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Autore: Rin Hisegawa    04/08/2009    2 recensioni
In piedi al centro della stanza un uomo stava chino su un tavolo simile a quelli che si vedono nelle sale operatorie, dando le spalle alla porta. Era molto alto, e indossava il kimono tipico degli shinigami, nero, con un obi bianco stretto attorno alla vita. Il viso era coperto da una maschera, che raffigurava un volto deformato da un orribile sogghigno e gli conferiva un aspetto vagamente inquietante. [MAYURI KUROTSUCHI X OC]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Bleeding Saga'
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Attraversò la Seireitei in silenzio, senza mai voltarsi indietro, col suo solito passo deciso e la schiena ben dritta, restituendo con risoluta freddezza le lunghe occhiate che i rari passanti gli dedicavano.
La maschera demoniaca dai lineamenti sogghignanti non bastava a nascondere il folle, istintivo furore che baluginava, a tratti, nelle iridi dorate. Le pallide braccia coperte di cicatrici stringevano, quasi a volerla nascondere al resto del mondo, l’esanime e sanguinante figura dai tratti così familiari...
Entrò nei laboratori della Sezione Scientifica, in perfetto silenzio, lanciando gelide occhiate distanti all’immobile realtà che adesso lo circondava. Vedeva più oscura ogni cosa, nella fulgida luce del giorno beffardo che, crudelmente, le aveva strappato in un attimo l’unica persona a cui tenesse davvero.
Oltrepassò in pochi e rapidi passi il cantuccio nascosto in cui stavo accucciata, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi per paura di scorgere, ancor prima del ghigno infernale che nascondeva il reale dolore del suo volto, la piccola mano insanguinata che spuntava, priva di vita, tra le pieghe dello shihakusho a brandelli che lui sorreggeva.
Un unico movimento, un ampio e nervoso gesto della mano nella mia direzione: mi caddero in grembo, un po’ sporchi e strappati, la fascia del vice-Capitano e il drappo di stoffa scarlatta che lei era solita portare legato ai capelli, dietro all’orecchio destro.
Fu in questo modo che divenni luogotenente della dodicesima Divisione: senza una cerimonia, nè festeggiamenti, nè lodi. Col cuore pesante ed oppresso dal pianto e dalla disperazione, con la certezza di avere perduto per sempre la mia alleata, la mia amica, mia madre.
Stringendo tra le dita la stoffa leggera col simbolo del cardo inciso sulla piastra di legno, serrai le labbra fino quasi a farle sanguinare, per impedirmi di scoppiare in lacrime di fronte al mio Capitano.
Non avrebbe tollerato una simile debolezza. Aveva sempre detestato la mia sola esistenza, e per ogni giorno trascorso nel mondo da quando ero nata fino a quell’evento era soltanto lei che dovevo ringraziare. E adesso, ne ero certa, colui che per la scienza e la tecnica era stato mio padre, mi aveva lasciato in vita solo per rispetto del ricordo che conservava in sè di quella persona.
Ero io, ad esserle stata più vicina negli ultimi tempi. Io avevo assorbito i suoi insegnamenti, avevo imparato il suo modo di combattere, avevo ascoltato le sue storie. Io ero il salice che lei aveva piantato, e nonostante la tempesta non mi sarei mai spezzata, perchè sapevo piegarmi sotto il peso del dolore e portare in silenzio il mio fardello, fino quasi a farlo sembrare più leggero.
Lui era la quercia, e nonostante i suoi modi prepotenti e determinati potessero a volte farmi del male, era il suo animo stavolta ad essere stato davvero colpito dall’accaduto. Io non potevo far niente per lui, eravamo due mondi distanti. Rimasi in silenzio, come sempre, in attesa, sapendo che se mai mi fosse successo di deludere ancora qualcuno, stavolta non ci sarebbe stata una ragazza dai capelli argentei e il sorriso gentile a risollevarmi e prendermi per la mano.

