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Autore: Red_Coat    26/01/2020    1 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
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Per ogni puzzle da ricomporre c’è sempre un primo pezzo da scegliere, di solito selezionato a caso dalla moltitudine di pezzi nella scatola.
Il primo frammento estratto a caso da Cloud Strife fu ‘casa’: Nibelheim. Ci andò, si. Da solo, tremando di paura, ma ci andò, e cercò di capire chi tra le mille voci che gli rimbombarono in testa aveva ragione, ma fu un tentativo vano. Si rese conto di quanto i ricordi fossero confusi, di quanto le parole di Sephiroth gli fossero rimaste dentro. Solo un momento risultava nitido, come se fossero tutti d’accordo su questo.
Lui aveva ucciso Sephiroth, e lo aveva fatto due volte. La prima nel reattore, dove tornò rivivendo l’orrore di quei momenti con dolore, urla e pianti.
La seconda …
La sognava ogni notte, da quello successiva a quel momento. E ogni volta, prima di svegliarsi, gli sembrava di sentire come una sorta di morsa al cuore, e un fischio cupo, una specie di ululato lontano.
E Sephiroth che continuava a ridere. Di cosa poi? Era morto, morto per sempre, perché aveva riso? Lo ricordava bene, il suo sguardo. Non era quello di uno appena colpito a morte, anzi.
Quel sogghigno perfido, quegli occhi scintillanti così vivi da sembrare reali ancora adesso, a distanza di mesi.
Ne erano passati sei, sei e mezzo per l’esattezza, e lui continuava a rivederlo, a sentire quella risata, ad avvertire quell’ululato cupo. Era un suono strano, simile ad un grido di dolore ma anche ad una di quelle sirene di allarme che riempivano le strade di una città prima di un bombardamento. Suoni simili, dal medesimo angosciante significato. Morte.
Solo … morte.
Immerso nel buio e nel silenzio della notte, si strinse nella coperta che si era portato dietro, accartocciandosi su sé stesso, e all’improvviso guardando il cielo nero sopra di sé un altro freddo brivido gli percorse la schiena, facendolo tremare senza che riuscisse in qualche modo a contenersi.
Ricordava bene quando era stata la prima volta che aveva avvertito quella sensazione. Nove anni prima, nel corridoio del reparto SOLDIER. Quando i suoi occhi di giovane fante avevano incrociato per la prima volta quelli di Victor Osaka, allora appena nominato 1st class.
In quell’occasione non aveva saputo spiegarsela. Nulla di quanto aveva vissuto e provato gli era parso logico, e quel terrore, quell’alito di morte gli era sembrato così assurdo da risultare invero simile.
Adesso però … era passata parecchia acqua sotto i ponti, e tutto avrebbe avuto ancor più senso se Victor Osaka fosse stato ancora vivo. Ma non lo era … giusto?
 
***
 
Era pesante, quel ninnolo. Pesante da portare al collo come un macigno, ma mai quanto i pensieri che si ritrovò a dover sostenere, appena uscito dalla grotta.
Era arrivato con un proposito semplice, trovare un modo per far giusta vendetta Sephiroth.
Non si sarebbe mai aspettato di ricevere un messaggio, una nuova missione, proprio da Lui, e proprio per mezzo di Kendra.
Quello spirito malevolo.
In passato era sempre stato titubante nel fidarsi, e cercò di farlo anche adesso, esaminando ciò che aveva appreso. Perché poteva essere che mentisse, era ragionevole crederlo, dopo tutto.
Ma proprio facendolo si rese conto di non poterlo neanche ignorare, perché c’era sempre stata una sottile e forte connessione tra lui e il suo niisan, come una voce che si era bruscamente interrotta nel momento della sua morte, e che adesso … all’improvviso, era tornata a farsi sentire.
Flebile, certo. Come un’eco lontano.
Ma presente, e difficile da ignorare.
 
«Ho un messaggio da parte di tuo fratello...»
«Sapeva che saresti venuto da me.»
 
