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Autore: Kat Logan    23/01/2020    4 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Era settembre.
Per quanto la calura della California persistesse oltre l’estate, agosto aveva fatto capire di aver salutato tutti con un pallido cenno della mano, mozzando il pesante e caldo respiro del Santa Ana.
Il cielo era terso quella mattina. Il sole era sorto alla linea di confine blu dell’Oceano bagnando di luce dorata la cresta delle onde che si stagliavano contro la costa rocciosa di Malibu.
 
Makoto era a cavalcioni della tavola da surf. Seduta con la schiena dritta, lasciandosi cullare dalla marea calma del mattino. Godendosi il canto dei gabbiani e socchiudendo gli occhi in contemplazione di quella pace che di lì a poco sarebbe cessata con l’avvento della folla in spiaggia.
Accanto a lei, Nevius. Con la sua statura imponente, i capelli lunghi bagnati e i bermuda scuri, pareva un tritone uscito da qualche saga dei supereroi DC.
Vegliava su di lei; silenzioso. Come se qualcosa potesse spuntare da un momento all’altro ed aggredirla strappandogliela via ancora una volta.
 
Era trascorsa lenta una settimana dalla rivelazione della vita precedente a cui Makoto era stata sradicata bruscamente. E lei, improvvisamente ingorda di briciole appartenenti al proprio passato, l’aveva monopolizzato come fosse un canta storie.
Ma Nevius non era l’unico angelo custode impegnato a vigilare su qualcuno. A qualche chilometro da Malibu, nella sempre assolata Los Angeles, Seya e Michiru vagavano per lo stesso piano da ormai sette giorni. Come due sentinelle, instancabili, attendevano un miracolo.
Erano rimasti a distanza, correndo con lo sguardo dietro ad ogni camice bianco che passava nel corridoio. Facendo fuori e dentro da due stanze attigue, senza scambiarsi una parola. Non erano in collera l’uno con l’altra, ma entrambi avevano il desiderio di parlare con chi era disteso oltre quelle porte e non poteva farlo.
Fino a quel momento, solo Minako aveva tentato di picconare quella coltre gelida dietro la quale i due si nascondevano. Come un orologio svizzero, spaccando il secondo, entrava allo stesso orario con un mazzo di fiori per Rei e un cestino per Haruka.
«A lei dei fiori non importa un fico secco. Ma credimi, quando si sveglierà, sarà una iena per la fame. Te lo dico io. Meglio gli snack per Haru».
Aveva redarguito così Michiru, posando poi sul comodino della bionda i propri doni. Dopo di che aveva salutato Seya e nell’altra stanza gli aveva svelato che le rose per Rei sarebbero state scontate. «Dai retta a me, potrebbe tirartele dietro. E’ una a cui piace essere sorpresa».
E dopo il chiacchericcio di Minako, quando lasciava nuovamente le sue amiche addormentate come le principesse delle migliori fiabe, calava nuovamente il silenzio.
 
