che Persefone sono dalla parte di Giordano. Credo che sia solo preoccupato per lui.» si strinse nelle spalle e poi si accomodò meglio tra le gambe del fratello, poggiandosi bene con la schiena e sospirando pensieroso. Allo sguardo di Ade sorrise angelico. «Anche noi Dei sogniamo, Artemide poi è particolarmente legata alla notte, quindi è più facile percepire i suoi timori.»
«Quindi a lei hai detto che stai con Gio?» domandò allora Thanatos.
Ade scosse la testa. «Le ho detto che non ho la più pallida idea di ciò che quel pazzo sta macchinando ma che sono sicuro che non potremmo fermarlo. E che non ho la minima intenzione di provarci in ogni caso.» concluse distogliendo per un attimo lo sguardo.
Lo lasciò vagare sul pavimento scuro, sulle colonne marmoree e oltre gli archi che contornavano la sua Sala del Trono, riuscendo a spingere la sua vista oltre quella cortina ombrosa ed insinuarsi nei meandri di quell’infinito labirinto di vene che era l’Inferno. I semidei erano così sciocchi quando ritenevano che il pericolo più grande fosse il mostro di Dedalo, non avevano la più pallida idea di cosa fosse davvero un labirinto, che quel genio stesso aveva preso spunto proprio dai veri intrighi del mondo, dall’Ade, dal Tartaro, dall’Olimpo…
«Quindi stiamo discutendo del nulla.» Thanatos poggiò mollemente le braccia attorno alla vita del gemello, abbandonandogliele in grembo. «Ognuno di noi deve qualcosa a quel mortale e ognuno di noi ha i suoi motivi per appoggiarle le sue scelte.»
Ade annuì. «Non posso dire di aver grandi fedeli seguaci o parenti fidati,» iniziò, «Gio è l’unico che non mi ha mai tradito – disse con ironia – il che ha dell’assurdo ma è vero. Non sarò io il primo tra di noi a farlo.» sentenziò in fine.
Eros gli sorrise. «Io ho già detto che sto con il nostro piccolo Giordi
«Temo di avergli tolto troppo per negargli il mio aiuto o anche solo per dirmi neutrale in qualunque cosa verrà.» sospirò il dio della Morte. Poi lanciò uno sguardo a Ipno, «Fratello?»


L’uomo della sabbia dorata fissava però un punto indefinito, gli occhi vitrei, lontani in dimensioni che gli altri avrebbero dovuto cercare con estrema fatica per potervi arrivare. Scrutava un momento preciso della storia, un passato relativamente recente ma incredibilmente lontano.
Era in una camera spoglia, adibita a biblioteca, a studio forse, ma con pochi libri, alcuni dei quali bruciacchiati o rotti. C’era una vecchia scrivania scorticata, una lampada sbeccata e delle carte abbandonate sul piano. Ma c’era qualcos’altro che l’aveva incantato.
Vide un bambino, indossava una vecchia camicia da uomo, le maniche gli erano state ripiegate più volte sulle braccia magre, i lembi annodati in vita per adattarla il più possibile a quella piccola statura. Così come gli occhi del dio avevano una strana luce quelli del bambino brillavano come un fuoco vivo, le fiamme alte e dorate, le punte rosse, i riflessi di un tramonto incendiato sul mare. Davanti al bambino una donna dal capo velato teneva una mano protesa verso di lui, un’ombra fitta nascondeva il suo volto ma Ipno avrebbe giurato che non ve ne fosse uno definito lì sotto, ma solo qualcosa in continuo mutamento.

«Riesci a vederlo, piccolo mio? Riesci a vedere oltre?» gli chiedeva con voce dolce e bassa.
Il bambino annuì.
«Questo è ciò che tutto regge. Se mai riuscirai a porvi le tue piccole mani, mio tesoro, allora il tuo verbo sarà legge. Un tocco ed ogni cosa si piegherà al tuo volere.»
La luce accecante che brillava negli occhi del bambino invase l’intera stanza, l’intero ricordo, come un’esplosione incontenibile.


Ipno puntò gli occhi tondeggianti e scuri dritti in quelli del fratello, l’iride nera riluceva attorno alla pupilla dello stesso colore dell’argento vivo.
«Non potrei mai impedire la realizzazione di un sogno.»



