Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: edoardo811    24/01/2020    4 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Inserisco qui la mia nota dell'autore perché al fondo del capitolo potrebbe rovinare un po' l'atmosfera. Allora, parto con il dire che il prossimo capitolo sarà sempre su di Edward, perché si tratta della seconda parte di questo capitolo qui. Sì, alla fine ho deciso di dividere di nuovo un capitolo in due, non per la lunghezza eccessiva (perché sì, questo è anche più lungo di quello di Tommy), ma perché la seconda parte richiede ancora un po' di revisione, e non volevo far passare ancora un'altra settimana o di più.

Volevo poi anche ringraziare RLandH di cuore per il bellissimo disegno su Tommy (e Kensuke, Nagata e Sato). Non ho parole, davvero. Meraviglioso. 



 

Grazie e buona lettura!

 

 

 

 30

San Francisco

 

 

Rimase in quello stato di dormiveglia durante tutto il resto del viaggio, a recuperare le energie e ad annegare nell’oceano delle sue colpe. Due ore più tardi, il pullman attraversò il Golden Gate.

Mentre attraversavano il ponte, Edward osservò il mare inquieto, le onde che si infrangevano sulla costa con decisione, e alcune barche più e meno grandi che navigavano. L’acqua azzurra e pulita brillava sotto la luce del sole pomeridiano. 

E poi, entrarono in città.

Dopo sei giorni di straziante viaggio, era arrivato. San Francisco era proprio lì, così vicina da poterla toccare. Al sollievo e alla soddisfazione di essere finalmente giunto alla fine del suo viaggio, tra molti bassi e pochissimi alti, si unirono anche lo stupore e la sorpresa. Era già stato anche lì da bambino, però era passato così tanto tempo che molte delle cose che vide lo ammaliarono come se fosse stata la prima volta.

Il pullman si districò nel traffico della grande metropoli, passando accanto a fatiscenti palazzi, negozi di abiti da sera, ristoranti lussuosi, concessionari di auto sportive, e marciapiedi gremiti di persone in vacanza che si godevano il clima estivo californiano, gustandosi gelati, bevendo bibite fresche e scattando foto verso qualsiasi cosa.

In lontananza, aldilà delle colline che circondavano San Francisco, svettava il Monte Tamalpais come un pugno in un occhio. Vegliava imponente sulla città, mentre spesse nuvole grigie scure convergevano unite come in un mulinello sulla sua cima, andando in contrasto con il cielo cristallino che si trovava tutt’attorno. Edward sapeva che quella era la casa del Titano esiliato Atlante. Se solo non avesse avuto altro per la mente, sarebbe quasi andato a vederlo di persona per fare amicizia.

Non aveva la più pallida idea di dove fosse il museo, perciò anziché aspettare di arrivare al capolinea preferì scendere alla prima fermata per potersi organizzare con più calma. Il pullman si fermò ai piedi di diversi grattaceli per far scendere i passeggeri. Mentre Edward si avviava all’uscita facendosi largo tra mortali che afferravano bagagli vari, cercò con lo sguardo Courtney, sperando che non fuggisse via terrorizzata da lui, ma non la vide da nessuna parte.

Saltò fuori dal pullman e osservò meglio le persone che stavano scendendo e che erano già scese, ma ancora una volta non individuò le sue mèche viola. Forse era scesa prima. Realizzando di non essere riuscito nel suo intento, Edward si sentì un emerito idiota. Abbassò la testa dispiaciuto. Courtney era stata gentile con lui e in cambio aveva ricevuto quel trattamento. 

Il ragazzo si levò gli occhiali da sole, stringendoli così forte da piegarli a metà. La cosa che lo faceva imbestialire di più era proprio quella, il fatto che lei fosse stata così cortese e che lui avesse preso la sua cortesia e ci avesse sputato sopra. Gettò a terra gli occhiali ormai inutilizzabili e cominciò a camminare. Se solo non fosse stato così arrabbiato con tutto e tutti, così scontroso, così scettico, forse non si sarebbe trovato davvero in quella situazione. Ormai era troppo tardi.

Con l’umore diametralmente opposto allo splendido clima di quella giornata, Edward si avviò con le mani in tasca nei meandri di San Francisco.

 

***

 

Avrebbe dovuto dirigersi subito al museo, eppure stabilì di non avere alcuna fretta. Ormai era arrivato e aveva ancora un giorno di tempo per fare tutto, poteva dedicare ancora un’ora o due a girovagare per quella metropoli mentre ripensava a tutti gli errori che aveva fatto e si malediceva per ognuno di essi.

Non gli avevano mentito sulla Foschia. Ovunque si voltasse vedeva qualcosa di insolito. Famiglie di ciclopi che prendevano il gelato, driadi sedute accanto ai loro alberi, arpie appollaiate sui cornicioni dei palazzi, vide passare perfino un centauro in mezzo alla strada come se nulla fosse. Non ricordava di aver visto una simile movimentazione la prima volta che era stato a San Francisco. Era anche vero che all’epoca era troppo impegnato a fuggire per la propria vita. La cosa più sorprendente, però, era che nessuno di loro sembrò fare caso a lui. Forse erano abituati ai semidei, dopotutto non doveva essere molto lontano da lì che si trovava il Campo Giove.

Il Campo Giove. Chissà com’era quel posto. Tommy gli aveva accennato qualcosa, ma era certo che le parole non potessero davvero rendere giustizia a quel luogo, o a nuova Roma. Gli sarebbe piaciuto molto visitarli, un giorno. Purtroppo quella non era la situazione ideale per pensare alle sue prossime mete turistiche.

Proseguì senza una destinazione ben precisa in mente, riflettendo su quella montagna russa che era stata la sua esistenza fino a quel giorno. I momenti trascorsi con Kate, la madre più fantastica che avrebbe potuto avere. Non gli importava ciò che aveva fatto, era sempre stata una brava donna, lo aveva sempre amato e non gli aveva mai fatto mancare nulla. Era grazie soprattutto a lei se era sopravvissuto così tanto. Il pensiero che forse un giorno avrebbe potuto rivederla era praticamente l’unica cosa che gli era rimasta a spronarlo a proseguire, oltre anche al voler salvare Rosa.

Gli anni trascorsi con le famiglie affidatarie, nei quali era stato praticamente forzato contro il suo volere a reintegrarsi in una società che in realtà mai lo aveva voluto. La coppia con cui aveva vissuto più tempo in assoluto aveva resistito due mesi prima di scaricarlo, proprio come avevano fatto tutte le altre. Della scuola, poi, era meglio non parlarne, tra bulli con cui si era azzuffato, professori a cui aveva risposto in malo modo, presidi che in realtà erano mostri camuffati dalla Foschia. Quel poco di cultura che aveva era sempre stato merito di Kate, che gli aveva insegnato tutto quello che sapeva.

