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Autore: ONLYKORINE    27/01/2020    2 recensioni
Catia torna dopo quindici anni al suo paese per dimostrare ai suoi coetanei che anche se loro la consideravano diversa, lei è felice e sta bene.
Però l'accoglienza che riceve è diversa da quelloo che si aspettava e scopre che loro hanno un buon ricordo di lei.
Ma allora perché non era tornata prima?
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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cover

Mi chiamo Katrina

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La donna si tirò il cappuccio sulla testa, neanche avesse dovuto fare una rapina in banca. Saltò sul furgone e mise in moto sorridendo: nessuno l’aveva riconosciuta in comune. Nessuno aveva riconosciuto il suo nome, per lo meno.

Svoltò nella via della palestra, anche se la palestra era stata trasformata in un piccolo parco commerciale con al centro una fontana, e tirò dritto fino in fondo alla via, dove faceva angolo il panettiere. Quello c’era ancora. Anzi, aveva comprato anche i locali vicino e si era ingrandito: cosa c’era quindici anni prima in quel punto? Non lo ricordava.

Girò a sinistra e procedette costeggiando il fiume: su internet aveva trovato un piccolo B&B e ora stava seguendo i numeri civici per trovarlo. Anche quello doveva essere nuovo, tempo prima non esistevano neanche.

Quando trovò il numero giusto  sotto l’insegna del bar dove da ragazzina passava il pomeriggio, parcheggiò e scese. Il sole era caldo, per non essere neanche maggio, ma lì, a Triccoli, un piccolo paesino sperduto nella provincia italiana, era sempre stato così.

Tirò fuori il foglio con la prenotazione dalla borsetta ed entrò nel bar. Per fortuna era stato rinnovato, ma non del tutto: i mobili erano cambiati, sì, e non c’era più il vecchio flipper che le aveva insegnato il baratto fra tempo e divertimento, ma i muri erano gli stessi e anche la famosa colonna che troneggiava in mezzo alla sala era ancora lì.

“Buongiorno” disse ad alta voce, continuando a guardarsi intorno: non c’era nessuno. Nessun barista, nessun cliente.

Un ragazzo sulla trentina fece capolino da una porta in fondo al locale. “Siamo chiusi… Oh, ciao, Katrina!” la salutò calorosamente, girando intorno al bancone e venendo verso di lei. La donna fece una smorfia e sbuffò impercettibilmente. Nessuno la chiamava più così, se non sua madre, ma purtroppo sui suoi documenti era rimasto. E quello era il nome che aveva dato per la prenotazione.

Si avvicinò con la mano tesa e sorrise. “Mi faccio chiamare Catia” precisò.

Lo sguardo del ragazzo si fece più buio e lei lo osservò: era carino, doveva avere circa la sua età, ma era più alto di lei, pensò, guardandogli il torace. “Che peccato” disse lui, stringendole la mano.

La donna rialzò gli occhi su di lui e corrugò la fronte. Non aveva capito la sua espressione ma non ci badò tanto, visto che era impegnata a osservarlo: i capelli scuri si arricciavano sopra le orecchie e probabilmente anche dietro il collo, mentre una leggera barba ben curata gli copriva la parte inferiore del viso anche se lei riusciva a vedergli benissimo le labbra che, come i suoi occhi marroni, le sorrisero calorose. Per un attimo, Catia si sentì in bilico. Molto in bilico. Come un funambolo che iniziava a traballare sulla corda.

“È qui il B&B?” chiese allora, ritirando la mano e quasi balbettando. Fece un passo indietro, pensando di star cadere da quella corda immaginaria. Sì, cadere, direttamente sul pavimento e picchiando il sedere. Doveva stare attenta.

“Sì” rispose lui, mentre allargava le braccia. “Sopra il bar, però” precisò, indicando il soffitto. Catia annuì e disse di dover prendere in auto il bagaglio.

Dopo aver tirato fuori la piccola valigia e aver richiuso il furgone, tornò verso il marciapiede dove il ragazzo la stava aspettando. Quando aprì un portone vicino alla vetrina del bar, Catia vide la targa del B&B e capì di aver sbagliato ingresso.

“Sei qui per la festa dei fiori?” le chiese, prendendo la sua valigia e salendo le scale. Catia fu così stranita da quel gesto gentile che annuì, ma poi, rendendosi conto che lui non poteva vederla, gli rispose ad alta voce: “Sì”. Il ragazzo si voltò, sempre sorridendole.