 
*
 



Jane alzò gli occhi al cielo per l’ennesima volta.
«Se non la smette immediatamente gli lancio contro qualcosa.» ringhiò a voce bassa.
Eliza di fianco a lei sospirò. «Cade! Abbassa la voce!» disse voltandosi verso il ragazzo.
Quello se ne stava tranquillo a chiacchierare con Lea, un braccio tenuto con nonchalance attorno alle spalle di Jonas, che per qualche motivo a tutti oscuro non si era ancora tolto il rosso di dosso a suon di calci, e l’altra mano sprofondata nella tasca, a giocar probabilmente con il suo coltellino.
«Dico solo che ora siamo ben o male tutti accoppiati in un modo o nell’altro, pensateci: la dolce signorina Lea e Elza sono la coppia delle mamme.»
Lea alzò un sopracciglio sorridendo divertita. «Credevo si chiamasse Eliza.» gli fece notare.
«Perché è quello il mio nome! ELIZA!» urlò di rimando la mora.
Cade fece un gesto vago con la mano. «Suvvia, è solo una lettera, che differenza fa?»
«Non ricominciare con questa storia, ti prego.» borbottò Jonas con voce afflitta.
«Poi ci sono il gigantone e la ragazza delle Praterie che sono il due inquietante.»
«Úranus non è inquietante, dai!» prese le difese la sua compagna, ma il tono di Cade era giocoso e né lei né Úranus stesso se la presero a male.
«Un po’ lo è, ma è colpa dell’altezza e dell’aria da vichingo minaccioso. Oh! E poi io e lui siamo il duo dei rossi! Così come tu e Jonas siete il due dei biondi carini, Nathan lo lasciamo da parte perché è un rompi palle e poi sono sicuro che se li schiarisca i capelli, ai miei tempi si faceva con limone e aceto sai? Poi è arrivata anche l’ammoniaca, certo.»
«NON SONO SCHIARITI! PORCA DI QUELLA TROIA!»
«NON IMPRECARE!» lo sgridò a voce ancora più alta Lea. Eliza si voltò per guardare male il compagno d’arme e lui sbuffò infastidito.
«Sta storia che mo siete in due a darmi il tormento è eccessiva.»
«Allora tu non darci motivo di farlo.»
«Poi,» continuò Cade, «Io e il gattino qui-»
«Ti ho già detto di non chiamarmi così dannazione!» sbottò rosso in viso Jonas cercando di rifilare un pugno sul fianco all’altro. Cade lo schivò velocemente facendo un balzo avanti, per poi rimettergli il braccio attorno alle spalle e ritirarselo contro. Chiuse l’altra mano a pugno e gliela sfregò sui capelli, scompigliandoglieli più di quanto già non lo fossero.
«Sei piccolo e arruffato, sei un gattino o un uccellino, hai la scelta, guarda come sono magnanimo!»
«Secondo me non sai neanche cosa significa.» sbuffò a bassa voce il biondo.
«Il soldatino ed Elza cara sono appunto la coppia di soldai. Tu avevi fratelli? Úranus! Tu ne avevi?
Lea annuì. «Aveva un fratello maggiore, non proprio di sangue però, era un figlio di Apollo anche lui e mi ha adottata.» spiegò con un’alzata di spalle.
Cade fischiò. «Uh, mi spiace, allora ti tocca far anche coppia con Nathan, siete gli unici che hanno conosciuto altri fratelli “divini”.»
La ragazza sospirò. «A quanto pare… non che mi piaccia aver qualcosa in comune con lui. Ma tu non hai mai incontrato i tuoi fratelli? Non sei mani stato al Campo?»
«Nah, assolutamente no.»
«Ma sai usare i tuoi poteri.» disse pensierosa. «Se posso chiedere, chi è il tuo genitore divino?»
A quella domanda un po’ tutti drizzarono le orecchie, curiosi di sapere quale divinità di nascondesse dietro a quella velocità, quei salti e quelle strane correnti d’aria che spesso tiravano attorno a loro.
Cade però sorrise sornione e scosse la testa. «Storia lunga, un giorno te la potrei anche raccontare però. E i miei poteri li so usare perché mi servivano, non ho fatto proprio una vita agiata diciamo così.
Allora? Úranus? Tu fratelli di sangue ne avevi? Diamine, non ditemi che sono l’unico! Che cazzo di vita triste avete avuto tutti quanti?»
Il ragazzo del nord tentennò un attimo, poi, lentamente, annuì. «Non sono vissuto abbastanza per vederlo, ma mia madre era incinta quando io morii.»
Lo sguardo di Cade divenne subito serio e cupo. «Mi spiace amico, so quanto dev’esser dura. Io avevo una sorellina, Annie non era una semidea come me, per fortuna, ma era comunque capacissima di darti filo da torcere.» raccontò con nostalgia, voltandosi poi a guardare Jonas e sorridendogli. «Ora invece che preoccuparmi di lei mi preoccupo di te, va bene?»
Con un sospiro rassegnato ed un mezzo sorriso in volto Jonas scosse la testa. «Se non ci fai ammazzare entrambi per me va bene, ma se diventi troppo appiccicoso di picchio.»
«Dolcezza, dovremmo discutere di questa cosa del picchiare il povero fratello Cade perché ti esprime affetto. Capisco che tu sia nato in una famiglia di nobilotti ingessati, ma dobbiamo lavorare sulle tue manifestazioni sentimentali e anche sulla tua autodifesa, che per inciso fa pena e misericordia.» ammiccò divertito.
La gomitata che Jonas gli rifilò fu parata velocemente. «Ecco un esempio!»
Davanti alla fila, con la testa alta e gli occhi rivolti al cielo per l’esasperazione, Nathan abbaiò senza ritegno contro l’Irlandese, intimandogli di stare zitto e di darsi una mossa.
«Come cazzo è possibile che tutti quei fottuti mastini siano scomparsi nel nulla- AZZAEDATEVI A DARMI UN ALTRO SCHIAFFO E VE NE RIDO’ IL DOPPIO!» urlò contro Eliza che già aveva la mano alzata.
La figlia di Nike lo guardò dritto negli occhi, alzò un sopracciglio e gli diede comunque un coppino dietro la nuca.
«Non ci provare ragazzino.» lo ammonì con tono perentorio.
Jane, lì di fianco, ridacchio deliziata da quella scena. «Se avessi saputo che stando da sola mi sarei persa scene del genere sarei venuta a cercarvi fin dall’inizio della gara.» gongolò.
Al figlio di Ares però cosa avrebbe fatto o meno l’altra non gliene poteva fregar nulla e con la sua solita aria arrabbiata ed arcigna tirò fuori la sua bussola divina ed individuò facilmente il nord.
«Cos’è? Una bussola magica?» domandò innocentemente Úranus.
Nathan chiuse gli occhi bestemmiando a mezza bocca.
«Cerchiamo di trovare i dannati mastini il prima possibile. Ho bisogno di respirare aria diversa dalla vostra.» ringhiò come uno di quei mostri.
Úranus lo guardò senza caprie cosa gli avesse detto di male, mentre Eliza alzò solo un angolo della bocca e Cade e Jane se la ridevano alla grande.
L’Islandese però si riscosse in fretta, gettando un’occhiata al terrendo ed indicando poi una direzione del tutto diversa da quella che il soldato voleva prendere.
«Di là non troveremo nulla, le tracce portano da questa parte.»
«Sei sicuro?» chiese Nathan affiancandolo.
Il rosso annuì. «Se permettete, vi guiderei dai Mastini Infernali.»
Cade sorrise ampiamente, allungando anche l’altro braccio per cingere le spalle di Lea che, sorpresa ma non infastidita, lo guardò colpita da tutta quella confidenza che era in grado di dare a quelli che, all’atto pratico, erano due sconosciuti.
«Guidaci alla vittoria, capitano! Sei il più grande di tutti e pure il più alto, direi che ti sei meritato il ruolo di condottiero! Però, promettimi che ci divertiremo almeno un po’, già questa gara è pesante di suo, se non ci facciamo neanche due risate è la fine.» gli gridò annuendo alle sue stesse parole.
Lea lo osservò per un attimo, pensierosa, poi un sorriso per nulla rassicurante le si aprì sul volto.
«Oh, mio caro, ho la vaga sensazione che potrei accontentarti.»