Sephiroth … sapeva?
Lui sapeva? Ma … come? Come aveva fatto a saperlo? Forse prima di morire lui …?
Correndo veloce sul filo di quei pensieri la sua mente tornò indietro, al giorno della battaglia, al loro ultimo sguardo. Quel sogghigno. Gli occhi accesi verso di lui, la determinazione oltre il dolore e la sconfitta …
Ebbe un tuffo al cuore, per qualche istante rimase senza fiato annaspando senza accorgersene neppure.
Ma certo, era ovvio.
Il ragazzo impossibile era sempre stato capace di leggergli nel pensiero, di accontentarlo in qualsiasi cosa avesse voluto. Sephiroth, che lo aveva visto tornare indietro, lasciare SOLDIER per mettersi sulle sue tracce la prima volta che era scomparso tra le fiamme di Nibelheim, sapeva che lo avrebbe fatto di nuovo, e a contatto col lifestream aveva cercato un modo, un qualsiasi tra quelli sicuri, per fargli sapere … le sue ultime volontà.
Il Generale non era tipo da arrendersi così facilmente, non poteva morire senza conseguenze, né essere sconfitto senza una punizione. Lo aveva pensato anche lui, del resto. Ma ciò che non aveva previsto era il fatto che Sephiroth stesso lo avesse previsto e avesse scelto con cura a chi assegnare quel compito. Lui.
Guardò il medaglione scintillare sinistramente tra le dita della sua mano destra guantata di nero, e improvvisamente sentì una nuova scossa elettrica attraversarle e colorare nuovamente le sue pupille. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, che trattenne a fatica, la mente annebbiata e il cuore che sembrò quasi esplodergli in petto.
Era chiaro, il messaggio. Sorrise, asciugandosi gli occhi con la mano libera e alzando gli occhi al cielo, inspirando a grandi sorsi l’aria gelida della notte. Che stupido! Che idiota era stato a pensare che fosse finita così. Certo, era ovvio! Come aveva potuto non pensarci prima? Sephiroth era un soldato, conosceva bene la guerra e sapeva che in ogni battaglia vi era una possibilità di vincere e una di essere sconfitti.
E forse … aveva previsto anche questo. Che se avessero perso, per colpa di chi poco importava a quel punto, dopo il dolore sarebbe venuto il momento di combattere ancora … per lui. Il sopravvissuto. L’unico ancora degno del Suo nome.
Un’ultima volta, quella definitiva. Non era così lontano dalla verità, in effetti, anche se mancava ancora qualche tassello per giungere a quella completa. Del resto esigere vendetta significava ammettere di esser stato sconfitto, e richiedeva una certa dose di sana modestia, cosa che Sephiroth … beh, qualcuno un tempo lo aveva definito a ragione “così presuntuoso”.
 
***
 
 Il pezzo mancante lo trovò, neanche tanto consapevolmente, due giorni dopo, sulla strada verso il cratere nord. Ci aveva pensato a lungo e alla fine, con buona pace di Cloud Strife, aveva deciso di rimandare almeno per il momento i suoi propositi di vendetta per seguire la pista lasciatagli da suo fratello.
Era importante, l’istinto e la voce del sangue gli dicevano che lo era. Magari chissà, avrebbe trovato qualcosa che gli sarebbe servita a completare il suo piano. Ma c’erano alcune cose da sistemare prima di partire.
Anzitutto doveva equipaggiarsi bene, non aveva alcuna voglia di rischiare di nuovo la morte per assideramento, anche perché viste le sue condizioni di salute alquanto delicate non era sicuro di riuscire a sopravvivere di nuovo. Era il problema principale, a dirla tutta. Una volta risolto quello, tutto il resto sarebbe venuto da sé.
Una bella sfida però, perché non aveva abbastanza soldi ed era praticamente nel bel mezzo del nulla secondo la mappa, quindi avrebbe dovuto arrangiarsi, come al solito. Poco male, sarebbe stata un’ottima occasione per mettere alla prova quel suo nuovo potere.
 
\\\
 
Era una bella giornata di sole. Fredda, tipicamente invernale, ma comunque priva di nubi in un cielo reso ancora più azzurro e chiaro dalle basse temperature.
Le chiome spoglie degli alberi sfioravano il blu intirizzite come vecchie mani rachitiche, un venticello gelido le faceva ondeggiare ogni tanto, e qualche uccello sfidando il freddo alla ricerca di cibo lasciava andare il proprio canto verso l’orizzonte lontano.
C’era una casa lungo quel sentiero, che era anche l’unica strada verso il porto di Costa del Sol.
Era una bella villetta dai muri dipinti di bianco e il tetto ricoperto da mattoni rossi, difesa da alte mura di pietra e da un cancello di ferro battuto verniciato di nero, e il cui giardino pieno di fiori e piante e alberi le cui chiome erano state potate a formare la più variopinte figure.
Un bel vialetto lastricato portava direttamente al piccolo portico sostenuto da piccole colonne di marmo bianco, sotto al quale era stata posta la porta d’ingresso, un bell’uscio rinforzato in Mithril.
Quella era l’abitazione di un vecchio mercante d’armi in pensione, ricco e misantropo, che amava l’atmosfera di quel posto e lo aveva scelto come suo eremo personale.
Victor Osaka giunse di fronte ad essa a meno di un quarto d’ora dalle undici, il sole alto illuminò bene ogni dettaglio della magione e fece scintillare sinistramente il sogghigno soddisfatto che ebbe non appena le fu davanti.
Una gigantesca cassaforte che aspettava solo di essere aperta.
Estrasse con calma la pistola dal fodero, vi agganciò il silenziatore, quindi fece un passo indietro puntando la canna verso la serratura e la fece saltare, sparando un paio di colpi.
 