La festa dei fiori, la stupida festa dei fiori, come l’aveva sempre chiamata Catia, all’epoca Katrina, era l’unico evento che ci fosse in quel paese. A Triccoli, una manciata di case, di strade e di negozi, l’unica cosa interessante che c’era era, fra la fine di aprile e l’inizio di maggio, una settimana dedicata ai fiori. Le vie, le vetrine dei negozi, i lampioni e tutto ciò che era possibile decorare, era ornato da fiori. Fiori di carta, fiori veri, fiori di stoffa, fiori di ogni sostanza. La vetrina del panettiere era sempre una meraviglia. Insomma, una grande festa. E durava una settimana.

A dir la verità, durava da giovedì a martedì, come aveva precisato l’impiegata del comune, non proprio una settimana. Perché il mercoledì in piazza c’è il mercato settimanale e non si può fare diversamente.

Ma a Catia, quei sei giorni bastavano, bastavano eccome. Quando era una bambina e una ragazzina, odiava la festa dei fiori. Tutti i suoi compagni si elettrizzavano quando arrivava la fine di aprile, per l’inizio della festa, mentre lei rimaneva in disparte a guardarli. Era in disparte perché lei, Katrina, era diversa.

I suoi genitori venivano dalla Romania e, anche se lei non c’era andata fino a vent’anni, era come se vivesse là. I suoi genitori le avevano passato le loro usanze, giustamente, ma spesso cozzavano con la sua vita reale. E lei non riusciva a trovare il suo posto. Loro sembravano di un altro mondo. Sua madre, il secondo martedì di ogni mese, telefonava in Romania, dove la sua famiglia era riunita a casa dell’unico parente che aveva il telefono e si teneva aggiornata sulle cose che succedevano di qua e di là dalla frontiera.

Qualche volta aveva parlato anche lei al telefono con zia Mihaela o zia Iolanda, ma presto si era stancata di stare ad ascoltare qualcuno che non aveva mai conosciuto e faceva cose che le sembravano così strane. Solo quando la nonna era andata ad abitare con loro, Catia aveva iniziato ad apprezzare un po’ quella parte della sua natura, però lei si sentiva Italiana a tutti gli effetti.

Si sentiva italiana quando a scuola avevano studiato le regioni e nel momento delle interrogazioni diceva ‘noi’ per parlare del popolo italiano, si sentiva italiana quando il venerdì sera prendevano la pizza in pizzeria dal signor Fausto e, cavolo, era italiana perché era nata al Maggiore, l’ospedale della cittadina vicina, dove nascevano tutti i bambini dei dintorni. Cantava le canzoni dei cartoni animati in italiano e allo stadio cittadino metteva la mano sul cuore mentre recitava l’inno.

Poi, crescendo, aveva notato tante piccole differenze. Piccoli dettagli che la facevano sentire esclusa, diversa, appunto.

 Katrina aveva capito di essere diversa dagli altri perché era l’unica ragazzina con un nome straniero, anche se ereditato dalla nonna paterna, come molti dei suoi compagni, la sua pelle era più chiara e il suo modo di parlare diverso. Non frequentava il catechismo, anche se il prete conosceva il suo nome, e non aveva fatto né la prima comunione né la cresima con i suoi compagni. La sua Pasqua e il suo Natale erano diversi da quelli dei suoi amici.

Così aveva iniziato a distaccarsi da loro. Era la ‘figlia degli stranieri’ quando veniva qualche conoscente da fuori paese ed era diventata la ragazzina che a casa faceva cose strane. Così aveva iniziato a isolarsi. Quando aveva iniziato le scuole superiori, che nel suo paese non c’erano e aveva dovuto spostarsi in città con l’autobus, aveva capito che più una città è grande, meno vieni notato. Era ancora la ragazzina straniera, ma non era più l’unica.

Così, appena finita la scuola, aveva deciso di trasferirsi. Prima nella città vicino e, dopo, in una città ancora più grande. E non si era ancora pentita della sua scelta. Stava bene dov’era. Aveva aperto un laboratorio dove dava forma al legno che dipingeva a mano, realizzando piccoli capolavori che la gente iniziava ad apprezzare e a pagare, quando la scovava nei mercati e alle fiere, garantendole un modesto salario. Modesto ma soddisfacente per tutto.

Ora che stava bene, aveva deciso di tornare. Di tornare in quel paese e far vedere a tutti che ce l’aveva fatta, che lei, ‘la straniera’ aveva fatto strada lontano dal paese e lontano da loro.

Infatti non era più tornata fino a quel momento. Fino al momento in cui si sarebbe presa la sua rivincita e avrebbe fatto vedere a tutti che c’era riuscita. Si era fatta una vita e viveva benissimo nonostante loro.