Per finire, gli ultimi mesi che aveva trascorso in fuga, nascondendosi da mostri, autorità, chiunque, e che lo avevano condotto proprio a New York, sotto l’albero di Talia con una ferita quasi mortale al fianco, inflitta da un lestrigone piuttosto determinato ad ucciderlo che però era stato rispedito nel Tartaro per cortesia del coltellino che, ancora una volta, sua madre gli aveva regalato.

Anche se Kate era sparita, in realtà non se n’era mai andata davvero. I suoi insegnamenti, i suoi regali, i ricordi che aveva di lei, lui aveva custodito ogni cosa con estrema gelosia.

E poi, il Campo Mezzosangue. La sua nuova famiglia. O almeno, così gli avevano detto. Tutti nutrivano molto rispetto gli uni per gli altri, secondo Chirone. Che razza di bugia. Non c’era alcun rispetto in quel luogo, nessuna famiglia, niente di niente. C’era voluto il rapimento di una ragazza innocente per far sì che quegli idioti tirassero fuori la testa dalle chiappe e anche in quel caso Edward era certo che le cose non sarebbero durate. Forse una guerra era proprio quello che ci voleva, proprio come aveva detto Rosa: sarebbe servita a rimettere tutti quanti sullo stesso piano.

Passeggiò sulla passerella di legno del lungomare. Non sapeva nemmeno come fosse arrivato fino a lì, ma la vista non gli dispiacque affatto. Si affacciò al cornicione, inebriandosi dell’odore di salsedine, calmando la mente con il rumore delle onde che si infrangevano sulle sponde. Si beò della vista stupenda della skyline di San Francisco. Di notte doveva essere ancora più bella, ne era sicuro. Il sole batté su di lui, infondendogli una strana sensazione di pace e benessere.

Notò alcune naiadi sedute sott’acqua, intente a svolgere l’attività più consona per chi vive sott’acqua, ossia lavorare a maglia.

Certo, perché no? 

In lontananza alcuni ippocampi saltarono fuori dalla cresta delle onde, sollevando alcuni versi sorpresi da dei turisti di passaggio, che dovettero scambiarli per dei delfini. Un sorriso scappò dalle labbra di Edward. Se avesse potuto congelare il tempo proprio in quel momento, lo avrebbe fatto. Sarebbe rimasto lì a godersi la pace di quel luogo, ad osservare le creature greche e i mortali che vivevano le loro vite in pace. Il sorriso gli scomparve quando pensò che tutto quello avrebbe rischiato di non esistere più se la guerra tra dei fosse scoppiata, o se Orochi avesse ottenuto il potere di Ama no Murakumo.

Un battito d’ali gli fece drizzare la testa. Un corvo volò proprio sopra di lui, andando a posarsi sopra un lampione spento lì vicino. Era nero come la pece con sfumature rossicce, a partire dalla coda squadrata fino al becco ricurvo. Appoggiò le zampe artigliate sulla superficie tonda del lampione e lo scrutò severo con i suoi occhietti violacei, come se avesse appena trovato una carogna succosa da cui fare uno spuntino.

La cosa che sorprese di più Edward, però, fu il numero delle zampe del corvo: non due, ma tre. Sembrava una specie di cavia mutata fuggita da qualche laboratorio. Edward era certo di non aver mai visto niente del genere prima di allora, eppure sentì di aver già incrociato quel bizzarro animale da qualche parte. Ricambiò lo sguardo incuriosito del volatile, mentre una strana sensazione di inquietudine gli paralizzava le gambe. Strinse con più forza la ringhiera e avvicinò la mano al coltello. Sapeva che dopo quanto successo con quella mortale avrebbe dovuto comportarsi in maniera meno impulsiva, però c’era qualcosa in quella bestiaccia che lo stava mandando in paranoia.

L’acqua del mare esplose in quel momento, sollevando alcune grida stupite tra i pedoni. Una pioggerellina di schizzi invase il lungomare, mentre una massa indistinta atterrava proprio alle spalle di Edward con il fragore di un’onda. Il figlio di Apollo distolse l’attenzione dal corvo e la portò sull’aberrante creatura che era appena comparsa di fronte a lui.

Dopo l’uomo uccello del sogno di quella mattina credeva di averle viste tutte, ma diamine se si era sbagliato. Quello sembrava a tutti gli effetti un “uomo tartaruga.” 

L’aspetto era umanoide, ma aveva la pelle azzurra squamosa, con una corazza naturale sulla schiena e lungo tutto il busto. Aveva le mani e i piedi palmati e un becco proprio da tartaruga al posto del naso e della bocca, dentro il quale poteva scorgere i denti piccoli ma affilati. Sembrava che sulla sua testa ci fosse una specie di nido, ma osservandolo più attentamente Edward realizzò che quelli erano i suoi capelli, che crescevano attorno a una specie di piccola conca con dentro dell’acqua.

La creatura si passò uno dei ferri che le naiadi stavano usando per lavorare tra i denti, squadrandolo con un sorrisetto sadico. Non appena Edward vide quell’oggetto sgranò gli occhi. Si accorse che le due ragazze non erano più sott’acqua e un brivido gli percorse la schiena.

Il mostro buttò a terra il ferro, poi le sue dita formicolarono. 

«Ho sentito molto parlare di te» gracchiò con voce grottesca, parlando in giapponese. «Tu sei il ladro. Finalmente ti ho trovato.»

Edward indietreggiò, assottigliando le labbra. «Sei uno yōkai?» domandò calmo, alzando la guardia. 

«Sono desolato, ma non capisco.»

«Sei uno yōkai?»

Quello si illuminò. «Parli giapponese? Davvero eccezionale. Sì, sono uno yōkai. Sono un Kappa, per l’esattezza. E l’acqua è il mio regno.»

«Me ne sono accorto» rispose Edward, tornando ad osservare lo specchio d’acqua. «Hai fatto del male a quelle ninfe?»

«Purtroppo sono scappate appena mi hanno visto. Peccato, sembravano deliziose.» La creatura distese il suo sorrisetto. 

Edward non credeva che l’avrebbe mai detto, ma le tartarughe che sorridevano erano davvero inquietanti. 

«Comunque non importa. Mi farò uno spuntino con…» 

«Craaa

Il kappa si interruppe all’improvviso, quando il corvo a tre zampe, rimasto appollaiato sul lampione, gracchiò. La sua espressione maliziosa svanì come una bolla di sapone, rimpiazzata da una di timore. «N-Nani?!»

«Craaaaa

Il corvo scese in picchiata verso di loro. Edward sussultò per la sorpresa; il kappa, d’altro canto, non si fece molti scrupoli a gridare terrorizzato e a ributtarsi in acqua come se avesse visto il diavolo in persona.

«Ma che cosa…» sussurrò il semidio, mentre osservava la bestia svanire sotto la cresta delle onde veloce com’era arrivato. 