\\\
 
Il padrone di casa in quel momento era chiuso nel suo studio a fumare un sigaro ascoltando il notiziario di mezzogiorno, con ancora indosso la vestaglia da notte e le pantofole. Come da sua abitudine aveva trascorso la mattina lontano dalla servitù, impegnata a ripulire casa e preparare il pranzo e che aveva lasciato la casa solo pochi minuti prima, raccogliendo il compenso preparato per loro da lui stesso e lasciato a disposizione in un sacchetto col nome di ciascuno sulla credenza nell’ingresso.
Era solo quindi. Solo e in vestaglia, visto che non aspettava visite.
Fu per questo che si soprese non poco quando sentì il campanello di casa suonare un paio di volte, e subito s’insospettì. Era pur sempre un vecchio trafficante d’armi, aveva imparato a tener cara la propria pelle.
Non pensò neanche di andare a sbirciare dalla finestra, semplicemente fece finta di non esserci, abbassando un altro po’ la tv.
Ma il campanello tornò a suonare, con talmente tanta insistenza che alla fine dovette cedere. Andò a controllare dalla telecamere di sicurezza, vide un giovane uomo vestito di nero appoggiato allo stipite che sorrise alla telecamera accennando ad un breve inchino col capo.
 
«Chi sei?» si fece sentire dal microfono.
«Salute a lei, buon uomo.» fece questi, senza perdere il buon umore «Ha un minuto per parlare del nostro Signore e Salvatore?»
 
Il vecchio alzò gli occhi al cielo, seccato.
 
«Va’ via! Non m’interessa!» lo scacciò, chiudendo lì la conversazione e tornandosene alla tv.
 
Il citofono ricominciò a suonare, lui provò a chiudere la porta ma il rumore divenne così continuò ed insistente che alla fine dovette arrendersi e andare ad aprire per scacciarlo di persona fuori dalla sua proprietà. Non voleva certo che quel mentecatto sfondasse il citofono, con tutto quello che gli era costato l’impianto di sicurezza!
 
«Ma chi diavolo è stato a lasciare aperto il cancello?» borbottò tra sé, allacciandosi la cintura della vestaglia alla vita «Maledetti, li licenzierò tutti in tronco!»
 
Fortunatamente per la sua servitù, quella fu l’ultima occasione che ebbe di manifestare la sua ira, perché non appena ebbe aperto finì per ritrovarsi una lama dentro al basso ventre e la mano sinistra dello straniero stretta attorno al collo.
Il cuore gli balzò in gola acuendo la spiacevolissima sensazione di soffocamento dovuta alla stretta. Con occhi terrorizzati guardò il ghigno sadico sul volto del giovane uomo e lo sentì sghignazzare divertito.
 
«Risposta sbagliata, nonno. Dove hai nascosto i soldi?»
 
Affondò di più la lama nel ventre, e un dolore atroce lo costrinse a contorcersi mentre del sangue invadeva la sua bocca, aperta alla ricerca d’aria.
L’uomo in nero liberò il suo collo, gli sferrò un pugno sul naso che lo fece crollare sul pavimento e si chinò a riprenderlo, trascinandolo al piano di sopra, nella sua stanza da letto.
Non capì molto di quello che successe dopo, fu fuori da ogni logica.
Il rapinatore lo gettò sul letto, qualcosa di intangibile gli incatenò i piedi al pavimento e fili di lifestream gli avvolsero i polsi, immobilizzandolo del tutto.
Tentò di divincolarsi e urlare, ma ci rinunciò subito rendendosi conto di star perdendo le forze. Aveva la vista oscurata, sputava sangue e annaspava, mentre l’aggressore con tutta calma apriva ogni anta del suo armadio e frugava tra i vestiti.
 
«Devo andare a nord, hai qualcosa per me?» gli chiese, come se potesse rispondergli «Ah, questo è interessante.»
 
Tirò fuori una gruccia su cui era appeso il suo cappotto migliore, un lungo soprabito di tessuto caldo nero foderato di pelliccia di fennec grigio chiara e completo di cappuccio. Si chiudeva per mezzo di bottoni e cerniera, aveva una tasca a destra e un cinturino in pelle nera. Era più grande di una taglia, ma sarebbe andato benissimo indossato sopra alla divisa.
 
«Però …» sogghignò soddisfatto «Questo andrà più che bene.» disse, poi gli lanciò una lunga occhiata inquietante «Vediamo che altro hai lì dentro.»
 
