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Autore: smalljojo    23/01/2020    0 recensioni
Quali sono gli intricati percorsi del tempo e dello spazio? C'è qualcuno che ne riesce a tracciare una mappa e manovrarli a proprio piacimento? sono domande astruse e capricciose, che però hanno segnato il corso della mia vita. Non so ancora molte cose della mia stessa vicenda, non troppo dissimile a quella del saggio Tiresia, ma essa merita lo stesso di essere raccontata.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Gender Bender
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Questa storia comincia in un modo sicuramente singolare, e ancora oggi, se ripenso agli eventi di quei giorni non posso fare altro che fermarmi impressionata bloccandomi in tutte le mie attività. I miei conoscenti di adesso di sicuro non potrebbero mai immaginare che io, in un passato non remoto, fui vittima di un sogno. Dietro questa forza d’animo, questa sicurezza, si cela il passato non di una, bensì di due anime che non hanno nulla in comune fra loro. Ma senza indugio, comincio il mio racconto.

Era un pomeriggio inoltrato, subito dopo l’ora del pranzo, quando mi introdussi nell’appartamento del mio caro amico Emmanuel Karr.

Ero un galantuomo di elevata statura morale, un erudito della società borghese che in pubblico aborrivo e in privato ringraziavo. Mi piaceva scandalizzare la morale comune insieme ai miei amici letterati, ci facevamo chiamare ‘Il Cenacolo’. Era il lontano 1839, e io, come tutti gli intellettuali che si rispettano, avevo preso residenza fissa a Parigi.

In realtà mi ci ero trasferito ben molti anni prima, quando mio padre, un ingegnere edile che si occupava della costruzione di ponti, decise per me che avrei dovuto completare la mia istruzione frequentando la facoltà di legge all’università*. All’epoca ero un bel giovane che aveva conosciuto solo le tristi mura del collegio, dove ero stato rinchiuso fin dai miei undici anni per causa della mia prodigiosa intelligenza.

Imparai infatti a leggere autonomamente all’età di tre anni e mezzo, e quando ne compii cinque avevo già cominciato a studiare il latino e il greco. I più grandi libri della letteratura avevano riempito le mie fantasie infantili, in particolare la filosofia e la mitologia greca riuscivano a soddisfare la mia curiosità ed insaziabile immaginazione. Il mio libro preferito era ‘Candido’**, a cui affiancavo una ossessiva rilettura dell’’Odissea’ e dell’’Eneide’. Quando mio padre, che di nome faceva Jean e di cognome Gautier, si accorse della mia fervida ricerca di conoscenza, mise immediatamente da parte le aspirazioni che nutriva verso il mio fratello maggiore Alphonse, un debosciato della peggior specie, appassionato sia di gioco che di donne, e si focalizzò totalmente su di me, per spianarmi la strada in ciò che considerava la più elevata professione, la carriera politica. Al tempo eravamo ancora guidati da quel sublime animo che incantò la Francia, Napoleone.

Alphonse, dopo essersi liberato del pesante fardello della responsabilità, che sentiva gravare su di lui fin dalla sua nascita, come un piede di bronzo sul suo petto, si arruolò nell’esercito. Lì trovò campo fertile per far emergere quelle che possono considerarsi qualità sorte dai vizi. La sua sconsideratezza lo rendeva cieco ai pericoli che potevano privarlo della vita, e la sua furia violenta lo rendeva sordo all’umana voce della coscienza che impedisce a tutti noi di uccidere. Sul campo di battaglia trionfava come un eroe, era un angelo della morte ammirato e quasi venerato dai suoi compagni. Il suo carattere affabile al di fuori degli scontri gli aveva permesso di rendersi simpatico agli occhi della gerarchia militare, e con gran celerità riuscì a salire le scale di questa fino a diventare un membro dell’ordine della Cavalleria Leggera napoleonica, prestigiosa quanto gli ussari.