Quando sentì il corvo trillare nuovamente, il figlio di Apollo estrasse il coltello, temendo un attacco. Invece, il pennuto svolazzò per un po’ lungo il lungomare e poi se ne ritornò sul lampione, dove incominciò a lisciarsi le piume con il becco, incurante.

Una voce risuonò nella mente di Edward facendolo sobbalzare di nuovo. Era la voce di una donna, possente ed autoritaria, che riecheggiò nella sua testa come amplificata da un megafono. «Basta perdere tempo, figlio di Apollo.»

Le gambe di Edward tremarono contro il suo volere. Fu come se quella voce gli avesse appena scosso l’intero organismo. Tornò a guardare il corvo. 

«Sei… sei tu che hai parlato?» domandò, esitando. 

Cominciò a temere di essere impazzito. Era così che si era sentita Steph quando aveva sentito Fujinami parlare? Certo che… faceva abbastanza schifo. La sua mente era sua e sua soltanto, non gli piaceva affatto che altri potessero scorrazzarci dentro liberamente.

Ancora una volta, il corvo non fece caso a lui, trovando più interessante il suo piumaggio. 

«Raggiungi il museo» proseguì la voce nella sua testa. «La mia creatura ti guiderà.»

L’uccello lasciò andare le piume e trillò di nuovo. Edward capì dunque che non era stato lui a parlare. 

«Chi… chi parla?» chiese allora, senza ottenere nessuna risposta. Nella sua mente tutto tacque. 

Rimase immobile con le orecchie che ronzavano, domandandosi cosa diamine fosse appena successo, chiedendosi perfino se non si fosse immaginato tutto quanto, fino a quando non riportò l’attenzione sul corvo. Era ancora lì, ad osservarlo impassibile dall’alto. Era sicuramente lui la creatura.

«Ok allora…» mugugnò. 

Ricapitolando, una voce nella sua testa che non aveva mai sentito prima gli aveva detto di seguire un pennuto mutante che aveva spaventato un mostro al punto da farlo fuggire terrorizzato. 

«Certo, perché no?» concluse Edward, con un’alzata di spalle. «Tanto fare il turista non è divertente come pensavo.»

Il corvo gracchiò di nuovo, poi cominciò a volare sopra la passerella di legno, sorvolando i mortali ignari che per tutto il tempo avevano continuato ad andare e venire senza accorgersi di nulla.

Beati loro, pensò Edward con una smorfia.

Lanciò un ultimo sguardo verso la skyline di San Francisco e con un sorriso amaro si domandò se avrebbe mai rivisto qualcosa di simile. Abbassò la testa, mordendosi un labbro, poi con un profondo sospiro cominciò a seguire il corvo.

 

***

 

Il corvo lo guidò per le strade della città, gracchiando con vigore ogni qualvolta Edward si voltava da qualche altra parte. Ormai era questione di minuti e sarebbe arrivato al museo, al punto di non ritorno.

Dubbi, ripensamenti, paura, la sua mente era come un enorme frullatore in cui tutto quanto girava ai mille all’ora. Più si avvicinava, più aveva voglia di scappare con la coda tra le gambe, magari buttarsi in mare assieme a quel kappa e svanire per sempre dalla faccia della terra. Purtroppo, sapeva che le cose non funzionavano davvero così. Aveva detto che sarebbe arrivato fino in fondo e l’avrebbe fatto. A differenza di suo padre e degli dei, non sarebbe fuggito, ma avrebbe mantenuto la promessa.

Avrebbe salvato Rosa, la sua famiglia, e i suoi amici. E per finire, se tutto sarebbe andato come sperava, forse avrebbe anche ritrovato Kate.

L’Asian Art Museum apparve finalmente alla sua visuale, spiccando come un gigante di marmo bianco in mezzo ai blocchi di appartamenti lì vicino. Era un palazzo enorme, occupava da solo l’intero angolo di quello spoglio quartiere, con finestre gigantesche, stendardi intervallati da pilastri che raffiguravano le mostre che aveva da offrire e tre grosse aste sul tetto da cui le bandiere del Paese del Sol Levante sventolavano orgogliose.

Le scalinate che conducevano all’ingresso erano gremite di turisti armati di fotocamere. Il corvo gracchiò un’altra volta, ottenendo la sua attenzione. Si fece scudo agli occhi con una mano causa del sole che gli picchiava in faccia e sollevò lo sguardo, vedendolo compiere un paio di cerchi nell’aria sopra di lui. Trillò ancora con forza e malgrado Edward non parlasse la sua lingua, intuì che gli stava dicendo che erano arrivati. 

«Ho capito, grazie» disse, sorpreso che il viaggio fosse filato liscio. 

Il corvo trillò ancora, agitandosi e voltandosi verso il museo, sbattendo le ali in sua direzione. Doveva essere il suo modo per dire “Muovi le chiappe.”

«Tu non vieni con me?» domandò Edward, quasi sperando che il pennuto rimanesse con lui. Magari avrebbe fatto fuggire perfino Orochi. Sarebbe stato bello.

Quello gracchiò ancora e si alzò in volo, dirigendosi in direzione proprio del sole. Edward ebbe la stupida idea di seguirlo ancora con lo sguardo. 

«Ah! Razza di…» esclamò, quando venne abbagliato. Era un figlio di Apollo, per la miseria, possibile che non avesse una specie di resistenza naturale contro quel genere di cose? 

Batté le palpebre un paio di volte per scacciare le macchioline multicolore causate dalla forte luce, poi riportò lo sguardo verso il cielo. Del corvo non c’era più nessuna traccia. Sembrava essersi dissolto nel nulla. Non doveva nemmeno più sorprendersi di quel genere di cose, a quel punto.

«Beh… è ora di vedere un po’ di arte asiatica.»

Avanzò verso il museo, che aveva le scale gremite di turisti. Erano tutti intenti a godersi la giornata e a chiacchierare tra loro. Semplici mortali che facevano cose da mortali, pensò. Non appena fu abbastanza vicino, però, tutti loro smisero di fare quello che stavano facendo e si voltarono verso di lui. 

Edward pietrificò. Quelli non erano mortali.

Decine e decine si sorrisetti sadici si dipinsero sui volti di tutti quei turisti, mentre i loro aspetti sfarfallavano, in tutti i sensi della parola, come in un video di bassa qualità. A tratti sembravano mortali, a tratti creature che non aveva mai visto e che avrebbe di gran lunga preferito continuare a non vedere.

Dagli oni che già aveva visto, a persone con occhi giganteschi, lingue sporgenti, nasi deformi. Donne con strani segni attorno al collo, come se le loro teste vi fossero state ricucite alla bell’è meglio, altre che invece avevano il corpo mortale e il volto da mollusco, con tentacoli e quant’altro, qualcosa di davvero disgustoso da guardare.