E si rituffò nell’armadio svuotando cassetti e mettendo tutto all’aria, mentre i fili di lifestream stringevano. Alla fine dell’ispezione si era appropriato di un altro paio di guanti più pesanti e una sciarpa blu di Prussia.
 
«Perfetto, e ora veniamo alle cose importanti.» fece, avventandosi di nuovo su di lui e puntandogli il pugnale alla gola «Dove sono i soldi? Dove li tieni, avaraccio?»
 
Non rispose, fissando quegli occhi felini col terrore più puro. Quello sguardo magnetico e folle, quella ciocca bianca. Li aveva conosciuti solo una volta nella vita, ed era stato molto tempo fa, in gioventù. Rivederli era un’esperienza agghiacciante, aggravata da tutto ciò che quel giovane gli aveva appena fatto. Eppure era impossibile, Sephiroth era morto da anni ormai.
Il coltello affondò di più nelle carni, la pelle iniziò a bruciare e lui a tremare di paura. Aveva davvero intenzione di ucciderlo?
 
«Lo so che puoi ancora parlare, ti ho risparmiato apposta le corde vocali.» lo minacciò a quel punto il giovane uomo, scuotendolo «Allora, dove sono??»
 
Capì che forse sarebbe stato meglio obbedire. Del resto ciò che aveva in casa era solo parte della propria fortuna, l’indispensabile per le spese. Se non gli avesse chiesto il numero del conto in banca sarebbe stato salvo e ancora ricco.
Provò a parlare ma non ci riuscì. Allora alzò il dito della mano destra ad indicare il quadro sopra al comò, spostando verso di esso anche lo sguardo.
Recependo il messaggio, il ragazzo lo abbandonò nuovamente sul letto e mentre il lifestream tornava a incatenargli le caviglie si diede da fare con la cassaforte.
Spostò il quadro, una stampa di un paesaggio lacustre in cornice verniciata d’oro, e dietro vi trovò una piccola cassaforte con lucchetto.
 
«Tsh! Hai davvero poca fantasia, eh?» commentò sogghignando, poi gli ordinò di aprirla e lo costrinse ad obbedire sotto la minaccia della sua pistola.
 
Non poteva scappare, il lifestream lo incatenava al suolo e quello era forse il dettaglio più inquietante in tutto quello che gli stava accadendo.
Dentro al piccolo scrigno c’era una vera fortuna in gil, monete e bigliettoni, che il delinquente ammirò con occhi sognanti.
 
«E pensare che io per guadagnarne così tanti dovevo vendermi la pelle ogni giorno, in SOLDIER.»
 
SOLDIER?
L’uomo strabuzzò gli occhi, domandandosi perché non lo avesse capito subito dalla chiara luminescenza degli occhi. Forse erano state quelle pupille strane a confonderlo, o la somiglianza con l’eroe di SOLDIER. Questi sembrava il suo gemello pazzo, in effetti, non fosse stato per i capelli corvini.
Sogghignò, e all’improvviso sfoderò la sua katana e lo ferì di nuovo al fianco, costringendolo a sedersi sul letto ormai macchiato di sangue.
 
«Sai, questo mi fa pensare che te lo meriti tutto, quello che stavo pensando di farti.» lo minacciò, facendosi serio.
 
Lo guardò negli occhi e gli puntò la lama alla gola. Il vecchio mercante, ormai in preda al panico, scosse vigorosamente il capo e lo supplicò a mani giunte di non ucciderlo, ma fu inutile.
Con un pugno ben assestato il SOLDIER lo atterrò, quindi alzò la lama e sibilò malefico, scandendo bene ogni singola parola.
 
«Lunga vita a Sephiroth.»
 