Dopotutto, il Dio Apollo era tanto brillante e gentile quanto sadico e pericoloso.
 
 
 
Le urla di Jane si sarebbero potute sentire sino alla Casa di Ade e forse, se il dio non fosse stato impegnato a far altro, l’avrebbe fatto di certo.
La figlia di Ecate teneva le braccia serrate attorno alla vita di Lea, il volto premuto tra le scapole, gli occhi chiusi e la bocca spalancata per dar fiato a tutta la paura che stava avendo in quel momento. Se non fossero già morti Lea l’avrebbe fatta fermare con il timore che potesse aver un infarto, ma ormai non c’era più questo rischio da parecchio tempo e la bionda si limitò a gridarle ancora di aprire gli occhi e guardarsi attorno, senza riuscire ad abbandonare quell’enorme sorriso che le si era aperto in volto.
In realtà, Elena non stava certo ridendo per la paura della ragazza seduta dietro di lei, che per la prima volta sperimentava l’ebrezza della corsa veloce, assolutamente no, non era una persona così cattiva. Però quel piccolo punto di sadismo che le era stato donato assieme al sangue di suo padre ogni tanto si ripresentava con prepotenza.
Le risate quasi sincopate di Cade, che era riverso a terra, con le mani strette sullo stomaco, la faccia paonazza e gli occhi pieni di lacrime, le confermarono che dopotutto non era l’unica stronza sadica lì in mezzo.


«FERMA QUESTO CAZZO DI COSO! PORCA TROIA, POZZI! FERMA QUESTO FOTTUTISSIMO MASTINO PORCO D-»


Lea rise ancora più forte, la voce di Cade riuscì a sovrastare le urla di Jane e le bestemmie di Nathan. Di fianco al rosso, seduto a gambe incrociate sulla terra brulla, Jonas cercava in tutti i modi di mantenere un minimo di contegno dopo che Eliza aveva dovuto battergli vigorose pacche sulla schiena per non farlo soffocare con la sua stessa saliva. Ammirava davvero tanto Cade che stava ridendo a crepapelle da almeno dieci minuti senza rischiare di strozzarsi.
La figlia di Nike era in piedi dietro di loro, lanciando sguardi di blando rimprovero al rosso, che si rotolava a terra come un cane, e controllando con espressione divertita che né Nathan né Jane mollassero la presa. Vicino a lei Úranus teneva le labbra serrate nel vano tentativo di non far capire agli altri quanto tutto ciò lo facesse ridere: quando Nathan sarebbe tornato indietro sarebbe stato meglio non sbattergli in faccia quanto quel suo spettacolino avesse fatto ridere di cuore tutti.
I poveri due sfortunati intanto continuavano ad urlare ed imprecare senza posa, in parte coperti dalle risa dei compagni, dal rumore degli artigli che affondavano nella terra e dai latrati giocosi del gigantesco cane nero su cui erano saliti in groppa.
O almeno su cui Lea e Jane erano salite in groppa, Nathan se ne stava malamente aggrappato al mastodontico collare, fortunatamente spento, cercando in tutti i modi di risalire in sella. Inutilmente visti i continui salti del mastino.
 
«ECCO! È PER QUESTO CHE VOLVEVO SAPERE CHI CAZZO ERA NERONE! PER QUESTO PORCO ZEUS!»
Lea rise ancora più forte. «Attento a quello che dici, Wright! Zeus non apprezza le imprecazioni contro di lui!»
«FAMMI SCENDERE DA QUESTO FOTTUTO MASTINO!» le urlò rabbioso.
«Tecnicamente sei già sceso.» gongolò divertita. Poi volse la testa verso Jane. «Ce la fai a sopportare un ultimo salto o vuoi scendere subito?» le chiese gentile.
«Questa è stata la scelta più terribile di tutta la mia vita, neanche entrare nel bosco è stata una scelta pessima come questa.» mormorò tra sé e sé.
«Se reggi un altro po’ facciamo volare via il biondastro!» propose la bionda.
Jane aprì di scatto gli occhi e strinse ancora di più la presa attorno alla vita della ragazza fin quasi a farle male.
«Che sia spettacolare.» le ringhiò quasi come una minaccia.
Lea sorrise ampliamente e si volse verso gli altri. «MI RACCOMANDO AL VOLO!»
Si chinò sul collo del mastino e carezzandolo gli disse sicura, «Nerone, SU!»
Senza farselo ripetere due volte il Mastino Infernale si piegò sulle zampe enormi e spiccò un salto altissimo. Dovevano essere come minimo una decina di metri e come Jane urlò più forte Nathan imprecò pendendo la presa sul collare.
Per un attimo il figlio di Ares rimase sospeso nell’aria, poi iniziò a precipitare sulla scia di una bestemmia multipla che riuscì a prendere cristiani, ebrei, buddisti, musulmani, anglicani, protestanti e scintoisti.
Da terra i ragazzi lo guardarono come incantati, Cade aveva smesso di ridere solo per ammirare quel volo impressionante ma quando Eliza gli diede una pacca sulla spalla fu lesto a tirarsi in piedi, spolverarsi i pantaloni e slanciarsi in avanti.
Saltò anche lui, afferrando Nathan a metà della caduta e tenendolo stretto come una principessa.
«LASCIAMI IMMEDIATAMENTE DIO-»
Cade rise ancora, saltellando a destra e sinistra per impedire al biondo di scendere e lo lasciò poi cadere sonoramente di sedere quando questo cominciò a scalciare come un moccioso.