Seya e Michiru si fissavano. Lui con le braccia conserte strette contro al petto, poggiato con la schiena al muro. Lei seduta composta sulla sedia, accanto al boccione dell’acqua.
«Dovresti andare da Hotaru» sibilò lui, quasi con tono grave nella voce.
«Sta bene, è con Usagi. Tra poco la porterà a scuola».
«Sì ma dovresti andare a casa» insistette lui.
«Anche tu».
E quando quello scarno scambio di parole stava per accendere la miccia di uno scontro dettato dall’ansia e dalla stanchezza, le porte dell’ascensore tintinnarono mostrando il sorriso smagliante di Usagi.
La bionda con passo saltellante raggiunse Michiru.
«Ecco fatto. Fatto tutto. Hotaru è a posto. Sistemata. Nemmeno un capriccio. Oh Michiru, ma guarda un po’ in che condizioni sei!». Poggiò le mani sui fianchi e scossò il capo in segno di diniego. «Così non va proprio bene» sentenziò.
Poi si girò verso il giovane e lo salutò con un cenno della mano. «Ciao Seya! Puoi andare al bagno ora. Faccio io la guardia a quella porta».
Lui sgranò gli occhi come a riprenderla per quella frase. Ma che cosa le saltava in mente d’insinuare certe cose?. «Su, su. Vai» insistette Usagi non curandosi di oltrepassare il limite.
E lui, forse più per l’imbarazzo che altro, ubbidì.
«Dovresti andare anche tu Michi…» disse con un filo di voce, sedendosi accanto all’amica.
«Non devo fare pipì…».
«Oh ma sul serio?!».
«Ok, forse un pò».
«Anche una doccia. Vai a casa, dai».
«Ma se…».
La bionda la interruppe ancor prima che potesse finire la frase. «Se si svegliasse e ti vedesse così, ripiomberebbe nel sonno. Scusa la franchezza eh».
«Ok, scuse accettate».
In effetti si sentiva uno straccio e probabilmente la brutalità di Usagi non era altro che la voce della ragione.
«Ci metto quaranta minuti» sentenziò Michiru guardando l’orologio da polso come fosse un cronometro in corsa col tempo.
«Impossibile. Ce ne metti quaranta col traffico solo ad arrivare a casa. Prenditi qualche ora…».
Michiru stava per protestare. Usagi lo sapeva perché aveva notato il suo martoriarsi il labbro e stringere in maniera convulsa il manico della borsetta quasi la stessero insultando.
«Ci parlo io con lei. Resuscito persino i morti per quanto parlo!» tentò di placarla.
Michiru si concesse una debole risata per poi sospirare pesantemente.
«Non ti mangerai le sue merendine, vero?».
«NO! SONO A DIETA. Fino a stasera. Perché…» Usagi cominciò a battere i piedi sul posto in preda all’eccitazione scoppiettante che aveva dentro. «Sta sera finalmente esco con Mamoru! Abbiamo rimandato e rimandato…».
«È vero. Avete rimandato un po’ troppo con questa storia. Ma loro non se la prenderanno di certo se uscite».
Michiru sorrise. Lo fece per davvero. Sapeva quanto l’amica aspettasse quel momento e non era giusto attendesse ancora oltre.
«Mi organizzo io con Hotaru. Ti lascio un vestito sul letto, d’accordo?».
«Davvero, davvero?!» a Usagi s’illuminò lo sguardo.
«Sì, promesso».
«Vado a dirlo ad Haruka!» urlò la più piccola, catapultandosi dentro alla stanza.
 
 
§§§
 
 

Minako per un soffio non incrociò il turbine biondo dal nome Usagi che saliva al piano delle amiche.
Uscì dall’ospedale sorridendo a Yaten che la stava aspettando a cavalcioni di una staccionata adibita a dividere le aiuole dal camminamento della struttura.
Era bello come un miraggio, non poteva fare a meno di pensarlo ogni volta che si perdeva ad osservare i dettagli del suo viso. Ed era suo, finalmente.
«E’ ancora di sopra» esordì lei avvicinandosi fino ad arrivare solo a pochi centimetri dal suo viso. «Dovresti andare a salutarlo. Ha una cera…».
Yaten rimase tutto d’un pezzo come era solito fare quando si parlava del fratello.
«Sembra che finalmente abbia deciso di esserci per qualcuno. Non vorrei interferire con questo miracolo».
«Yaten, dai…».
Lui cambiò discorso saltando giù dal suo trespolo.
«Se non insisti sei più carina» rispose dandole un bacio a fior di labbra e troncando così la questione.
 
«Pensavo ad una cosa» cominciò lui dirottando una volta per tutte quell’argomento piuttosto scottante.
Minako lo prese per mano. Lo sentì irrigidirsi appena, perché ancora veniva preso alla sprovvista da quel continuo contatto che lei era sempre solita cercare per essere rassicurata.
Ma la verità era che lui adorava il fatto che lo cercasse continuamente, come se fosse diventato una sua appendice. Una parte di lei senza la quale non si sarebbe più ritrovata nel mondo. Lui non l’avrebbe di certo mai urlato ai quattro venti ma lui ora si sentiva esattamente in quel modo.
«Se non dovesse essere andata con la casa discografica…» s’incamminarono a passo lento. «Pensavo potremmo farci un viaggio in barca io e te soltanto. Toccando tutte le tappe che desideriamo vedere».
Minako si ritrovò a boccheggiare per l’emozione.
Davvero sarebbe partito con lei alla volta del mondo?
«Avresti l’occasione di sentire il rombo dell’oceano nella notte» gli strizzò un occhiolino. E lei segretamente desiderò quasi abbandonare il sogno di musicista per quella proposta da film.
Le batteva il cuore all’impazzata quando la suoneria del cellulare interruppe quel momento magico.
Minako frugò nella borsa vedendo sullo schermo lampeggiante il nome di suo padre.
«Scusami» farfugliò allontanandosi di qualche passo per rispondere.
Yaten al contempo venne sorpreso dalla vibrazione nella tasca dei jeans.
Erano i discografici.
Ci siamo.
Prese un respiro e rispose anche lui.
 