Quindi calò il colpo, diritto al cuore.
Morì sul colpo, ovviamente. E immediatamente Osaka sentì il medaglione che portava al collo vibrare così forte da destabilizzarlo, per qualche attimo. Ma per rendere tutto più scenografico prima di utilizzarlo estrasse nuovamente la pistola e sparò altri due colpi, uno al fianco sinistro e l’altro in fronte, storcendo le labbra in una smorfia alla vista del sangue che fuoriusciva dal cranio.
Quindi si preparò, prendendosi qualche attimo per riprendere fiato e poi tirando fuori il medaglione da sotto il soprabito e lasciando che ricadesse al centro del petto.
Doveva sbrigarsi, farlo prima che il cadavere iniziasse a svanire.
Sospirò, facendosi serio, e chiuse gli occhi allargando le braccia e cercando di replicare in qualche modo la sua prima esperienza di riesumazione. In fondo un essere umano era solo più grande di un coniglio, no?
All’improvviso il silenzio venne rotto da uno strano mormorio macabro, un sibilo quasi animalesco, mentre un raggio di luce verde scuro si propagò nella stanza fino al corpo dell’uomo, che iniziò a svanire ma dirigendosi verso di lui invece che verso il cielo.
Il mormorio stregato aumentò sempre più di volume, fino a che, pochi attimi prima che il corpo della vittima tornasse, non si trasformò in un grido quasi assordante.
Nel frattempo Victor si sentì come soggiogato da un peso sempre maggiore che per poco non lo indusse in ginocchio, schiacciandolo.
Chiuse gli occhi, facendosi forza e unendosi alla nenia, stupendosi egli stesso di conoscerne le parole.
Quando tutto finì, la salma martoriata si ricompose lì dove era stata lasciata.
Erano passati pochi istanti, eppure guardandolo sembrava fosse morto da settimane. Osaka si avvicinò cautamente a toccarlo e ispezionarlo.
La pelle era verdastra e ghiacciata, sottile, gli occhi erano ancora spalancati ma vitrei, cerchiati da profondissime occhiaie nere, scavati e lucidi. L’unica cosa che sembrava fresca erano le ferite, ancora grondanti di sangue. Eppure era strano, al tatto anche questi risultava freddo e grumoso.
D’un tratto lo vide muovere le pupille a guardarlo, e saltò indietro, lasciandosi prendere da un attimo di terrore. Poi però si accorse che una delle gemme del medaglione stava brillando di luce verde, e che quella creatura, qualsiasi cosa fosse, lo guardava famelica.
Sembrò capire, e spalancò la bocca meravigliato. Ma certo … era stato lui, con un pensiero diretto pur se non volontario, a chiedergli di aprire gli occhi. E lo zombie lo aveva fatto, perché era … sotto il suo comando adesso.
Sogghignò, tornando ad avvicinarsi. Sentiva la gemma vibrare, pulsare come il battito di un cuore, ma il peggio era passato. Tutto stava ad avere la forza per effettuare l’incantesimo “raccoglitore”. Una volta compiuto quello, tutto il resto era un gioco per lattanti.
Rise, di gusto e vittorioso. Poi tornando serio provò a “muovere la sua marionetta”, allungando una mano verso di lui e ordinandogli col pensiero di alzarsi.
Gli si mozzò il fiato in gola quando lo vide obbedire, seppur coi movimenti claudicanti e incerti di uno zombie. E tornò a ridersela sull’ebbrezza di un’ondata di onnipotenza.
 
\\\
 
C’era un pranzetto sostanzioso al piano di sotto. Due primi, un secondo di carne, dessert abbondanza di liquori e anche del caffè, volendo. Lasciò lo zombie in camera da letto e scese giù a gustarselo, visto che ormai era l’unico rimasto in casa.
 
«Tutta questa roba e una sedia soltanto.» commentò sarcastico, ridendosela, prima di mettersi a tavola «Avaro e anche ingordo, il bastardo.»
 
In fondo dopo tutta quella fatica se lo era meritato, un buon pasto come quello. E poi aveva bisogno di rimettersi in forze per la traversata. Decise così di fermarsi a riposare, facendo anche un sonnellino prima di ripartire, intanto che il non morto faceva guardia alla casa.
Si addormentò sul comodo divano in pelle del soggiorno, quasi subito sentendosi travolgere da una stanchezza enorme dovuta all’uso del medaglione che assorbiva da lui energia vitale e magica, ma mentre era immerso in un sonno profondo sentì uno strano calore avvolgerlo, e qualcosa, come un pensiero latente non ben decifrato, lo spinse a riaprire gli occhi.
Ancora intorpidito vide un bagliore chiaro scintillare alla sua destra, in un angolo del pregiato tavolino in legno dipinto con vernice color crema e intarsiato da numerose forme geometriche e ghirigori barocchi. Fu ciò che lo spinse a destarsi del tutto, mettendosi a sedere per osservarlo meglio, anche perché quello scintillio oltre ad essere stranamente circoscritto emetteva una specie di … tintinnio appena udibile.
Tuttavia quando fu abbastanza vigile per farlo quello strano fenomeno si era già dissolto, rivelando al suo posto qualcosa di ancora più strano.
Una cartelletta trasparente con dentro dei fogli e segnata con la scritta in rosso “TOP SECRET”. La riconobbe subito e si stranì non poco. Era quella che Sephiroth gli aveva fatto avere attraverso Jim. Come accidenti c’era arrivata lì? Credeva di averla lasciata a Midgar. Cosa … cosa avrebbe dovuto significare questo, ora?
Si guardò intorno, alla ricerca di qualche altro fenomeno paranormale, ma non l’unica cosa che trovò fu il silenzio, e lo zombie che fissava atono qualcosa fuori dalla finestra.
Sogghignò divertito, poi tornò serio e prese la cartella tra le mani estraendone il contenuto e iniziando a leggerlo con attenzione, in cerca di qualcosa che riuscisse a risolvere quei dubbi.
 