Jonas osservò il mastino fermarsi vicino ai due, Lea aiutare Jane a scendere e poi, una volta ripresasi anche la figlia di Ecate, ridere senza ritegno della faccia del soldato.
Strinse tra le mani la medagli lucida e fredda che aveva recuperato, dove il profilo di una donna gli ricordava l’ideatrice di quella prova folle.
Era stato il primo a recuperarla, probabilmente se non fosse stato per Úranus non ci sarebbe mai riuscito. Era sorprendente il modo in cui, malgrado entrambi avessero un’aura cupa, i mastini gli si erano avvicinati pieni di fiducia. Aveva raccontato loro che suo padre poteva parlare con gli animali ma che lui, purtroppo, non aveva lo stesso dono. Eppure riusciva ugualmente a comunicare con loro in un qualche modo, così com’era riuscito a convincere il mastino a cui Cade avrebbe dovuto prendere la medagli a star fermo e buono, ad accucciarsi sino a sdraiarsi.
Jonas aveva notato il modo in cui Eliza si era avvicinata al gigante per sussurrargli qualcosa all’orecchio, aveva notato gli sguardi di entrambi diretti verso l’altro rosso e anche lo sguardo teso che Cade continuava a lanciare ai cani neri ogni volta che ne incrociavano uno. Parlava di più, più a sproposito del solito, o stava zitto, troppo zitto per lui.
Era stata la curiosità ma anche la preoccupazione, accumulata fin dall’inizio di quella stremba prova, a spingere Jonas ad avvicinarsi finalmente all’amico e chiedergli se ci fossero problemi, cosa lo turbasse.
Orami era sceso a patti con la realtà: da quell’assurda gara, qualunque fosse stato l’esito finale, Jonas ne aveva guadagnato senza ombra di dubbio un amico. E sì, se avesse fallito sarebbe tornato nei Campi di Pena e di certo lui e Cade non si sarebbero mai più rivisti per l’eternità, ma in vita Jonas non era mai riuscito a farsi tanti amici, a farsene di veri e per una volta- per una volta che qualcuno lo guardava davvero, che non cercava un modello, la perfezione, per una volta che qualcuno lo guardava senza aspettarsi un dato comportamento, senza pregiudizi, offrendogli il suo aiuto, la sua spalla a cui poggiarsi, il suo petto su cui piangere senza esser giudicato ma solo consolato ed accolto con disinteresse, con affetto… beh, non era uno stupido, non si sarebbe fatto scappare una situazione del genere, una fortuna del genere, solo per sciocchi preconcetti e idee preformate su come doveva comportarsi un vero uomo.
Era andato da lui a testa alta, deciso ad aiutarlo in qualunque modo gli sarebbe stato possibile e, con sua grande sorpresa, si era ritrovato davanti il sorriso gentile e colpito del ragazzo, che l’aveva guardato con una scintilla negli occhi verdi – gratitudine? – che gli aveva riempito il petto d’orgoglio.
Aveva poggiato di nuovo il braccio sulle sue spalle ma questa volta Jonas si era reso perfettamente conto di come il più grande si stesse appoggiando a lui. Si era preoccupato, era andato ad offrirgli il suo supporto e Cade l’aveva accettato senza la minima esitazione, seppur non come Jonas intendeva.
 
«Non è niente. Oddio, qualcosa è però posso affrontarlo, l’ho già fatto più di una volta, tranquillo.»
«Ma è qualcosa che fanno i mastini? Sono i mastini stessi? Perché durante le corse che ci siamo fatti non sembravi più spaventato di noi.» gli disse piano, cercando di non farsi sentire dagli altri. Cade aveva nascosto le sue debolezze, Jonas si sarebbe impegnato a fare altrettanto.
Il rosso però scosse la testa. «Questo perché ero discretamente spaventato a morte. Eh eh, a morte, non trovi che sia divertente?»
Jonas alzò gli occhi al cielo. «Come no, da morire.» replicò ironico.
Cade rise, poi sospirò e scosse la testa. «Davvero piccoletto, ce la faccio. Devo solo prendere un bel respiro e farmi coraggio. Non è la prima volta che mi butto in mezzo al pericolo.»
«In questo caso ti butteresti in mezzo alle fiamme.» gli fece notare.
Cade rabbrividì e Jonas lo studiò con attenzione. «È per questo? Sono le fiamme?»
«Ho brutti ricordi legati al fuoco.» si bloccò, lo guardò dritto negli occhi e gli sorrise. «Magari un giorno te li racconto, che dici?»
Il ragazzino rimase fermo per un attimo, indeciso sul da farsi, inesperto davanti ad una situazione del genere. Non gli era mai capitato che qualcuno ammettesse così bellamente i suoi problemi, più di uno poi! e gli dicesse anche che gliene avrebbe parlato in seguito. L’unica cosa che reputò giusta da fare quindi fu posare una mano su quella del compagno e stringerla brevemente, annuendo convinto.
«Quando vuoi.»


Erano riusciti in breve tempo a recuperare la medaglia per Cade prima, poi quella per Jane, decisamente più difficile visto che a lei non piacevano i mastini e ai mastini non piaceva lei, e poi quella per Nathan, che gli era costata qualche bruciatura curata con facilità da Jane e qualche pugno da parte di Eliza per aver cercato di picchiare di rimando il mastino che l’aveva scottato e per non aver aspettato il segnale di Úranus per avvicinarsi al cane.
La figlia di Nike offrì una mano a Jonas e lo tirò su di peso, avviandosi assieme a lui ed Úranus verso i loro compagni.