Morì da eroe insieme ai suoi compagni nella battaglia di Waterloo***, uno fra i 25 000 soldati francesi periti sul campo, e fu da tutti i repubblicani ricordato con il massimo rispetto e devozione. L’ironia della sorte per uno spirito così distaccato da qualsivoglia ideale, fedele solo a sé stesso e al denaro! Non ho mai conosciuto al mondo persona più abbietta ed egoista di mio fratello. Difatti non bisogna mai fidarsi di ciò che ci tramandano gli storici, solo i veri romanzieri riescono a raccontare le sfaccettature della realtà, senza illusioni e distorsioni. Tuttavia, ciò non toglie nulla al fatto che lo amassi molto come unico membro che rispettavo della mia famiglia, e altrettanto ho sofferto per la sua finale dipartita. Io compivo dieci anni, e lui appena ventisei. Ancora, quando ci penso, gli occhi mi si offuscano e un dolore mi preme il petto.
Mio padre fu poi processato dalla repressione del Terrore Legale, che vide la promulgazione di una serie di leggi le quali prevedevano l’epurazione di tutti i rivoluzionari per restaurare l’Ancien Régime, e quindi un’apparente stabilità. Che ingenui furono allora! Quante ribellioni sarebbero poi fioccate proprio per questo tribunale della censura! Se ci penso adesso mi viene da sorridere. L’umanità agisce nel suo peggio quando cerca di ritornare al passato; questa constatazione mi è chiara adesso, guardandomi alle spalle.

Comunque Jean Gautier non subì nessuna pena, addirittura fu sollevato definitivamente da ogni sospetto di collaborazionismo a suo carico: era evidente a tutti come avesse abbandonato il figlio maggiore, e non provasse nessun affetto paterno verso di lui già da molti anni.

Alla notizia della sua morte infatti non una lacrima gli rigò il volto, e anzi, pronunciò le seguenti parole di fronte a me, a mia madre Valeriè Rougon, e alle mie tre sorelle:
-io ho solo un figlio maschio e uno soltanto, come posso trovare il tempo per preoccuparmi della morte di un estraneo?-

Ma torniamo alla mia storia, dove l’ho lasciata. Quando le cure di mio padre si spostarono su di me cominciai a perdere l’amore per la conoscenza che era stato fin a quel momento il motore delle mie ricerche. Continuavo a leggere, ma solo i libri che lui trovava consoni a un’educazione virile, e ad imparare, ma tutto semplicemente per la spinta vigorosa che mi infondeva con le parole e con le punizioni. Ho dovuto abbandonare la filosofia per la pratica, la filologia per l’economia. Mio padre aveva infatti queste idee innovative (che ormai sono istanza comune) che per fare politica bisognasse avere esperienza in campi più redditizi dell’arte per l’arte. All’età di undici anni, io, un ragazzino magrolino, sempre triste e senza alcuna esperienza del mondo, fui costretto a rinchiudermi in un collegio che distava venti miglia dalla casa natia.

Il collegio era gestito dall’ordine dei gesuiti, ed era uno dei più eminenti dell’intera Francia. Jean Gautier sapeva che per arrivare dove voleva non sarebbe stato possibile risparmiare. Solo il massimo.

Quello che all’inizio mi sembrava un’ennesima prigione si è poi rivelato salvifico per la mia mente tarpata e mutilata: al collegio conobbi altri ragazzi che come me, sognavano i romanzi d’avventura, si immergevano nei versi dei poeti cimiteriali, aspiravano a dedicare la vita all’arte nelle sue forme più pure. Questo ritrovo di animi tormentati ha funto da acqua sorgiva per la mia bocca inaridatesi in anni di noia. La disciplina dei gesuiti era senza dubbio peggiore di quella di mio padre; ma nonostante ciò (forse anche aiutato dalle venti miracolose miglia che ci separavano) non mi ero mai sentito così libero. Mio padre mi veniva a trovare insieme alle mie sorelle, Dauphine e Hélène (mia madre e mia sorella Emélie perirono una dopo l’altra in un’epidemia di colera, al mio terzo anno di ginnasio), solo due volte all’anno, in occasione dell’inizio della quaresima e della Pasqua. Le estati in cui ero costretto a tornare a casa erano per me il periodo più angoscioso dell’anno, anziché essere il più felice. Riuscì per ben due anni a non ritornare nei mesi che vanno da luglio a settembre: una volta rimasi al collegio (a causa dell’epidemia colerica del 1818) e l’altra fui ospitato nella dimora estiva del mio collega Frédéric D’Houville, un aristocratico di campagna bonario e molto affezionato a me per la mia spiccata bizzarria.