Notò altri kappa e altri uomini uccello, persone con le braccia spropositatamente lunghe ma con le gambe corte, e poi l’esatto opposto di loro, con gambe lunghe ma braccia corte. Vide una donna nuda come un verme, con la pelle bianca che a tratti sembrava perfino trasparente, che lo squadrò piegando il capo di lato, e accanto a lei ne vide un’altra che di donna aveva solo il volto, attaccato ad un corpo da serpente.

«Dorobō» disse qualcuno, ridendo maniacalmente. Mugugni di assenso si sollevarono, mentre gli occhi di tutti quegli esseri spaventosi erano incollati proprio su di lui. 

«Dorobō» dissero ancora. Iniziarono a ridere tutti assieme, avvicinandosi a lui. «Dorobō. Dorobō. Dorobō

Ladro. Ladro. Ladro.

La paura di Edward cominciò a lasciar posto alla rabbia. Le creature lo circondarono, continuando a ridere in maniera inquietante e a chiamarlo in quel modo. Il semidio sentì un’energia ormai famigliare salirgli lungo il petto. La tentazione di estrarre Ama no Murakumo e troncare le teste di tutti quei fenomeni da circo si fece piuttosto insistente.

«Yameru!» tuonò una voce. Molte delle creature si ammansirono di colpo, altre invece digrignarono i denti infastidite. Tutti quanti si voltarono verso la cima delle scale, incluso Edward, dove vide un volto famigliare in mezzo a quella selva di bestie.

Naito scese lentamente i gradini, fissando i mostri con lo stesso disgusto presente sul volto del figlio di Apollo. Il disgusto maggiore che provò, però, fu proprio quanto piantò il suo unico occhio su di Edward. Fece una vistosa smorfia, che malgrado tutto strappò un sorrisetto al semidio.

«Tornate ai vostri posti» ordinò Naito. «Mi occupo io del ladro.»

Gli yōkai non sembrarono molto entusiasti, ma tutti obbedirono. Sembrava che i mostri che detestavano Naito non fossero solo quelli che Edward aveva visto nel suo sogno. Se ripensava a ciò che il mendicante di Kansas City gli aveva detto, allora tutto aveva senso.

«Seguimi» gli ordinò, per poi voltarsi senza nemmeno attendere una risposta.

Edward si voltò di nuovo verso i mostri, che stavano nel frattempo rioccupando i posti di poco prima, e sfoderò uno dei suoi sorrisetti migliori. Distese le braccia e rivolse un inchino parecchio cinematografico a tutti loro. «Sayōnara, min'na arigatō.»

Iniziò a salire le scale sotto gli sguardi truci di tutti loro, senza smettere di ghignare come un idiota. 

«Baka» aggiunse.

Poco prima di entrare nel museo provò di nuovo quella sensazione di essere osservato come a Sacramento. Si voltò verso la città; una macchiolina azzurra si mosse nel parco al di là della strada, catturando la sua attenzione. Edward assottigliò le labbra, poi seguì Naito dentro l’edificio.

 

***

 

Un ampio atrio di marmo lo accolse una volta all’interno. Piastrelle lucide, illuminate dalle finestre da cui filtrava la luce del giorno, il soffitto alto sorretto da lunghissime travi, una biglietteria sulla destra e un negozio di souvenir sulla sinistra, entrambi chiusi. Di fronte a lui una grossa scala conduceva ad un’area chiusa al pubblico, mentre alcuni corridoi si snodavano dall’atrio nei meandri del palazzo, conducendo alle varie mostre. Cartelloni appesi al soffitto o appoggiati a terra indicavano le varie attrazioni. Uno di loro recitava:

 

AMA NO MURAKUMO

Visitate oggi la replica della leggendaria spada dell’Imperatore!

 

Certo, l’originale ce l’ho io…

«Non mi aspettavo che saresti venuto» disse Naito, voltandosi verso di lui. La sua voce riecheggiò nell’atrio, rimbalzando contro le pareti lisce. Il semidio realizzò che c’erano solamente loro due lì dentro. Il museo intero sembrava deserto. «Non ti credevo così egoista.»

«Egoista? Perché? Perché non mi importa degli dei?» replicò Edward. «Vuoi farmi la morale? Tu, che sei il cagnolino di Orochi?»

Naito ringhiò sommessamente, sfiorando il manico della sua wakizashi. «Non c’è bisogno di andare da Orochi. Possiamo chiudere i conti proprio adesso se vuoi.»

Edward sollevò le mani. «Senti, capisco che tu non mi veda di buon occhio, però…» 

Si interruppe quando il mezzo demone sguainò la spada corta, lanciandogli un’occhiata carica di odio. Represse un sorrisetto divertito. Era stato più forte di lui. 

Il mezzo demone si avvicinò e si trovarono faccia a faccia. Malgrado le corna e altri dettagli più “demoniaci” come alcune vene sporgenti sul collo e sul volto, sembrava davvero un ragazzo proprio come lui, in tutto e per tutto. Aveva i capelli spettinati, ciuffi ribelli che cercavano di evadere dal cappuccio, erano alti uguali e i loro fisici erano molti simili. Edward non aveva idea di quanti anni avesse, non sapeva se i mezzi demoni invecchiassero come i mortali oppure no, ma di certo non poteva nemmeno essere tanto vecchio. 

Se lo avesse incrociato di sfuggita al Campo Mezzosangue avrebbe perfino potuto scambiarlo per un semidio qualsiasi. Dopotutto lui non era così diverso dai semidei, l’unica differenza era che uno dei suoi genitori era un demone anziché un dio.

Diamine, poteva perfino quasi immaginare loro due che si trovavano proprio in quel luogo, in quel momento, ma a ruoli invertiti. Tutte quelle similitudini unite a quello che aveva scoperto su di lui lo mettevano a disagio, perché lo aiutavano a mettersi sul suo stesso piano, e lui di mettersi sul suo stesso piano non voleva affatto saperne.

«Per te è tutto uno scherzo, vero?» sibilò Naito, fissandolo con odio.

«Ringrazia che lo sia.» Edward lo fissò dritto nella sua unica iride iniettata di sangue. «Se avessi preso la faccenda seriamente, a quest’ora saresti già morto.»

Rimasero entrambi in silenzio. Naito rinfoderò con calma la wakizashi ed avvicinò la mano alla sua katana vera e propria, mentre Edward percepiva ancora una volta l’energia di Ama no Murakumo formicolare dentro di lui. Da quando l’aveva usata per affrontare Steph, riusciva a sentirla molto meglio. Era abbastanza certo che sarebbe riuscito a usarla contro di Naito, tuttavia sapeva che era una cosa stupida da fare. Non era l’han’yō il suo vero nemico, dopotutto. 

«Dovresti trattare meglio gli ospiti, Naito-kun» cantilenò divertita una vocetta acuta. «Dove sono finite le tue buone maniere?»