“Mi fa piacere.”

La voce del ragazzo la riportò alla realtà: aveva aperto una porta che c’era sul pianerottolo e si spostò per farla passare. Quando entrò si ritrovò in un piccolo soggiorno. Sembrava un vecchio appartamento. Sembrava… probabilmente lo era. Lui doveva aver dedicato quel piccolo appartamento al B&B e cercato di guadagnarci su qualcosa. Chissà, forse era un ragazzo di città che si era ritrovato a investire un po’ di soldi. Peccato che avesse scelto quel posto.

“Grazie, è molto bello” disse. Lui le indicò la camera da letto e un piccolo angolo cottura a sua disposizione.

“Comunque io sono qui di fronte, di qualunque cosa dovessi aver bisogno…” Indicò la porta al di là del pianerottolo. Catia annuì  e lo ringraziò, ma lui non se ne andò: mise le mani in tasca e, un po’ imbarazzato le disse: “Ce ne hai messo a tornare, eh…”

Catia spalancò gli occhi: aveva pensato che avrebbero potuto riconoscerla, ma pensava che il ragazzo non fosse del paese e quindi non si era preoccupata di lui. Ma lui le aveva detto quella frase… Chi era? Lo osservò, socchiudendo gli occhi. “Sono Mattia”. Mattia chi? Nessuno di quelli della sua classe si chiamava così. Né alle elementari né alle medie. Chi poteva essere? Uno dell’oratorio, forse? La sua perplessità dovette leggersi sul suo visto perché dopo fu il turno del ragazzo di spalancare gli occhi. “Non mi hai riconosciuto!”

Sorpresa, Catia si morse un labbro e scosse la testa alzando le spalle. Mica poteva essere una cosa così grave, no?

Lo sguardo triste di lui, però la fece stare malissimo. “Abbiamo giocato a nascondino nel cortile della corte per anni…”

“Il figlio di Gino, il panettiere!” esclamò Catia, sorridendo per esserselo ricordato. Il piccolo Mattia! Beh, piccolo… Quando il ragazzo annuì continuò : “Scusami, non mi…”

“No, non preoccuparti, non fa niente” mentì e lei lo capì benissimo, infatti non disse nient’altro. Così, nell’aria colma di imbarazzo il ragazzo le fece un cenno avviandosi verso la porta. Prima di uscire però le disse: “Mi fa piacere che sei tornata, comunque”.

Catia si sedette sul piccolo divano e si prese la testa fra le mani: cosa aveva fatto? Perché era tornata? Per fare queste figure?

***

Il sole aveva fatto capolino ma la giornata non era ancora partita del tutto. Catia aveva fatto colazione al bar di Mattia ma aveva trovato Agnese, sua sorella. Se la ricordava come una bambinetta piccolina e invece era diventata una ragazza in carne con una risata grassa e contagiosa. E anche lei sapeva chi fosse Catia. Si raccontarono qualche episodio, ma la ragazza era molto più giovane di lei e infatti non si erano mai veramente frequentate. Ma lei era stata gentile lo stesso, pensò Catia salendo sul furgone e dirigendosi verso il centro cittadino.

Quando aveva sistemato il banco, insieme agli altri ambulanti, era passata un sacco di gente e tutti l’avevano guardata. Iniziava a sentire la pelle intorpidirsi dal nervoso, così decise di non pensarci e si occupò di sistemare le sue cose: i tulipani, le rose e le calle a gambo lungo da un lato, i quadretti in rilievo in mezzo, i cestini vicino e tutto il resto che era caricato sul furgone: aveva lavorato tantissimo negli ultimi mesi per allestire un banco solo di fiori e infatti li aveva quasi odiati. Li aveva odiati come quando da ragazzina odiava quella festa, ma che ora apprezzava tantissimo, quasi da amarla alla follia. Sapeva che avrebbe fatto un figurone con un banco così. Era la sua scusa. Il modo per far sapere del suo riscatto.

Il primo giorno passò così, con tanti curiosi che allungavano il collo e nessuno che si fermava. Un po’ era frustante. Sarebbe stata così tutta la settimana? E se invece del suo riscatto tutti avrebbero assistito al suo fallimento?

Riconobbe qualcuno dei vecchi compaesani, ma nessuno le si avvicinò. Ma forse c’erano anche parecchi dei paesi vicini, come le altre volte. In compenso, vide tantissimi ragazzini aggirarsi per le vie del paese.

“Il primo giorno non si vende quasi niente” disse una donna sulla cinquantina, con il banco accanto al suo.

“Dice?”