***
 
La pioggia lo colpì all'improvviso sulla strada verso Kalm, mentre stava tornando da Elmyra dopo aver soddisfatto alla sua richiesta: portare un mazzo di fiori ad Aerith, nel luogo in cui si era spenta per sempre.
Era stato un viaggio non tanto faticoso a livello fisico, tutto era ricaduto sulla sua mente.
Tornare a trovarla gli aveva fatto piacere, ma ... renderle omaggio così ... con un semplice mazzo di fiori ... come si faceva coi morti.
Aerith non era morta. Non per lui. Era viva, nel suo cuore, ed era quel contrasto a far male.
Più la cercava senza trovarla, più sentiva il cuore sanguinare. Con Zack era cento volte peggio, perché sapeva di avere una colpa enorme nei suoi confronti. Lo aveva dimenticato.
Fair era stato il suo unico amico, gli aveva dato tutto, perfino la vita, e lui lo aveva cancellato come con un colpo di spugna.
Come aveva potuto? Paradossalmente, si ritrovò a capire la rabbia di Osaka, tutte le volte in cui si erano affrontati. Loro due erano amici da molto più tempo, e considerato questo non trovava affatto strano adesso che volesse fargliela pagare, per quel tradimento.
Perciò si convinse di dover cercare un modo per farsi perdonare, e mai come allora sentì crescere a livelli esponenziali il peso di quella spada che portava sulle spalle.
Era sua. Apparteneva a Zack, e anche se in fondo sapeva di non esserne del tutto responsabile, lui non aveva più il diritto di usarla dopo averlo obliato.
Inoltre aveva raggiunto il suo scopo, grazie a lei. Aveva ucciso Sephiroth, una volta per tutte.
Per questo, adesso, aveva bisogno di un'altra compagna per quella missione, molto più personale: Cercare sé stesso.
L'idea di chiedere al fabbro gli era venuta quasi subito, pensando all'occasione in cui avevano visitato il suo negozio alla ricerca della black materia.
Gli era sembrato competente, perciò gli si era rivolto chiedendo una spada che potesse essere versatile e servirgli in ogni evenienza.
 
«Mh.» aveva risposto l'uomo «Posso farcela, si. Non è difficile, ma ci vorrà un po’ di tempo prima di potertela consegnare. Qualche mese di sicuro. Devo capire bene come riuscire a forgiarla.»
«Non ho fretta.» aveva risposto lui.
 
Mentendo, in realtà, perché di fretta ne aveva molta, ma in fondo non poteva pretendere di avere tutto e subito, soprattutto in fatto di armi.
Nel frattempo avrebbe dovuto continuare a cercare le sue risposte restando al sicuro dietro la robusta lama della Buster Sword, l'ultimo filo che legava l'anima di Zack a qualcosa di mortale.
 
\\\
 
Quando il temporale si fece troppo fitto per poter proseguire senza rischiare che le ruote della moto si impantanassero, Cloud Strife decise di fermarsi ad aspettare tempi migliori riparandosi dentro allo scheletro di un ampio edificio che incontrò lungo la strada, a pochi chilometri di distanza da Kalm.
Sembrava un edificio in costruzione, ma non appena vi entrò si rese conto di trovarsi in realtà dentro un vecchio ospedale dismesso o abbandonato che il tempo e le intemperie avevano poi contribuito a demolire, pian piano.
Trovò posto al piano terra, senza addentrarsi oltre, anche perché sentì crescere dentro di sé una strana inquietudine.
Per un po’ rimase sull'uscio a guardare la pioggia fitta che ingrigiva il cielo e inzuppava il terreno ricoperto di erba fresca. Era pomeriggio inoltrato, e la luce tenue del tramonto non ce la fece a superare la fitta coltre di nubi che avevano oscurato il sole, perciò le tenebre calarono più velocemente del previsto e scese la sera, gelida e umida.
Chiuse la porta di ferro arrugginita sperando che bastasse a tenere lontano i mostri, e appoggiando la spada al muro di fianco a se si stese sul pavimento, la testa poggiata sul sacco a pelo ancora arrotolato.
Restò ad ascoltare il silenzio, assorto in confusi pensieri.
Quanto tempo aveva trascorso in quel viaggio? Erano già passati sei mesi e ancora non era riuscito a ritrovarsi.
Dove stava la verità? 
Sospirò scuotendo il capo, le mani incrociate sul ventre.
 
«Non ci riuscirò mai ...»
 