«Stavo pensando che potremmo aiutarci a vicenda.» disse con tranquillità la mora. «Tu hai un’aura molto particolare, non so quale sia il potere che hai ereditato da tuo padre ma ho ragione di credere che sia stato quello a metter fuori combattimento Nathan, giusto?»
Il ragazzo annuì. «Temo di sì.»
«Non è stata tutta colpa sua. Credo che in parte sia stato io.» si intromise Jonas. «Non so cosa sia successo di preciso, ma posso ipotizzare che i nostri, ehm, poteri? Si siano “mischiati” e abbiano fatto i danni che hanno fatto.»
Eliza lo scrutò a lungo ed annuì. «Ci torneremo con calma, quando saremo tutti assieme.» poi proseguì. «Rimane il fatto che sia tu che Lea avete dei poteri particolari e molto utili, ma mancate di preparazione bellica.»
Úranus le diede ragione. «Ce la siamo cavata fino ad ora ma non so quanto potremo fare quando le prove diventeranno più dure.»
«Potete unirvi a noi.» propose. «Siamo un gruppo formato per caso ed un po’ alla volta. Io, Nathan e Cade siamo rimasti bloccati al gabbiotto di Shilon Yu. Se non fosse stato per Cade che approfittò delle anime che si ritirarono in massa cercando di superarmi non ci saremo mai incontrati, temo.»
«Mi ricordo di voi, Lea mi fece passare il più velocemente possibile per non dover vedere Nathan.»
«Quindi è sempre Cade che fa danni?» chiese Jonas divertito.
Eliza gli sorrise. «Ha recuperato te, gli Dei solo sanno dove.»
«In rotta di collisione con un gigante, non saprei neanche dirvi di più.»
«E noi abbiamo trovato Jane inghiottita dall’edera di Persefone.»
«Credo di ricordare anche questo, vi abbiamo preceduti all’uscita dal Labirinto.»
Jonas sbuffò. «Messa così sembra quasi destino che vi incontraste, vi siete incrociati ad ogni prova.»
La giovane donna annuì. «Forse.»
«Le trame ed il volere del Fato sono oscuri anche agli Dei stessi.» mormorò serio Úranus.
«Quindi cosa farete? Vi unirete a noi?» domandò ancora lei.
L’islandese annuì. «Mi sembra una proposta vantaggiosa, chiederò ugualmente a Lea, ma credo che anche lei sarà d’accordo.»
«Bene. E se ti preoccupa Nathan, lascia stare. Abbaia, prova a mordere ma non ci riesce mai, a differenza dei classici figli di Ares ha una disciplina davvero esemplare.»
«I figli del dio della Guerra sono disciplinati, sono tutti combattenti.» disse lui senza capire.
Eliza però scosse la testa. «Non è sanguinario come potrebbero esserlo i suoi fratelli, è molto meno violento di quello che sembra.»
«Davvero?» chiese curioso Jonas, poi ci pensò su. «In effetti ogni tanto si vede che prova a fare la persona civile. Ogni tanto.»
«Avete davvero discusso?» gli domandò Eliza.
Lui fece un cenno negativo. «Ero preoccupato per- beh, ero preoccupato per Cade, per come si comporta da quando siamo entrati qui… presumo che te lo abbia detto, no? Cosa gli dà fastidio.»
Eliza lo guardò sorpresa. «Lo ha detto anche a te?»
«Ho indovinato e lui non ha negato, mettiamola così. In ogni caso, Nathan ha solo provato a consolarmi, credo. Un modo molto impacciato e abbastanza pietoso, ma c’ha provato.» si strinse poi nelle spalle.
«Mh, ogni tanto si comporta come l’adulto che dice di essere allora.»
«Non è più grandi di te?» le ricordò Jonas.
Eliza fece un verso sprezzante. «Lui avrà anche fatto la guerra del Vietnam o quel che è, ma io ho sempre fatto quella d’Indipendenza. Sono stata tra coloro che hanno lottato per fare l’America.» disse orgogliosa.
Si fermarono vicino agli altri quattro, che con grande sorpresa di tutti stavano discutendo, e la mora non perse tempo in chiacchiere.
«Andiamo, non abbiamo altro tempo da perdere.»
Cade si voltò allora verso Lea, sorridendole galante e facendole un delicato baciamano.
«È stato un vero piacere conoscervi, signorina Lea. Spero che le nostre strade si rincrocino prima del gran finale.» le fece l’occhiolino
Lea si portò una mano al cuore con fare teatrale. «Oh, Mr Cade! Che disdetta doversi già separare!»
I due si guardarono ridacchiando e si strinsero per bene la mano.
«Alla prossima, allora.» disse lui.
Lea sorrise. «Buona fortuna.»
«Se vuoi te lo regaliamo.» borbottò Nathan superandoli senza degnarli di uno sguardo.
«Non ce ne sarà bisogno.» lo stroncò subito Eliza.
Jane alzò un sopracciglio. «Perché? Lo lasciamo qui?»
«Il contrario, in effetti.» disse Jonas sogghignando in direzione di Nathan e aumentando il passo per sorpassarlo. «Verranno anche loro con noi.» concluse con sadico piacere.
Il soldato si voltò di scatto verso i suoi compagni e poi scosse la testa. «No, no no no no. Non se ne parla! Siamo già troppi! E dire che eravamo partiti in tre! Cosa vogliamo fare? Uno squadrone d’assalto?»
«Beh, più siamo meglio è, no?»
«Un cazzo ragazzino! Chi diamine l’avrebbe deciso, sentiamo?»
«Io. Ti crea problemi? Prima che tu mi risponda, ti ricordo che te, Jonas e anche Jane avete preso il brutto vizio di svenire nei momenti meno opportuni, quindi direi che una figlia di Apollo che vi curi velocemente al momento giusto è quello che ci serve. Úranus è d’accordo con me, ci alleeremo fino alle battute finali e poi combatteremo tra di noi, senza rancore.»
«Io non sono d’accordo!»
«E io me ne sbatto.»
«ELIZABETH!»
 