“Oh, sì, questo è il quarto anno che vengo e capita sempre così. Il primo giorno essendo un giovedì, la gente lavora. Ci sono anziani e bambini, ma più che altro curiosano. Domani inizierà il tutto. Ci saranno anche gli spettacoli per strada.”

Catia scambiò qualche parola con Maria, come si presentò la donna, senza dirle che conosceva più o meno il programma della festa, ma lasciando che la donna le raccontasse tutto quello che sapeva: probabilmente aveva voglia di chiacchierare e Catia lasciò che lo facesse anche quando le parlò della sua vita. L’importante era che non le chiedesse niente di lei. Venne presto l’ora del pranzo e, in men che non si dica, venne anche l’ora di chiudere.

***

“Ciao Katr… Catia, come va?”

Catia si voltò di colpo quando sentì la voce di Mattia e sbatté un ginocchio contro una scatola che stava caricando sul furgone quando si alzò per andargli incontro.

“Ciao! Tutto bene e… tu?” L’imbarazzo del giorno prima sembrava rimasto solo a lei, tanto il ragazzo le sorrideva, scambiando due parole anche con la signora Maria.

“Dove mangi stasera?” le chiese, dopo, di punto in bianco. Catia aprì la bocca e poi la richiuse: era un invito? Lei aveva pensato di mangiare un panino davanti alla televisione.

“Questa ragazza non ha neanche mangiato a pranzo…” disse la signora Maria a voce alta, ammiccandole quando Catia si girò nella sua direzione. Ma… perché aveva detto così?

“No! E perché? Avresti dovuto dirmelo, ti avrei portato qualcosa!” esclamò Mattia. Catia, sempre più imbarazzata, alzò le spalle. “Domani te lo porto. Quindi, dove mangi stasera?” L’unica cosa che riuscì a fare Catia fu alzare di nuovo le spalle.

“Non puoi digiunare anche a cena.”

“A dir la verità, non era mia intenzione. È che non so ancora dove andare. Non…” Catia si interruppe, per non dire che non conosceva più nessun locale lì nella zona.

“Io conosco un posto carino. Una cosa semplice...”

“Allora dovreste andarci insieme!” esclamò Maria, facendole un cenno del capo in un momento che Mattia non guardava.

Ma la signora Maria non poteva pensare ai fatti suoi? Catia sbuffò un po’, ma dovette ammettere che l’idea non le dispiaceva, imbarazzo a parte. Avrebbe potuto scusarsi per il giorno prima e dimostrargli che era ancora una persona beneducata.

Così accettò.

***

Catia era un po’ nervosa e non sapeva perché: in fin dei conti non era un appuntamento, ma era soltanto una cena. Una cena con un vecchio amico. Amico… Che poi lei di Mattia ricordava poco, visto che aveva due anni meno di lei e quando si è piccoli anche due anni sono una vita intera. Finché si è bambini e si gioca, ancora ancora: non c’è un’età per giocare a nascondino o rincorrersi e il paese non era grandissimo, quindi si ritrovavano tutti insieme, ma poi, crescendo, si formavano i gruppetti, il nascondino diventava stupido ed era facile non frequentarsi più tanto. Poi Catia aveva iniziato a non frequentare più neanche gli altri, ma solo i compagni in città.

Il colpo alla porta la fece trasalire e tornare al presente. “Pronta?” Mattia era, come al solito, sorridente. Indossava un paio di jeans e un maglione, con una giacca leggera. Catia fu contenta di aver inconsapevolmente copiato il suo abbigliamento informale.

Indossò anche lei la giacchetta e uscirono a piedi. Lui le disse che così avrebbero potuto fare il giro nel centro del paese a guardare le decorazioni prima di andare nel locale. Camminarono per un po’ e, nonostante non pensasse fosse una buona idea, Catia gradì tantissimo la passeggiata: le decorazioni si erano fatte molto più competitive degli altri anni e i cittadini erano proprio in gara fra di loro. Mattia le indicava, man mano che li incontravano, i posti che erano cambiati o quelli dove era successo qualcosa quando erano piccoli. Tante cose le tornarono in mente, ricordando emozioni e divertimenti e si scoprì a ridere in più di un’occasione per qualcosa che avevano detto o fatto.

Ma davvero la sua infanzia era stata così divertente? Ma non era vero! Eppure… eppure tutte quelle cose che aveva raccontato Mattia erano successe davvero, pensò mentre lui spiegava di quella volta che Rocco si era rotto la caviglia saltando dalla statua di Garibaldi e sua madre era uscita di casa per picchiarlo con il battipanni. Sorrise mentre accarezzava un bouquet di rose fatte con la stoffa appese a uno dei lampioni della piazza.