Come per mezzo di un eco lontano, sentì Sephiroth tornare a ridersela.
Scacciò quel sussurro con fastidio, ma iniziò a fargli male la testa.
E altre voci iniziarono a farsi sentire. Non ne riconobbe nessuna, ma tutte dicevano la stessa cosa.
 
«Dove stai andando?»
«Dove vai?»
«Speri di arrivare da qualche parte?»
«Ahahahah!»
«Lascia perdere ...»
«Rassegnati!»
«Non arriverai ...»
«No! Ahahaha!»
 
Riaprì di colpo gli occhi, mettendosi a sedere e guardandosi intorno. Come ...?
Cosa era stato?
Era incredibile, per un istante gli era sembrato di esser circondato da estranei che si prendevano gioco di lui circondandolo. Ma nell'oscurità si rese conto di essere circondato solo da ombre e silenzio.
Eppure quei sussurri ...
Chiuse gli occhi, riprendendo ad ascoltare.
Non era stata una sensazione, le sentiva davvero.
Che fossero fantasmi?
 
«È vivo ...»
 
All'improvviso, quel sussurro colpì la sua attenzione. Era molto più chiaro degli altri, come se fosse più vicino.
Riaprì gli occhi. Si guardò intorno ma ancora una volta non vide nessuno.
Eppure ...
 
«È vivo, non puoi scappare da lui ...»
 
Trattenne il fiato. L'istinto gli disse di scappare, ma qualcos'altro invece lo indusse a resistere. Allora non aveva capito male ... stavano parlando con lui.
 
«Chi sei? Di chi stai parlando?» domandò al buio.
 
Un'altra risata macabra si fece udire. Era sommessa, sadica. Ma vicina, più vicina che mai, e sentì le carni rizzarsi sotto alla stoffa della divisa.
 
«Non puoi sottrarti a lui, rassegnati ...»
 
Quindi all'improvviso sentì un dolore lancinante alle tempie e cadde in ginocchio. Qualcosa gli ostruì la gola, la lingua gli si attorcigliò in bocca, gli sembrò di annaspare.
Cadde a terra, e prima di perdere i sensi intravide l'acqua sotto di sé animarsi fino a finirgli dritta in bocca.
Si risvegliò la mattina seguente, ancora più confuso. Quando riuscì a rialzarsi e si controllò, cercando di capire cosa fosse accaduto e se avesse riportato ferite di qualche tipo, si rese conto con orrore di una enorme chiazza nera che ora campeggiava sul suo braccio destro, putrescente e viscida: Geostigma.
Adesso nemmeno lui ne era più libero.
 
***
 
La bestia era irrequieta, da un po’ di tempo Vincent Valentine se ne era reso conto ma ancora non sapeva bene il perché, anche se lo immaginava.
Chaos, la creatura che risiedeva dentro al suo corpo, era sempre stata attratta dalle situazioni che ricordavano il suo nome: caotiche, pericolose, pregne di paura e meschinità.
Se ne nutriva, essendo una creatura oscura, ma fin dall'attimo del suo risveglio non aveva mostrato segni di voler scavalcare la coscienza del corpo ospitante.
Lui non lo conosceva molto bene, a dire la verità; se lo era ritrovato in corpo a causa di Hojo e da allora tutto ciò che aveva sempre saputo lo doveva alla connessione mentale che quella creatura aveva stabilito con lui, empatizzando con la sua angoscia e il suo senso di colpa nei confronti di Sephiroth e Lucrecia.
Si era nutrito di quei suoi sentimenti ed era rimasto accucciato dentro il suo cuore, mostrandosi nella sua forma meno evoluta di Galiant Beast solo quando l'ospitante ne aveva avuto bisogno.
Questo almeno fino all'arrivo di Osaka, giorno in cui la bestia aveva deciso in piena autonomia di mostrarsi, prendendo il suo posto in combattimento.
Vincent non aveva potuto farci molto, ed era stato proprio questo a sorprenderlo e impensierirlo. Sapeva del legame tra Cloud, Victor e Sephiroth, ma non credeva ce ne potesse essere uno anche tra la creatura che viveva dentro di lui e Osaka, per questo aveva voluto affrontarlo per una seconda volta, ed era stato questo il motivo che lo aveva spinto a non ucciderlo: doveva capire il perché di quella strana inquietudine, della voglia di Chaos di fare di testa propria. 
Anche perché ... era pericoloso e orribile, quando accadeva.
Non aveva mai accettato quella creatura che lo aveva trasformato e cambiato dal giovane e anche un po’ ingenuo turk che era stato alla persona solitaria e tenebrosa che era diventato.
Col tempo aveva imparato a farlo, non avendo alternativa, ma non averne il controllo lo terrorizzava.
Non voleva fare del male a nessun altro, ma essere posseduti dalla bestia significava perdere controllo e memoria, un’idea che lo riempiva ancora di terrore nonostante fossero passati più di vent’anni dalla prima volta.
Se avesse saputo che quell'essere che aveva trovato alloggio dentro il suo corpo era il preludio della fine del mondo in realtà non avrebbe avuto alcun bisogno di indagare oltre, ma il tempo in quella realtà era stato dimezzato e quello giusto per farlo purtroppo ora non sarebbe mai arrivato per lui, tanto valeva affrettarsi quindi.
 