Seppellimmo Rin Hisegawa con una semplice cerimonia silenziosa, io e gli altri ragazzi della dodicesima Divisione, senza che nessuno, o quasi, giungesse dalle altre Squadre del Gotei a portare le sue condoglianze.
Soltanto un giovane dai capelli corvini, uno shinigami della terza Divisione di nome Felio Sanada, mi raggiunse un giorno nei pressi della tomba per esprimere il proprio dispiacere. Brevemente, raccontò la sua storia.
Aveva conosciuto Rin all’Accademia per shinigami, molti anni prima, quando erano poco più che bambini. Erano diventati subito grandi amici, e lui ricordava quei giorni col sorriso, come se parlandone li stesse rivivendo, nella mente, uno ad uno.
Si era innamorato di lei, credo, anche se non me lo disse chiaramente. Era triste, nel guardare la misera croce di pallido legno leggero, e forse anche lui come me si chiedeva se Rin fosse davvero andata, come dicevano, in un luogo migliore.
E io, intanto, avevo preso la mia decisione.
- Vorrei che questa la tenessi tu, - gli dissi semplicemente, al momento del congedo, porgendogli la fascia di stoffa scarlatta che avevo accuratamente conservato dal giorno in cui il Capitano me l’aveva affidata.
Lui mi lanciò un’occhiata stupita, esitante: non capiva.
- Sono sicura che lei avrebbe voluto parlarti un’ultima volta, e salutarti come si deve. - spiegai, in uno dei miei rari momenti di loquacità.
Quel ragazzo dagli occhi color smeraldo, un po’ imbarazzato nell’accettare l’oggetto che gli porgevo, risvegliava in me una sensazione che sulle prime mi fu impossibile decifrare. Il suo modo di manifestare il dolore, con controllata ma disarmante spontaneità, era così diverso dalla fredda collera cieca che Kutotsuchi-sama si ostinava a mostrare!
Sanada-sama, senza timore di apparire “troppo umano”, esprimeva il cordoglio con i gesti e le parole di chi ha perso una persona a lui cara. Mio padre, pur avendo provato per Rin un sentimento che era il più simile all’amore, non riusciva a far altro che mostrare il proprio dolore attraverso l’ira, l’odio, la rabbia.
Da giorni, ormai, nessuno lo vedeva più aggirarsi per la Sezione Scientifica come un tempo era solito fare. Se ne stava rinchiuso da solo, nel suo silenzioso laboratorio sotterraneo, senza uscire neppure per consumare i pasti o dormire nella propria stanza. Non voleva incontrare nessuno, e nessuno avrebbe voluto vederlo: sebbene non riuscissero a condividere la sua visione delle cose, tutti avevano capito che sarebbe stato meglio lasciare che il Capitano elaborasse il proprio lutto nella maniera che riteneva più opportuna.

Trascorsero le settimane, e finalmente Kurotsuchi-san riemerse dall’oscurità del suo laboratorio. Era magro, e ancora più pallido di quanto già non fosse; molto più silenzioso, i suoi occhi da dietro la maschera fissavano il mondo con una freddezza che nessuno aveva mai visto.
Una spessa sciarpa di stoffa pesante copriva interamente il suo collo, nascondendo alla vista la pelle che la scollatura dello shihakusho avrebbe altrimenti lasciato scoperta. Era strano, più strano del solito, e compiva i propri esperimenti con uno zelo ed un accanimento che avevano qualcosa di insano e febbrile.
Quando mi resi conto di ciò che aveva fatto, fu quel giorno che mio padre iniziò a farmi davvero paura.
Credeva che non lo vedessi, forse, o forse aveva deciso che non gli importava. Se qualcuno delle altre Divisioni avesse anche solo immaginato ciò che io con questi occhi ho visto, adesso Kurotsuchi certamente non sarebbe più Capitano.
Sulla pelle cinerea del torace e della schiena si aprivano una serie di lunghe e profonde incisioni, ricucite piuttosto maldestramente per mezzo di spessi punti da sutura. Non c’era bisogno di chiedere spiegazioni per comprendere il motivo di simili ferite: Kurotsuchi Mayuri era tornato ad essere la cavia di se stesso.
In cerca di un motivo per poter dimenticare, gettandosi nel lavoro nella speranza di sfuggire dal resto del mondo, una volta esaurito il materiale su cui compiere i propri esperimenti il Capitano non si era fermato. Aveva sperimentato sul proprio corpo, considerandosi alla stregua di un cadavere: infondo cos’è, una creatura priva di una ragione e uno scopo, se non un cadavere che ancora cammina?
Mi avvicinai, desolata, a quell’uomo che nonostante tutto consideravo mio padre. Non avrei saputo cosa dirgli, nè che fare, e se lui si fosse voltato forse sarei semplicemente scoppiata a piangere.
Ma lui non lo fece, non mi guardò neppure.
Rimase immobile, ignorandomi, il volto coperto dalla maschera che fissava un punto lontano fuori dalla finestra, in direzione della piccola croce di legno, sulla collina. Non gli importava di me, non gliene sarebbe mai importato.
Lo sapevo, lo avevo sempre saputo, era semplicemente il nostro modo di esistere l’uno per l’altro, il nostro equilibrio particolare. Eppure quel giorno, per la prima volta, mi posi la domanda che ancora oggi continua a tormentare le mie ore: con quale diritto, o con che orgoglio, posso vantare il privilegio di essere tuttora al suo fianco...?
Per quale motivo sono io, Nemu Kurotsuchi, ad essere rimasta ancora in vita...?
  
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