Nessuno dei due poteva sapere che da quelle due chiamate sarebbe dipeso il loro destino.
 
 

§§§
 
 
Il passo pesante dovuto agli anfibi di Dan sembrava il battito di una cassa tamburo sul pavimento.
A fianco a lui Mamoru saliva le scale per il reparto in cui si trovavano Haruka e Rei.
Non si era mai visto un tale via e vai di forze dell’ordine e di vigili del fuoco sino a quel momento. Oramai le infermiere del piano erano tanto abituate a vedere le stesse facce che non chiedevano nemmeno più i documenti agli ormai noti avventori.
«Come se la passa Meiō?» domandò Mamoru al collega.
Dan fece finta di cadere dalle nuvole.
«Come faccio a saperlo io?» sbottò con un brontolio gutturale mentre lo sguardo tentò di vagare altrove.
Mamoru sorrise. «Guarda che lo sappiamo vi frequentate» puntualizzò.
Dan sentì sudore freddo scendergli dalle vertebre per tutta la schiena. Era stata chiara Setsuna quella notte. Non voleva che nessuno al lavoro sapesse della loro frequentazione; frequentazione che a ben pensarci si era ridotta alla sera del disastro, al ritrovarsi in mezzo alle macerie e all’alba del giorno dopo in cui Haruka e Rei erano state ricoverate.
Dopo quel momento lei era sparita. Dan l’aveva chiamata, ma sembrava essersi fatta di nebbia. Eppure quello sguardo lucido di lacrime e la sua preoccupazione erano stati sinceri. Lo aveva avvertito sin sotto l’epidermide, lo aveva sentito in ogni suo battito mentre aveva poggiato il capo contro il suo petto come a controllare che il cuore gli battesse ancora.
«Siamo usciti una sera» fece il vago lui. «Quella sera» puntualizzò. «Poi mi ha piantato. Credo».
Mamoru lo tirò per la maglia in un angolo. Accanto al distributore delle bibite per dare meno dell’occhio.
«Te lo chiedo perché ho sentito delle voci…». Si guardò in modo attorno, circospetto, per sincerarsi non ci fossero colleghi pronti a cogliere quel succulento gossip.
«Credo sia stata sospesa».
«CHE COSA?!».
Mamoru lo spintonò quasi volesse una colluttazione con lui per farlo tacere.
«Non fare tutto questo casino. Attirerai l’attenzione» lo zittì frettoloso.
«Sei un detective per caso?» arricciò il naso infastidito scrollandosi le sue mani di dosso. «Cosa ti fa pensare una cosa del genere? Insomma è impossibile. Lo sappiamo tutti che è una vera bestia alle volte, ma è brava in quello che fa. La migliore di sicuro qui».
«Lo so Dan. Non sto mettendo in dubbio le sue capacità, ma è sparita subito dopo quella chiamata e la cosa è plausibile. Pensaci bene. Haruka non era stata autorizzata da Seya a tornare in servizio. Setsuna ha bypassato l’autorità…».
«Per quanto discutibile» lo interruppe Dan.
«Per quanto discutibile, sì, di uno che ha il potere di certificare la gente non idonea, instabile o come la vuoi mettere. E sfortuna ha voluto che quella notte, Haruka ci ha quasi rimesso le penne e la responsabilità ricade su Setsuna».
«Setsuna non poteva sapere che sarebbe crollato tutto».
«Lo so. Non è me che devi convincere».
Dan tentò di ricomporsi. Prese un lungo e profondo respiro, promulgando la sua sentenza.
«Non risponde al telefono. Andrò a casa sua anche se non ho idea di dove abiti. Dovrò rubare qualche fascicolo, probabilmente».
«O magari chiedere in giro. Prima di cacciarti nei guai».
«Non ci avevo pensato».
«Lo so».
«Ha ragione Haruka. Sei saccente. Un vero dottorino».
Mamoru per nulla offeso dall’appellativo sorrise un po’ nostalgico.
In quel poco tempo trascorso con Haruka aveva imparato ad apprezzarla, sebbene convivere col suo caratterino sprezzante e la lingua biforcuta l’avessero messo a dura prova talvolta. 
Gli mancava, doveva ammetterlo.
 