Lea, che aveva voltato il capo per seguire quel battibecco, lanciò uno sguardo ad Úranus ed annuì, come a volergli dare il suo benestare, poi si volse di nuovo verso Cade e gli sorrise.
«Pare quindi che i saluti siano rinviati a datata da definirsi, messere.»
«Così vuole li fato, madamigella.» ammiccò il rosso.
Ma nei suoi occhi Lea scorse qualcosa come un fremito, d’indecisione.
«Tutto bene?» gli chiese infatti preoccupata. Se dovevano essere compagni d’avventura allora tanto valeva districare subito nodi ed incertezze.
«Posso chiederti un favore?» domandò a bassa voce Cade. «E anche di mantenere un segreto?»
Lea si fece seria ma annuì subito, qualcosa le diceva che non era un affare legato alla gara o per lo meno non alle prove in sé per sé, così come non era legato direttamente ai suoi – loro – compagni. La sua parte divina s’attivò all’istante, come quando giungeva un nuovo paziente nello studio di Giuseppe.
Nascondendosi un poco dietro la figura alta della ragazza Cade tirò fuori dalla tasca sinistra la mano, fasciata alla bene e meglio con un pezzo di stoffa sporco e logoro.
Srotolò con attenzione quella benda improvvisata e fissò lo sguardo in quello di Lea. Un suo cenno affermativo ed il ragazzo aprì la mano, mostrandogli il palmo. Su di esso spiccava una ferita lunga, coperta di terra e di polvere, era però sopra ogni dubbio fresca, fatta di recente. I margini netti del taglio erano uniti da uno spesso ma fragile strato di sangue rappreso, in tutto e per tutto simile ad una ferita che si sarebbe potuto procurare in vita.
Solo che loro non lo erano più. Loro erano morti, non avevano bisogni di respirare, di mangiare, di dormire. Non si stancavano, non avevano il fiatone, non gli facevano male i muscoli dopo corse a perdifiato. Non svenivano e non piangevano, non avevano un battito accelerato, non avevano proprio battito e questo avrebbe implicato anche il non aver più una stilla di sangue nelle vene, nulla che lo pompasse in ogni terminazione.

I contratti all’Inferno si firmano con il sangue, ma il sangue di chi?

«Il contratto di partecipazione…» mormorò a mala pena.
Cade annuì. «Il sangue con cui l’abbiamo firmato era il nostro.»
«Ce lo hanno ridato? Abbiamo di nuovo il sangue?» sussurrò sconcertata.
Il ragazzo scosse la testa. «Non so dirtelo con certezza ma… gente che sviene, che ha attacchi di panico. Bruciature che puzzano di carne bruciata, morsi e ferite che fanno male. Nel Labirinto c’erano anime che combattevano le une contro le altre cercando di uccidersi.»
Lea lo guardò con attenzione. «Perché stai dicendo a me queste cose? Ci siamo appena conosciuti, potrei anche essere un mostro in realtà e uccidervi tutti alla prima occasione.» la sua domanda era del tutto lecita ma il ghigno predatorio che si aprì sul volto di Cade le diede una risposta prima ancora di riceverne davvero.
«So riconoscere un criminale quando ne vedo uno, tra simili si ci riconosce sempre. Sì, ero comunque nei Campi Elisi, storia lunga in breve: ho fatto qualcosa per cui tutti i miei piccoli peccatucci del passato sono stati perdonati. Ma lo sto dicendo a te perché sei una figlia di Apollo, dio della medicina, no?»
«Dei medici più che altro, ma sì, diciamo di sì.»
«Eri un’infermiera mi è parso di capire, quindi ti sarà capitato di veder feriti di ogni genere, di veder malattie, di riconoscere sintomi. Se dovesse succederci qualcosa, se uno chiunque di noi avesse bisogno di cure…»
«Io saprò che le ferite sono reali e che dovrò trattarle diversamente rispetto a come le avrei trattate fino ad ora. Ma perché non vuoi dirlo agli altri?» insistette pur avendo capito in pieno il suo punto di vista.
Cade rimase fermo per un momento, alzò lo sguardo verso i loro compagni e le fece cenno di incamminarsi.
«In vita ho imparato una cosa importante: i bambini sono invincibili, riescono a fare cose che gli adulti possono solo sognare. Possono arrampicarsi su quell’albero altissimo, possono scalare il muro, nuotare nel torrente. Saltano da una roccia all’altra, corrono nei vicoli e non sbagliano mai. I bambini smettono di essere invincibili quando crescono, quando scoprono di poter cadere, che le loro braccia, se non ben allenate, non possono portarli fino alla cima dell’albero o oltre il muretto. Che i flutti del fiume sono maledetti e ti trascinano giù e se non sei abbastanza forte, se non hai abbastanza aria nei polmoni, non sopravvivi per raccontarlo e mettere in guardia i tuoi amici.» con un movimento fluido le porse la sua mano, attento a non girar il palmo in avanti. «I bambini smettono di diventare invincibili quando scoprono che si può morire, che il dolore non è solo una sbucciatura, allora diventano adulti. Noi siamo come loro, siamo bambini.»
Lea prese delicatamente la mano di Cade tra le sue e mormorò bassi canti di guarigione, la ferita si richiuse velocemente, pulita e disinfettata.
«Nel momento in cui si renderanno conto di poter morire, di poterlo fare seriamente, dolorosamente, proprio come quando eravamo vivi, allora non saranno più invincibili. Avranno paura di affrontare ogni prova, ancor di più di quanto già non ne abbiano. Dopo ogni fuga dovranno fermarsi a riprendere fiato, il dolore che sentiranno ai muscoli li convincerà che non resisteranno ancora per molto.»
«Perderanno la speranza… e tu non vuoi che questo accada.» concluse esaminando il proprio lavoro.
Cade scosse la testa. «Siamo morti, non abbiamo più speranze. Non voglio che perdano la fiducia.»
«In sé?»
«In tutto. Se perdi la fiducia sei morto.»
«Ma noi già lo siamo, no?»
«Vero, ma se tu avessi saputo fin dall’inizio cosa sarebbe successo, ti saresti comunque iscritta?»
Lea ci pensò su. «Non saprei dirtelo.» ammise «Quindi non vuoi che perdano la fiducia in questa gara, che smettano di credere di potercela fare?»
Il ragazzo sorrise. «Non proprio.»
Guardandolo leggermente esasperata Lea lasciò andare la sua mano. «In cosa devono continuare a credere allora?» domandò in fine.
Sul volto pallido dell’irlandese il sorriso luminoso si fece amaro.
«Nella vita. Non voglio che perdano la speranza di poter esser ancora vivi.»