Al collegio organizzavamo con i miei compagni scherzi a danni dei docenti, fughe notturne verso il paese, incontri con donne di malaffare. Ma soprattutto leggevamo, scrivevamo, commentavamo. Ho una copia dei I Canti di Ossian**** con le pagine consumate agli angoli a forza di sfogliarle. Non vedevamo l’ora di uscire e essere liberi. Molti di noi furono espulsi, io fui uno dei più furbi e, per quanto gli insegnanti mi considerassero un giovane giacobino ateo che si sarebbe cacciato in grossi guai, non riuscirono mai a cogliermi sul fatto di nessuna delle marachelle da me architettate. Senza considerare la mia splendida media, che mantenevo senza fatica.

Alcuni di questi amici li ritrovai a Parigi, e li portai con me nel Cenacolo.

Quando mi diplomai, a diciotto anni, conoscevo, oltre ovviamente al francese, l’italiano, il latino, il greco antico, l’arabo, lo spagnolo, il tedesco (grazie a Kant) e sapevo decifrare una parte di geroglifici. Avevo le idee chiare su quale strada intraprendere e non un franco in tasca. Fu così che convinsi il mio, ormai vecchio, padre di mandarmi a Parigi e finanziarmi per l’iscrizione all’università. Jean pensava che avessi abbracciato il suo sogno e lo avessi portato ad un gradino addirittura superiore, e che io volessi comandare alla città delle Luci; quanto si era sbagliato! Andai davvero a Parigi, e cominciai veramente l’università, ma non certo la facoltà di legge. Scelsi lettere.

 Le frequentazioni bohémien, che altro non era che passare tutte le notti in bianco per le strade più sporche, più schifose e malfamate di Montmartre, a bere assenzio, fumare oppio, e comportarsi da sudici mentecatti facendo le imprese più oscene, mi avevano fatto entrare in un circolo di giovani rivoluzionari del pensiero, i romantici. Il Cenacolo. Lasciai l’università poco prima di laurearmi e utilizzai tutti i soldi che mi mandava Jean Gautier per mantenere la mia vita mondana.

Agli occhi dei molti questo mi rende una persona spregevole, e non pochi mi hanno chiesto come si può ingannare un anziano credulone, ormai svuotato del suo spirito critico che gli permette di discernere la verità delle cose, nel farmi dare tutti i suoi risparmi piano piano. Intaccare come una locusta il suo tesoretto, il lavoro di una vita di privazioni, astinenze e sudore, tutto il tempo che non avrebbe potuto più essergli restituito. Un essere ormai indifeso, nelle mani e nelle cure dei suoi cari per i quali aveva tanto altruisticamente faticato. Cosa rispondevo io a queste accuse?
Semplice; che di sicuro non potevo definirmi una persona buona, ma con la stessa sicurezza nessuno poteva darmi del malvagio. Ognuno porta con sé le proprie decisioni ambigue e moralmente errate. E non solamente io continuavo a vivere in quelle scelte. In altre parole: nuotiamo tutti ugualmente nel mare del peccato, chi per un motivo chi per un altro.  

C’erano persone migliori di me là fuori? Sicuro.

Me ne importava qualcosa? Non un’oncia del grano più marcio.

*della Sorbona
**romanzo di François-Marie Arouet, soprannominato Voltaire, pubblicato per la prima volta nel 1759
*** datata 18 giugno 1815
**** opera poetica di James Macpherson pubblicata anonimamente per la prima volta nel 1760
   
 
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