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Geostigma.
Era apparso a Kalm subito dopo l'arrivo dei profughi, ma se all'inizio Valentine aveva pensato al semplice contagio, ben presto ascoltando i notiziari e le conversazioni della gente in strada si era reso conto di essersi sbagliato.
Qualsiasi cosa fosse, quella cosa era apparsa subito dopo la caduta di meteor, e ce l'aveva a morte e con cattiveria con la gente, senza distinzione di razza, età, condizione sociale e provenienza.
Circa una settimana dopo l’aver realizzato ciò, Chaos aveva nuovamente preso il controllo del suo corpo, non sapeva dire con esattezza per quanto tempo ma di sicuro non più di qualche istante. Appena passato lo sconcerto aveva iniziato a chiedersi perché, e la sua mente analitica che tanto gli era servita nei servizi segreti anche in quel caso gli era tornata utile, assieme all'arrivo della visita inaspettata di Reno ed Elena.
Arrivarono da lui al tramonto, bussarono alla sua finestra scagliando contro di essa qualche sassolino e quando si affacciò, il rosso lo salutò con un sorriso.
Fu sorpreso di vederli, non poco dato che non aveva detto a nessuno dove avesse intenzione di andare.
Pensò subito a Reeve, che gli aveva fatto visita un paio di settimane addietro per convincerlo a unirsi alla sua organizzazione impegnata nella salvaguardia della rigenerazione del Pianeta.
Ovviamente aveva rifiutato, ma ...
Con un sospiro si era recato al piano di sotto per aprire la porta ai suoi ex colleghi. In realtà loro erano venuti molto dopo la sua presunta dipartita, erano diventati sottoposti del suo migliore amico, Veld.
Poi era andata com’era andata, la vita non era stata clemente nemmeno con lui e allora aveva scelto l'esilio, seguendo le sue orme.
I ragazzi però erano rimasti e tra di loro c'era chi, come i veterani Tseng e Reno, sapeva del legame di amicizia che legava il loro capo a lui. In un'occasione come quella era stato quasi automatico cercarlo per tentare di risolvere l'enigma. Erano rimasti solo in tre, dopotutto, una mente esperta non sarebbe certo dispiaciuta.
Il problema era convincerlo ad aiutarli, ma le circostanze giocavano a loro favore.
 
«Hey, Mr. Valentine.» lo salutò Reno, col suo solito tono scanzonato «È stata una faticaccia trovarti, fortuna che Reeve ci ha dato una mano. Ti sei sistemato bene.»
 
Concluse, guardandosi intorno ed evitando di storcere le labbra. Certo che non aveva proprio il senso dell'arredamento, quel loro vecchio collega. L'appartamento era un trilocale abbastanza spoglio, la cucina era piccola e il soggiorno era composto da un semplice tavolo con qualche sedia, un divano appoggiato alla parete vicino alla finestra e una TV.
Mancavano totalmente quadri, tende e qualsiasi altro oggetto che avrebbe potuto dare alla casa un pur minima identità.
Elena fu dello stesso parere, ai due bastò uno sguardo per capirsi.
 
«È stato lui che vi ha mandato?» aveva chiesto il moro, con la solita cera accigliata.
«Più o meno.» era stata la semplice risposta di Reno, che subito dopo lo aveva guardato e gli aveva anticipato, senza rimanere troppo sul vago «Veniamo da parte del Presidente, ci serve una mano in un più nella ricerca ... di un fantasma.»
 
Era stato così che aveva saputo, e sulle prime l'idea di mettersi a cercare Osaka per conto di Rufus Shinra non gli era affatto piaciuta, perciò aveva rifiutato e aveva chiuso ogni possibilità di comunicazione con loro, che non avevano potuto far altro che andarsene.
Tuttavia il tarlo aveva ricominciato a scavare e la bestia ad essere sempre più inquieta, fino al giorno in cui non aveva deciso di svolgere da sé le indagini sulle tracce di quell'uomo, partendo da un passato misterioso quasi quanto il suo.
Avrebbe deciso poi se condividerne o meno i risultati e con chi farlo, per ora aveva solo bisogno di capire.
   
 
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