Edward si voltò verso le scale, dove la stessa donna che aveva visto nel sogno stava scendendo i gradini con passo aggraziato. 

«Finalmente ho anch’io l’opportunità di vederti di persona, piccolo dio» annunciò, con un ampio sorriso malizioso. «Il mio nome è Hikaru. È un vero piacere conoscerti.»

Edward avrebbe potuto dire che per lui era lo stesso, ma non era in vena di dire bugie. 

Vista di persona, Hikaru sembrava ancora più bella. Più di Milù, più di Afrodite, più di chiunque altra. Ma nonostante questo, non si lasciò fregare. C’era già cascato una volta in quella trappola acchiappa stupidi. Doveva fare attenzione a quella tizia. Milù era stata un’avversaria molto pericolosa, e lei era una kitsune con solo cinque code.

Hikaru indicò la rampa di scale con un gesto del braccio. «Da questa parte, piccolo dio. Meglio non far aspettare Lord Orochi ulteriormente.»

Lord. Edward per poco non ebbe un conato di vomito. Avendo perso la sua forma mastodontica di drago ad otto teste, Orochi cercava di compensare con l’ego. Hikaru salì le scale ed Edward si avviò dietro di lei. Doveva trovare Rosa, ma non poteva mettersi a cercarla da solo. Avrebbe fatto meglio ad assecondare i mostri, almeno per il momento. Naito li seguì rimanendo a debita distanza, probabilmente ancora irritato dalla battuta sull’occhio.

Mentre percorreva la lunga scalinata, Edward notò i lampadari di cristallo appesi al soffitto ricoperto di ghirigori color oro, più le colonne di marmo che si ergevano ai lati dei gradini fino a toccarlo. Pensò che la salita conducesse a qualche mostra importante, invece per sua sorpresa sbucarono in un enorme salone cerimoniale, un posto così sfarzoso che Edward era certo non gli sarebbe bastato lavorare tutta la vita per poterlo affittare. 

Altre lunghe colonne partivano dal suolo fino a raggiungere il soffitto di marmo color ocra, decorato con gli stessi lampadari e ghirigori. Come nell’ingresso, delle finestre gigantesche permettevano alla luce del giorno di filtrare e rimbalzare sul pavimento tirato a lucido. L’intero luogo risplendeva, come a sottolineare l’importanza degli eventi che venivano svolti al suo interno. Una strana sensazione lo scosse dall’interno mentre muoveva i primi incerti passi dentro il salone.

Tuttavia, ogni cosa passò in secondo piano quando si accorse del trono e dell’altare che si trovavano al fondo di esso. Non appena notò l’individuo seduto sul trono fu come se un esercitò di scorpioni si fosse arrampicato sulla sua schiena. 

Quello si alzò in piedi, per poi sorridergli con insistente aria di cordialità. «Ben arrivato, piccolo dio.»

Eccolo. Lord Orochi. Per un attimo Edward faticò perfino a riconoscerlo: era coperto da testa a piedi da un’armatura da samurai. Corazza, cotta di maglia, spalliere, schinieri e bracciali di cuoio rossi rivestiti da strati e strati di lamine di ferro grigio scuro, quasi nero. In una mano stringeva l’impugnatura della sua lunga falce, in testa indossava un elmetto di ferro da cui spuntavano due protuberanze a forma di ali di drago, simili a corna.  

Nonostante l’avesse già visto nei suoi sogni, vederlo di persona ebbe tutto un altro effetto su Edward. Era gracile e malaticcio, nemmeno la spessa armatura che indossava poteva mascherare la cosa, ma non appena lo vide ebbe comunque una reazione di attacco o fuga. Quel tizio emanava un’aura di potere immenso, perfino da quel corpo rinsecchito.  

«Finalmente ci incontriamo di persona» asserì, marciando verso di lui usando il manico della falce come appoggio per camminare. Sollevò il braccio libero, accennando all’immenso salone, e la sua voce rimbombò: «Attendevo trepidante questo momento. Come puoi vedere…»

«No, no, ascolta, time-out» lo frenò Edward, facendo il segno della T con le mani. «Sono sicuro che tu muoia dalla voglia di fare qualche monologo da super cattivo o cose del genere, ma la verità è che non me ne frega un accidente di quello che vuoi dirmi.» Fece un passo avanti, stringendo i pugni. «Andiamo subito al sodo. Dimmi dov’è Rosa.»

Per un momento, il sorriso svanì dalla faccia viscida di Orochi. Forse Naito aveva ragione, forse ogni tanto gli piaceva scherzare, ma quando c’era da essere seri, allora Edward era il primo a diventarlo. Orochi poteva essere potente quanto voleva, ma lui non lo temeva. Solo una cosa aveva importanza in quel momento, ed era Rosa. 

Alle sue spalle, Hikaru ridacchiò deliziata, e l’odioso sorriso riapparve sul brutto muso di Orochi. Sembrava provare genuino divertimento, come un gatto che giocherellava con il topo, facendogli credere di poter fuggire da lui, di dargli quello che voleva, per poi privarlo di quella gioia subito dopo. Mai come in quel momento Edward ebbe il desiderio di fargli del male. 

«Ma come, piccolo dio, i tuoi occhi non funzionano più?» Orochi allungò il braccio verso l’altare, dove si trovava un lenzuolo bianco stropicciato. O meglio, Edward aveva creduto che fosse stropicciato. Ma quando l’uomo ne scoprì una parte, il ragazzo si dimenticò perfino come si chiamava. Temette che fosse tutta un’illusione, un inganno della sua mente, o perfino di Hikaru, ma no, più osservava quel viso pallido e smorto, più poteva accertarsi che tutto quello era reale come non mai. Sdraiata sull’altare, sotto il lenzuolo… c’era Rosa. 

«Ecco qua, piccolo dio. Come promesso.»

Edward nemmeno lo sentì. Rimase concentrato unicamente su di Rosa, sul suo volto, sui suoi capelli, i suoi occhi e le sue labbra serrate. Da quando l’aveva vista svanire in quella pozza di oscurità era rimasto tormentato dal pensiero di non poterla mai più vedere di nuovo. I suoi occhi verdi, il suo sorriso, la sua voce, tutti ricordi che aveva temuto che questo sarebbero rimasti per sempre, ricordi. Invece eccola lì proprio ad un palmo dal suo naso, nella stessa stanza in cui si trovavano una kitsune a nove code, un mostro millenario divora vergini e un mezzo demone con complessi di inferiorità. Quel pensiero smorzò non di poco il suo entusiasmo. 

Fece un passo avanti, per raggiungerla, ma Naito tese un braccio di fronte a lui, bloccandolo. Si era mosso silenzioso come una bara, così tanto che lo aveva affiancato senza che Edward se ne accorgesse. Con un’occhiata severa gli fece capire che la sua non era una buona idea, ma il figlio di Apollo non era per niente in vena di farsi dire cosa doveva o non doveva fare. 