«DAN! MAMO-SAMA!!!» Usagi, come in preda ad un grido di guerra apparve nel corridoio con tutto il suo baccano.
«…Mamo-sama…» lo canzonò Dan dandogli una gomitata al fianco. «La tua ragazza non sa in che guaio ti ha appena cacciato», gongolò ancora appuntandosi mentalmente quel nomignolo da riferire ad Haruka non appena si fosse svegliata.
«Sparisci» mugugnò a denti stretti il più grande cercando di non apparire uno che stava supplicando. Avrebbe voluto sotterrarsi dalla vergogna.
Usagi saltellò verso di loro. Era scoppiettante come un petardo. Mamoru quasi era sorpreso della mancanza di scintille.
«Sono venuta a dare il cambio a Michiru. Andrà giù di testa completamente se non si prende una fiesta». Si apprestò lei a giustificare la sua presenza.
I due inarcarono le sopracciglia confusi.
«Siesta» si corresse lei dandosi un colpetto alla tempia con il palmo della mano.
«In ogni caso…ho deciso dove andare questa sera!».
«OK IO LEVO LE TENDE. Vado a salutare la bionda! Poi dove ti ho detto». Alzò le mani Dan abbandonando i due alla loro conversazione privata.
 
«Ci vuoi ancora uscire con me, vero Mamo-sama?» domandò lei, rabbuiandosi all’istante dopo aver seguito con lo sguardo la figura alta di Dan che si allontanava.
Andava bene? Anche se lui era più grande? Avevano rimandato abbastanza. Haruka gli avrebbe sicuramente dato del codardo, o peggio, se avesse temporeggiato ancora.
«Ma certo».
Lei si riprese all’istante e lui riuscì a scorgere nuovamente nei suoi occhi quel luccichio che caratterizzava il suo sguardo perennemente allegro.
«Aaah ho capito. Non sei abituato a donne che prendono l’iniziativa…».
Non era proprio abituato alle donne. Ne aveva amata sin da subito una e lo aveva fatto fino al suo ultimo respiro.
«Beh non preoccuparti. Sei in una botte di ferro con me».
«Ci credo».
«Ti mando la posizione del posto su whatsapp, ok? Tu fatti trovare lì alle 20.00. Ah sono graditi mazzi di fiori o cioccolatini».
Lui esplose in una risata fragorosa. Di tutte le cose che aveva vissuto e visto nella sua vita, mancava certamente all’appello una ragazza che dettava legge su possibili doni da recapitare ad un primo appuntamento.
«Farò del mio meglio. Però ho da chiederti un favore».
«Ti ascolto, Mamo-sama».
«Smettila di chiamarmi così, ti prego. Mi fa sentire un vecchio decrepito».
«Ti ho offeso?».
«No assolutamente».
«Fiuuu, per fortuna. Ok, capito. Niente più Mamo-sa…».
«Mamoru e basta, va bene».
«Agli ordini!». La bionda si mise sull’attenti come per ubbidire a un generale e poi si ritrovò a ridacchiare. Poteva chiamarlo per nome. Erano già talmente così in confidenza nella sua testa che si poteva saltare direttamente il primo appuntamento e andare di corsa all’altare.
Era quello giusto. Se lo sentiva.
 