 
 
*

 
Le vesti che gli erano state date erano morbide e confortevoli. La foggia era simile a quella che indossava anni addietro, ma quello strano capo, così aderente, che gli fasciava le cosce e la vita l’avevano lasciato perplesso.
 
«Come avete detto che si chiamano?» chiese per l’ennesima volta.
L’uomo, comodamente seduto su una sedia, prese una boccata di fumo e sorrise divertito.
«Le mutande o i pantaloni?»
«Pantaloni.» ripeté riempiendosi la bocca con quella parola. «Quelle che voi chiamate “mutande” io le chiamo “perizoma”.»
L’altro annuì. «Sì, lo so.»
«Davvero?»
«Non sembrerà, ma sono un uomo di cultura.» alzò un sopracciglio indicandolo con il sigaro.
«No, invece si vede. Che siete colto intendo.»
Il giovane si mise in piedi e lasciò che la casacca gli scivolasse morbida sui fianchi prima di legarla con una spessa fascia dorata. Mosse un poco le dita dei piedi, accomodandoli su quella superficie nuova e resistente.
Era strano sentirsi puliti, indossare abiti nuovi, sentir i propri capelli districati e non più incrostati di sangue. Gettò uno sguardo alle sue braccia, dove le cicatrici non erano certo sparite ma ora apparivano come leggere linee argentate. Per i lividi c’era voluta solo un po’ d’ambrosia e in ogni caso quegli strani pantaloni gli coprivano più di metà coscia, nascondendo alla vista tutte le altre ferite che stavano impiegando più tempo per guarire.
Si passò distrattamente le mani attorno ai polsi, massaggiando la pelle ancora leggermente abrasa ed in fine alzò gli occhi sull’uomo che, rilassato e silenzioso, lo fissava dalla sua posizione un po’ calata su quella sedia mezza girata verso di lui.
«Cosa ne pensi?» domandò prendendo un’altra boccata di fumo.
A vederlo compiere quel gesto stava venendo voglia anche a lui di provare.
Forse il desiderio gli si lesse in faccia perché l’uomo sorrise storto e, presa l’ennesima boccata, allungò la mano verso di lui.
Il giovane tentennò solo per un istante, avvicinandosi con passi lenti. L’altro alzò di più l’arto e gli pose il sigaro all’altezza delle labbra, in un chiaro invito a provare ma certo non a cedergli il possesso di quell’oggetto.
«Aspira, ma non mandarlo giù, deve riempirti la bocca, non i polmoni.» lo istruì gentilmente.
Il ragazzo lo fece, strinse per un momento le labbra attorno all’involto, saggiando la strana consistenza ruvida ma liscia, morbida ma solida. Il calore delle foglie arse gli solleticò a mala pena la lingua, che reagì solo quando il fumo si propagò nelle sue guance. Un pizzicorio non fastidioso ma neanche piacevole fece risvegliare quel senso del gusto che da troppo tempo saggiava solo sangue e terra. Gli bruciarono gli occhi, che lacrimarono improvvisamente, mentre l’uomo, ridacchiando, si tirava a sedere per bene e con la mano libera gli alzava con delicatezza il mento verso l’alto.
«Su, così, libera le vie respiratorie.» sogghignò, «La prima volta fa questo effetto a tutti, tranquillo.»
«Non so, sinceramente, se mi sia stato gradito o meno.» disse senza vergogna.
L’altro continuò a sorridere. «Ti insegnerò se vorrai.» gli rispose con la stessa tranquillità. «Ma non hai risposto alla mia domanda.» gli fece poi notare.
Il giovane si sedette allora ad una delle sedie e poggiò i gomiti sul piano, intrecciando le mani.
«La vostra richiesta è semplice ed il solo fatto che mi abbiate salvato mi rende servo vostro.»
«Ma?» lo incalzò.
«Vorrei saperne di più. Sono ugualmente propenso ad eseguire i vostri ordini, date solo risposta a qualcuno dei miei quesiti.»
«Perché dovrei, se farai comunque ciò che ti chiederò di fare?» gli domandò allora inclinando il capo.
Quello serrò per un attimo le labbra. «Mi è stato insegnato che un uomo lotta con molta più convinzione se condivide l’ideale per cui brandisce una spada.»
La risata rombante che ne seguì parve scaturire dritta dal petto dell’uomo che annuì divertito.
«Ho sempre apprezzato i buoni oratori.» disse ammiccando in sua direzione. «Sta per succedere qualcosa, nei piani divini e in quelli mortali.» iniziò poi dal nulla, estremamente serio. «C’è qualcuno che sta cercando qualcosa, accontentati della vaghezza di queste parole. Il “cercatore” sta facendo delle scelte, un gioco preciso, gli Dei si schiereranno con lui o contro di lui, come fanno sempre. Lui ha però dalla sua molte anime, un po’ come te, che sono state cercate e salvate in giro per l’Ade, e le userà come meglio credere per raggiungere il suo obbiettivo.»
L’anima lo ascoltò con attenzione. «Cosa cerca e cosa dovrei fare io?»