«Lascialo passare, Naito» disse Orochi. «È giusto che il piccolo dio riveda la sua tanto adorata sorella.»

Naito non sembrava felice di obbedire. Il suo braccio rimase sollevato ancora per diversi istanti prima che si decidesse di abbassarlo, anche se con riluttanza. Edward gli lanciò un’occhiata truce, mordendosi la lingua prima di fare qualche commento di troppo, e si avvicinò all’altare. 

Ancora una volta, più passi muoveva verso di Rosa, più credeva che il mondo di sarebbe sgretolato sotto ai suoi occhi. Non riusciva a crederci. Aveva fatto tutta quella strada solo per lei, sapeva che l’avrebbe rivista se fosse arrivato fino a lì, eppure ancora non riusciva a capacitarsene. Purtroppo, però, non era ancora la fine. Aveva trovato Rosa, quella era la parte più semplice. Ora veniva il difficile.

Si ritrovò a pochi metri di distanza da lei e Orochi. L’uomo si trovava ancora troppo vicino all’altare, per i suoi gusti. Posò lo sguardo sugli occhi sigillati di lei e si augurò che stesse solo dormendo. 

Orochi sembrò leggergli nel pensiero. «Non temere, piccolo dio, sta bene. È rimasta nello Yomi per molto tempo, ora il suo corpo e la sua mente hanno bisogno di riposo. Rimarrà in quello stato di incoscienza ancora per un paio di ore.» 

Edward serrò i pugni. Lo esaminò inquisitorio, fiutando la puzza di bruciato da lontano un miglio. Si immaginava qualcosa di spiacevole una volta arrivato in quel luogo, ma mai qualcosa che lo avrebbe inquietato in quel modo. «Perché l’avete messa lì sopra? Cosa credevi di fare?»

L’uomo serpente sollevò le spalle, come se per lui quella situazione fosse qualcosa di normale. E forse davvero era così. «Stavi tardando ad arrivare, piccolo dio. Dovevo prepararmi all’eventualità che tu non riuscissi a mantenere la tua parola.»

Il sogno che Edward aveva fatto balenò nella sua mente. Naito stava “preparando” Rosa, e ora lei si trovava su quell’altare, in quel salone che sembrava essere stato progettato apposta per celebrare grandi evenienze. Quando collegò i puntini, un lungo brivido gli attraversò la schiena. Orochi si stava preparando a sacrificare Rosa. Proprio come il mendicante di Kansas City gli aveva detto. Le vergini venivano sacrificate in qualche assurda cerimonia, che poi si concludevano tutte allo stesso modo: la morte del sacrificio e il successivo banchetto di Orochi. 

Pensare che lo stesso destino sarebbe potuto accadere anche a Rosa gli fece ribollire il sangue nelle vene. Tutta quella storia malata lo faceva. Mostri, demoni, dei, non c’era nessuna distinzione tra nessuno di loro; erano tutti delle belve prive di anima che miravano solo al loro tornaconto personale.

«Ma visto che ora sei qui…» proseguì Orochi, porgendo una mano verso di lui. «… possiamo concludere il nostro accordo. Restituiscimi Kusanagi-no-tsurugi, e tu e tua sorella sarete liberi di andarvene.»

Edward osservò la mano grinzosa, assorto. Quella era la fine del viaggio. Aveva raggiunto il suo obiettivo, Rosa. Doveva solo più rispettare la sua parte dell’accordo. Sfortunatamente, però, c’era un piccolo problema. 

«Come intendi garantirmi che manterrai la tua promessa?» domandò, scettico. «Sai, non hai certo una bella reputazione, in giro. Come posso davvero fidarmi di te?»

«Hai ragione» convenne Orochi, per enorme stupore di Edward. L’uomo batté il manico della falce a terra con un gesto secco, sempre senza staccargli gli occhi di dosso. «Chioiji, ti dispiacerebbe venire qui?»

Una piccola testa spuntò fuori da dietro il trono su cui era seduto Orochi poco prima. Timidamente, lo tsuchinoko che aveva spiato Edward si avvicinò a loro due. «S-Sì, padrone?»

Fece di tutto per non guardare Edward. Il ragazzo non aveva scordato il loro spiacevole incontro a La Plata ed era sicuro che anche Chioiji lo ricordasse. 

«Vedi, piccolo dio, ho chiesto al mio fedele servitore, il qui presente Chioiji, di spiarti in questi ultimi giorni, ma immagino che tu te ne fossi già accorto.»

«Sì» rispose Edward, incerto su dove Orochi volesse andare a parare.

«Ammetto che è stato rude da parte mia, soprattutto vista la collaborazione che hai mostrato. Per questo vorrei scusarmi con te, e vorrei che anche Chioiji lo facesse.»

Quello fu davvero inaspettato. Edward schiuse le labbra per la sorpresa, mentre Chioiji faceva vibrare la lingua tra i denti, apparendo alquanto frustrato. «Sì, certo… scusa… quello che è…» borbottò.

Non sembrava molto sincero. E anche Orochi sembrò accorgersene, perché il suo sorriso svanì nel nulla. Si mosse come un lampo, con una velocità che lasciò Edward atterrito, e afferrò Chioiji. Lo tsuchinoko gridò per la sorpresa, ma non poté fare altro: sotto lo sguardo inorridito del semidio, Orochi spalancò la bocca e troncò la testa di Chioiji con un unico, secco morso. 

Edward non riuscì a trattenere un grido sorpreso. Fece perfino un passo indietro, mentre disgustosi scricchiolii provenivano dalla mandibola dell’uomo. Orochi masticò un pezzo del proprio servitore come se nulla fosse, fissandolo dritto negli occhi con un sorriso malato. Uno schifoso liquame verdognolo colava dalle sue labbra, mentre l’estremità di Chioiji che ancora teneva in mano fremeva e si dimenava come se avesse una vita propria. 

L’uomo gettò la coda dello tsuchinoko a terra, che si schiantò sul suolo con un osceno rumore bagnato. Tremolò ancora un paio di volte, poi, con un ultimo sussulto, rimase immobile a sguazzare in una piccola pozza di quella sostanza verdognola. Orochi deglutì, poi si passò il braccio sopra la bocca, pulendosi dal sangue di Chioiji. «Sono davvero desolato per il suo comportamento. Ora non mancherà più di rispetto a nessuno.»

La coda cominciò a sciogliersi in una poltiglia nera. Edward rimase a osservarla senza rispondere. Lanciò uno sguardo verso Naito e Hikaru, per vedere come loro due avevano reagito, e non fu sorpreso di notare l’espressione disinteressata di lui e il sorriso divertito di lei. 

«Ora torniamo a noi» proseguì Orochi, come se nulla fosse. Edward si domandò se altri mostri avessero già fatto la stessa fine di Chioiji. 