 
§§§
 
 
Un suono. Una melodia.
Il canto degli uccellini.
Avanzò nella penombra piano. Come se non potesse vedere nitidamente accanto a sé. Strisciando piano i palmi sul muro sconnesso e umido di una vecchia stalla.
Qualcuno intonava una canzone.
«Sarah?» chiamò con un filo di voce.
Si sentiva piccola come quando era bambina.
L’odore del fieno.
Il cigolio del filatoio.
Ancora una volta quella canzone quasi sussurrata.
Haruka fece un altro passo.
Quelle parole intonate divennero la musica prodotta da uno sfregamento di corde.
Un violino.
L’aria profumava di fiori, poi di salsedine.
Sentì i piedi bagnati e d’imperio si ritrovò le caviglia lambite dalla marea.
Era sulla spiaggia. Ed era di nuovo adulta.
Il canto degli uccellini divenne quello dei gabbiani.
«Per quanto vuoi rimanere ancora qui?» un soffio nel suo orecchio e un paio di braccia le cinsero le spalle.
Quelle mani curate, con lo smalto blu brillante potevano essere solo di Michiru. Ne era sicura. Anche se non poteva vederne il viso.
Le parve di sentire il calore del sole sulla faccia.
Haruka guardava l’orizzonte. Una barca a vela solcava il pelo dell’acqua. E prima che potesse rendersene conto era in pace col mondo. Avvolta da un calore che solo un altro corpo umano può dare.
«Quando siamo arrivate?» chiese.
«Non importa. La domanda importante è quella che ti ho appena fatto, Haruka. Quanto vuoi ancora rimanere qui?».
«Dipende».
«Da cosa?» chiese Michiru, solleticandole il coppino con dapprima con la guancia e poi con le labbra.
«Tu sarai qui?».
«Mi vuoi qui con te?».
«Questo cos’è? Un sogno? Un ricordo? Dove siamo?».
E prima che potesse aver risposta lei era sparita.
Haruka si guardò attorno. Era notte.
 
«Sveglia. Dobbiamo andare».
Era tornata indietro un’altra volta.
Rei la tirava per un braccio ed erano tornate adolescenti.
«Dobbiamo sbrigarci o perderemo l’ultimo pullman per Los Angeles».
«Perché dobbiamo andare?» sentiva le braccia pesanti e anche le gambe. Aveva dei macigni al posto degli arti.
«Stai scherzando vero? Dobbiamo trovarla».
Haruka non capiva più niente.
Rei arrestò la loro corsa frugando nella tasca dello zainetto sdrucito.
Le sventolò sotto al naso il foglio che le aveva dato da leggere.
«Tua madre, sciocchina».
Haruka venne accecata dalla luce di due fari bianchi.
Provò a coprirsi gli occhi con le mani ma non riuscì a fermare quel bagliore troppo brillante per permetterle di vedere nuovamente.
 
Sgranò gli occhi, ritrovandosi troppo ossigeno nei polmoni.
La stanza girò per un istante.
Era buio tutt’attorno.
Sentiva il panico imprigionarla in una gabbia senza sbarre e poi quella stretta.
«Haruka, guardami. Haruka!».
Le sue dita risposero stringendo quella mano che era avvinghiata docilmente alla sua.
«Respira. Piano. È tutto okay…».
Sbatté le palpebre.
Cos’era quel suono? La macchina alla quale era attaccata? Il suo cuore? Era lui. Batteva. Uno tonfo dietro l’altro. Accelerando nel momento in cui incrociò quel mare blu.
Era lì. Michiru era lì come nei suoi strani sogni.
Sembrava in procinto di piangere.
«Sei tornata…» sibilò incredula.
«Non credo di essermene mai andata».
«Sbagli. È una settimana che mancavi».
«Da casa?» farfugliò la bionda senza rendersi conto di aver dato voce ad un pensiero.
 
«Mancavi a me» le rispose senza paura Michiru.
 








Note dell'autrice:
Che casino. Ho scritto il capitolo in tre momenti diversi per mancanza di tempo e non ci capisco più niente!! Motivo per cui non ho completato l'intera vicenda perché stavo impazzendo. Dunque, nel prossimo troveremo Setsuna, Usagi col suo appuntamento e sicuramente scopriremo il destino di Yaten e Minako. Oltre a capire se Rei è viva o morta. 
Non so più come scusarmi per il ritardo. Posso solo provare a postare il nuovo capitolo prima possibile!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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