Uno sbuffo ed uno scuotere di spalle. «Cerca un luogo, per ora. In questo luogo c’è l’oggetto dei suoi desideri. Il tuo compito è quello di seguire gli ordini che ti verranno dati, ovviamente. Per ora ci sono dei gruppi di anime, di semidei passati oltre, che si sono riuniti, vuoi per il fato vuoi per i giochi del Cercatore. Per arrivare dove vuole ha bisogno di queste anime e tu, come altri tuoi “colleghi” dovrai seguire un gruppo e assicurarti che scelgano la “retta via”.»
«Perché gli servono delle anime? Se è così potente da poter avere il favore degli Dei, perché usare terzi per i suoi scopi? Cosa cerca davvero?» domandò confuso.
L’altro sorrise. «Qualunque cosa sia, se riuscirà ad ottenerla avrà fra le mani un potere talmente grande che neanche tutti i Grandi Dodici saranno in grado di contrastare. Non ci sarà Dio, spirito o mostro che potrà mettersi contro il suo volere. Non vi saranno semidei, eroi, tiranni o mortali che potranno porvisi. Scuoterà l’Olimpo e tutti gli altri regni.» disse a bassa voce.
Nel silenzio che seguì l’anima provò ad assimilare tutte quelle informazioni, tutti quei frammenti che assieme sembravano solo stralci di una profezia terrificante ma che nascondevano molto di più.
Alzò la testa verso l’uomo, lo guardò dritto in quegli occhi lucidi come specchi: se avesse dovuto imbarcarsi in una missione di tali proporzioni avrebbe voluto farlo per un motivo, non per semplice debito, voleva sapere cosa ne sarebbe venuto a chi fosse stato dalla parte del suo salvatore, malgrado non comprendesse ancora che parte fosse.
«Cosa se ne otterrebbe? Se questo Cercatore riuscisse nel suo intento…e da quale parte mi sto schierando?»
L’uomo lo fissò con serietà, poi un ghigno inquietante si aprì sul suo volto.
«Da che parte non vorresti schierarti?» gli chiese invece.
«Da quella degli Dei.» rispose secco. Se quello davanti a lui era un Dio che allora lo fulminasse in quel momento, ma non si sarebbe mai sporcato le mani per una divinità, l’aveva giurato tempo addietro, l’aveva giurato sulla sua stessa vita e poi sulla sua morte. «Da che parte mi sto schierando?» domandò nuovamente, il capo eretto e l’espressione dura, quasi strafottente, quella di una persona che sa di poter vincere, di poter fare il bello ed il cattivo tempo come più preferiva. La stessa che aveva indossato durante tutta la sua esistenza, sia come uomo che come anima.
Se solo avesse avuto il dono di scrutar le menti, se solo l’uomo davanti a lui fosse stato facile da leggere, o magari se solo l’avesse conosciuto, avrebbe saputo che il taglio obliquo in cui scintillavano quei denti affilati era di puro e semplice compiacimento: era per questo che l’aveva scelto, ed ora che le spire delle Praterie finalmente l’avevano abbandonato e la sua coscienza stava tornando lucida e forte come un tempo, si stava mostrando per l’elemento assolutamente perfetto che aveva scorto in lui.
«Da quella giusta.» disse trasudando sicurezza. «Ritorna fra le anime che si affannano per l’Ade. Gioca una gara sapendo di poter arrivare più lontano di tutti gli altri. Se riuscirai nel tuo ruolo avrai un posto assicurato nella finale, un posto d’onore che ti permetterà di vincere l’agognato premio e tornare, così come sei, tra i mortali. Fallisci e sarai solo una delle tante anime che non ce l’ha fatta, ma avrai comunque l’occasione di fuggire e non ritornare nel luogo in cui sei stato imprigionato per tutti questi anni.»
La giovane anima non proferì parola, studiando con attenzione il volto impenetrabile dell’altro, cercando una falla che però non trovava da nessuna parte. Se avesse fatto il suo dovere avrebbe avuto più possibilità di vincere, se avesse fallito non sarebbe stato rispedito alla tortura dei Campi Neri ma sarebbe persino potuto scappare… non aveva nulla da perdere e comunque fosse andata ne sarebbe uscito in un qualche modo vincitore.
L’uomo davanti a lui strinse il sigaro tra i denti ed infilò una mano nella tasca dei suoi pantaloni. Ne tirò fuori qualcosa che l’anima riconobbe al volo, la sola vista gli riportò alla mente ciò che aveva dimenticato, ricordando ora perfettamente dove altro avesse visto il suo misterioso e misericordioso salvatore.
Il bel volto specchiò lo stesso ghigno inquietante che adornava quello dell’uomo, mettendo l’una davanti all’altra due anime in grado di capirsi fin troppo bene sotto troppi punti di vista.
Qualunque fossero state le sue parole, l’uomo in nero ne conosceva già il significato, stava a l’altro rendere la scena più teatrale possibile, a lui il finale sconcertante di questo primo atto.
«Dovrebbe esserne lusingato, mio Signore, perché in tutta la mia vita ed in tutta la morte non sono mai stato fautore diretto dei miei vizi, sono sempre stati gli altri a giocare per me. Ma voi… voi sarete il primo ed unico a poter dire di aver avuto al vostro comando la mano impietosa di Cicno il Crudele.»
 
 
 
 











   
 
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