«Spero di averti convinto a poterti fidare di me. Inoltre, non mi sono dimenticato della mia altra promessa. Ho fatto… alcune ricerche, in questi giorni. Quelle informazioni tanto importanti su Kate che cercavi? Io ce le ho. Sarò lieto di raccontarti tutto, una volta che mi avrai dato Kusanagi-no-tsurugi.»

Paradossalmente, Edward stesso se l’era dimenticato. Non poteva sapere se Orochi stesse dicendo la verità oppure no. Il pensiero che avesse davvero scoperto qualcosa su di lei gli forò la mente, instillando il seme del dubbio in lui per la prima volta. Poteva essere la sua unica possibilità per sapere la verità, o quantomeno avvicinarsi ad essa. Tuttavia… 

Edward riportò lo sguardo su Rosa. Pensò ai suoi amici, i suoi fratelli, perfino Artemide e le cacciatrici, tutti i semidei che aveva incontrato a New York. Abbassò la testa. Era o lui o loro. Delle informazioni che per quello che ne sapeva potevano essere false, o inesistenti, oppure tante, troppe, vite innocenti che rischiavano di spegnersi se Orochi avesse avuto la spada. 

Lui non era un eroe. Non aveva mai voluto esserlo, né progettava di diventarlo tanto presto. Ripensò a quello che Chirone gli aveva detto, quando si erano parlati la sua prima sera al Campo Mezzosangue. Forse non avrebbe mai davvero dovuto trovarsi lì. E ripensò a quello che Naito gli aveva detto la sera in cui Rosa era stata rapita da lui. La nascita di Edward era stata un errore. Quando lo aveva sentito si era imbestialito, ma poi, a mente fredda, ci aveva riflettuto con più calma. Non era d’accordo, ovviamente, ma se davvero l’errore era lui, allora sarebbe sempre stato lui la soluzione.

«Ho già provato una volta a consegnare la spada» disse dunque, avvicinandosi di nuovo. «E non ha funzionato. Cosa cambierebbe questa volta?»

«Ovvio che non abbia funzionato. Per consegnare la spada, occorrono le parole giuste.» Orochi distese le braccia e sollevò la testa, parlando con aria solenne: «Per cedere Kusanagi-no-tsurugi, dovrai semplicemente dire che tu, Edward Model, in quanto suo attuale possessore, rinunci alla sua proprietà per consegnarla a me, Yamata no Orochi.»

«Non devo farla apparire, prima?»

«Non sarà necessario. Farà tutto la spada.»

Edward stirò le labbra. Sembrava troppo semplice. Si guardò attorno, facendo scorrere lo sguardo lungo l’ampio salone, e provò di nuovo la strana sensazione che aveva avuto entrando. Vide Naito rigido come un chiodo, mentre Hikaru, accanto a lui, continuava a sorridere in maniera divertita, anche se di tanto in tanto le sue mani fremevano. 

«Quindi basta solo una frase» commentò Edward, tornando ad osservare Orochi, sorridendo freddo. «Grazie per la nozione. Allora io, Edward Model, attuale possessore di Ama no Murakumo, cedo la proprietà della spada a…»

L’uomo distese il sorriso, carezzando la sua falce. Anche Edward distese il sorriso. Come aveva detto ad Artemide: nessuno poteva controllarlo. E Orochi stava per capirlo nel modo peggiore di tutti. Allungò il braccio, spalancando la mano, saggiando l’aria, calcolando mentalmente i centimetri che distanziavano il suo palmo dalla testa di Orochi. 

Qual era la cosa più stupida che Edward avrebbe potuto fare in quel momento? Attaccare un mostro millenario divora vergini in grado di affrontare dei. E quindi, fu proprio quello che fece. Sferzò l’aria con il braccio, concentrandosi su quell’energia che dal primo momento in cui aveva messo piede nel museo aveva cominciato a crescere dentro di lui. Ama no Murakumo comparve nella sua mano un istante prima che potesse abbatterla sull’uomo serpente. Allo stesso tempo, però, la lama ricurva della falce di Orochi cozzò contro di lei, arrestando la sua corsa. 

Vi fu un clangore metallico così forte da far scuotere le pareti. Edward soppresse una sonora imprecazione, mentre Orochi lo fissava enigmatico con i suoi occhi rosso sangue, il sorriso svanito nel nulla. «Piccolo dio, cosa stai cercando di fare?»

Malgrado tutto, Edward sogghignò. «Ti sto tradendo, stupido idiota.» 

Allontanò la lama e la mulinò di nuovo verso di lui, mirando al suo fianco, generando una corrente d’aria che ancora una volta fece tremare l’intero salone. Orochi ringhiò di rabbia e abbassò la falce, parando anche questo attacco. «Quindi è così che ripaghi la mia generosità?!»

«Oh, ti prego!» ribatté Edward, saltando all’indietro, distanziandosi da lui. Roteò Ama no Murakumo, come sempre più leggera l’aria, e lanciò un’occhiata ai tre mostri. «Ho incontrato mia zia Artemide, venendo qui. Mi ha detto che per ottenere la spada si può anche uccidere il suo attuale proprietario. Vuoi farmi credere che mi hai fatto salire quassù, con Naito, una kitsune e un quadrilione di mostri là fuori pronto a darti manforte solo per farti cedere con cortesia la spada? Ma quanto idiota pensi che io sia?»

L’espressione furibonda svanì dal volto di Orochi, lasciando posto ad una di sorpresa. Ma non durò molto, perché venne presto sostituita da un altro irritante sorriso divertito. «Quindi sapevi che esisteva un altro modo per prendere la spada. E hai anche imparato a farla apparire, vedo.» 

Edward sollevò le spalle. Artemide gli aveva anche detto che la spada amplificava le sue emozioni. Se ci rifletteva su, tutte le volte che era riuscito a farla apparire, era perché si era concentrato unicamente sull’emozione più forte che aveva provato in quel momento. E ultimamente, c’era solo un’emozione che riusciva a provare piuttosto bene: la rabbia. 

Aveva provato rabbia per la sparizione di Kate, rabbia per quello che Naito gli aveva detto, rabbia per quello che Stephanie aveva cercato di fargli, rabbia per quello che Dioniso aveva detto su di Rosa e rabbia nel vedere gli scorpioni che cercavano di uccidere Tommy e Steph. E trovarsi lì, in quel museo, circondato da mostri che lo vedevano come carne da macello, che cercavano di manipolarlo e di truffarlo e che soprattutto avevano rapito sua sorella, lo stava facendo imbestialire come rare volte gli era successo. 

«Non capisco, piccolo dio, credevo davvero che volessi riavere tua sorella sana e salva» disse l’uomo serpente. «Perché tradirmi? Che cosa ti ha fatto cambiare idea così all’improvviso?»

«Non ho mai cambiato idea» rantolò Edward. «Ho pensato a come tradirti dal momento esatto in cui abbiamo stretto il nostro patto. Ho scelto di assecondarti solo perché sapevo che così avresti tenuto Rosa in vita fino ad oggi, e visto che sapevo che mi spiavi, non ho mai parlato a nessuno delle mie vere intenzioni.»

Orochi piegò la testa, esaminandolo critico. «Allora anche tu sei dalla parte degli dei, dunque.»

Edward sogghignò una seconda volta. «Ma non dire scemenze. Di loro non mi importa un accidente. Potrebbero scomparire domani stesso e non batterei nemmeno ciglio. Ma ai miei amici, a loro importa eccome. Hanno rischiato la vita per quest’impresa, perché davvero speravano di poterli aiutare, perché davvero credono in loro. Anche se a me non importa, questo è il mondo che i miei amici e mia sorella hanno scelto di proteggere. E perciò non lascerò che un parassita come te lo distrugga.» 

Stephanie, Tommy, Rosa, perfino Lisa, Konnor e le cacciatrici. Non avrebbe lasciato che tutti i loro sforzi e i loro sacrifici fossero vani. Era vero, c’era un motivo se intere generazioni di semidei erano state addestrate per affrontare il male, così come c’era un motivo se tutti quelli che avevano provato a ribellarsi al sistema avevano sempre finito con il fallire. Il fatto che Edward fosse indifferente alla cosa non significava che non riconoscesse il coraggio – o ingenuità, ma coraggio suonava meglio – dei suoi amici e di tutti quelli come loro.

E comunque, Orochi non era tanto migliore degli dei. Promesse a vuoto, menzogne, mania di protagonismo così grande da spingerlo a voler governare su tutto e tutti… sì, le corrispondenze c’erano ed erano anche parecchie. Aveva perfino istruito un mezzosangue a combattere per lui. 

Per un lasso di tempo che Edward trovò idilliaco, Orochi rimase in silenzio. Avrebbe quasi potuto abituarsi a quella dolcissima sensazione. Purtroppo, non durò a lungo. 

«Davvero notevole, piccolo dio. Sei riuscito ad ingannarci tutti, devo essere sincero» cominciò Orochi, stringendo la presa sulla falce. «Gli dei, i miei seguaci, io stesso, eravamo tutti convinti che mi avresti davvero consegnato la spada. Purtroppo per te, però, anche io ho pensato che avresti cercato di tradirmi. Hikaru!» 

La kitsune non aveva ancora mosso un muscolo, proprio come Naito. Come se fossero già preparati a tutto quello. «Sì Lord Orochi?»

Sempre senza staccare gli occhi da Edward, l’uomo distese il suo sorriso. «Fai cadere l’illusione.»

Hikaru fissò prima lui poi il semidio per un momento. Un lento sorriso inquietante marciò anche sul suo volto. «Molto bene, Lord Orochi.» 

Sferzò l’aria con entrambe le mani e ancora una volta le pareti tremolarono. Proprio come nel negozio di Milù, i muri iniziarono a dissolversi lentamente nell’aria, mostrando ciò che avevano tenuto nascosto dietro di loro fino a quel momento. Edward ripensò alla strana sensazione che aveva percepito entrando in quel luogo e si dette dell’idiota. Aveva percepito l’illusione della kitsune, ma ormai era troppo tardi.

Un nutrito gruppo di mostri, simile a quello che aveva trovato all’ingresso, si fece avanti nel salone. A capo di tutti loro, l’uomo uccello che aveva visto nel suo sogno, Bunzo. Sorrise fregandosi le mani. «Ciao piccolo dio. È ora di morire!» 

Edward rimase a fissarli, commettendo l’errore più grave di un combattimento. Se non fosse stato per i riflessi acuiti che Ama no Murakumo gli conferiva, non si sarebbe mai accorto dell’attacco a tradimento di Orochi. Si voltò giusto in tempo per parare la falce. Per poco non si ruppe entrambe le braccia per lo sforzo. Il suo avversario era forte. Molto forte. E soprattutto non era da solo. 

Una palla di fuoco piombò in direzione di Edward e il semidio si scansò con un grido. Le mani di Hikaru erano avvolte dalle fiamme, mentre la donna assumeva poco per volta il suo vero aspetto volpino. «Quindi sapevi che ero una kitsune, mh?» Lo attaccò di nuovo. «Che fossi tu la presenza che ho percepito stamani?»

Il semidio respinse la seconda sfera incandescente con Ama no Murakumo, giusto in tempo per ritrovarsi Naito ad un palmo dal naso, la katana protesa verso di lui. Evitò anche il suo affondo saltando all’indietro. L’han’yō sogghignò, sfiorandosi la cicatrice sull’occhio. «Occhio per occhio, piccolo dio. È ora della mia vendetta.»

I mostri lo circondarono, guidati dai servitori più forti di Orochi e Orochi stesso. Non andava bene. Per niente. Fletté le gambe, facendo vagare lo sguardo su tutti quei mostri, mentre si arrovellava per trovare il modo di uscire da quella situazione. Sapeva che le cose si sarebbero messe male nel primo momento in cui avrebbe cercato di affettare Orochi, ma non così male. Il suo cuore batteva all’impazzata, sembrava stesse per schizzare via dal suo petto. 

«Se davvero progettavi di ribellarti fin dal principio, allora forse non saresti dovuto venire da solo, piccolo dio» lo incalzò ancora Orochi, mentre gli dava le spalle per dirigersi verso il suo trono. Gli altri mostri rimasero in attesa di un suo prossimo cenno per attaccarlo in massa. Si sedette, posando la falce accanto a lui, e sollevò una mano per mostrargli il suo esercito. «Come puoi vedere, il tuo piano ti si è ritorto contro.»

Nonostante la tragica situazione, Edward fu travolto da un’ondata di ira. Orochi era così convinto di avere la situazione in pugno che nemmeno voleva combattere di persona, voleva lasciar fare tutto ai suoi leccapiedi. Beh, peggio per lui. Più in alto le sue aspettative, più rovinosa sarebbe stata la sua caduta. 

«Ti va di fare una scommessa?» biascicò, percependo l’energia di Ama no Murakumo scuoterlo nelle interiora. «Alla fine di questa giornata, io avrò sia salvato Rosa che restituito Ama no Murakumo. Tutti voiinvece, sarete solo una poltiglia sul pavimento.»

Orochi rise, gettando la testa all’indietro, imitato da molti dei suoi soldati. Appoggiò la testa su una mano, gesticolando con l’altra. «Occupatevi del piccolo dio, ma non uccidetelo. Dovrò essere io a sferrare il colpo di grazia.»

Edward serrò la presa attorno al manico di Ama no Murakumo fino a farsi male alle mani. Avrebbe fatto sparire quel sorriso dalla faccia di Orochi, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto. 

I mostri ruggirono, poi caricarono all’unisono.

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: edoardo811