“Eccoci qui. L’avevo detto… un posto semplice…” disse Mattia indicando una piccola vetrina. Sembrava imbarazzato anche lui, in quel momento.

“È molto carino” disse Catia, quando lui le tenne aperta la porta e lei entrò nell’ingresso, voleva che non si sentisse in imbarazzo. Non c’era niente di male.

“Hai detto la stessa cosa ieri quando hai visto la stanza al B&B, mi sa di presa in giro” scherzò lui, strizzandole un occhio. Catia rise. Di nuovo.

“Veramente ho detto che era molto bello. Perché è vero: non hai idea di quanti posti indescrivibili ho visto” spiegò, sincera.

Si accomodarono a uno dei tavoli e mentre si toglieva la giacca, la ragazza si guardò intorno: era un posto nuovo, ristrutturato.

“Così ti sposti molto?”

“Mah, da  quando faccio i mercatini e vago per le varie città, cerco sempre una stanza in una pensione o in un B&B, ma non tutti sono come il tuo. Anzi, quasi nessuno. Di solito solo una stanza e il bagno, proprio nient’altro. Ma tante volte le persone sono molto gentili e non è male neanche se il posto non è un granché.”

Stava per aggiungere che mai nessuno era stato gentile come lui, quando un ragazzo della loro età arrivò al loro tavolo esclamando: “Faro! Vieni a cena e non mi dici niente?”

Mattia si alzò e salutò con una stretta di mano e un mezzo abbraccio il nuovo arrivato, che lo aveva chiamato con il suo soprannome da ragazzino, indicandola e dicendogli: “Ti ricordi di Katrina? È venuta per la festa dei fiori”.

Il ragazzo si voltò verso di lei e spalancò gli occhi allungandole la mano. “Katrina! Come ci si può scordare di te? Ci davi la paga a tutti a calcetto!” disse lui, nominando il biliardino.

Oh. Davvero? La più brava? Un altro ricordo le venne alla mente: due ragazzini che la volevano entrambi nella loro squadra e stavano litigando. Uno era Riccardo, della loro classe, mentre l’altro aveva un anno più di loro e si chiamava… cercò di sforzarsi per ricordarsi il nome, forse… “Angelo!” esclamò alla fine, al ristoratore, alzandosi e stringendogli calorosamente la mano. Angelo!

Lui rise. “Le donne si ricordano sempre di me!” disse, sorridendo divertito, all’amico.

“Abbiamo vinto il torneo dell’oratorio!” esclamò Catia, dandogli una pacca sul braccio ridendo. Non si era ricordata di quel premio finché non aveva rivisto Angelo. Sorrise: era stato bello. Quanti anni avevano? Nove? O forse dieci.

“Ho ancora la coppa a casa di mia madre, sulla mensola!” Rise. E rise anche lei.

Angelo si sedette con loro, per scambiare quattro chiacchiere e prese il telefono per mostrare a Catia le foto dei suoi figli. “E tu? Sei sposata? Che hai fatto da quando te ne sei andata?” le chiese.

Catia scosse il capo sfogliando le foto. I due bambini avevano la stessa faccia vispa del padre. “No” disse solamente, ma lanciò un’occhiata a Mattia che giocò con la forchetta. Raccontò di quello che aveva fatto e del suo lavoro, della città e dei mercatini. Non raccontò dell’uomo che non aveva.

“Mia moglie è a casa perché Stefano, il piccolo, sta mettendo i denti, ma di solito è qui anche lei, ti ricordi di Adele? Adele Bianchi?” Catia annuì. “Domani te la mando in piazza, così vi salutate. Sarà contenta di vederti” disse ancora. Davvero? Ad Adele avrebbe fatto piacere? Si ricordava di Adele come di una bambina rotondetta dalla battuta pronta. Due anni meno di lei, forse. O forse di più: non ricordava benissimo.

“Scusate, ora vado. Ci vediamo domani, noi passiamo dalla via vecchia all’ora del giocoliere, a mio figlio piace sempre tantissimo.”

Salutò e li lasciò soli, sparendo in fondo alla sala. “Così non sei sposata…” disse Mattia. Il suo sorriso si sarebbe visto anche dalla luna. Catia non riuscì a non esserne contenta.

“No. E te? Nessuno all’orizzonte?” gli chiese allora lei. Il ragazzo si dichiarò single. Passarono le due ore più veloci nel corso della vita di Catia: aveva raccontato quello che aveva fatto e avevano riso insieme quando aveva descritto aneddoti particolarmente divertenti che le erano capitati nei primi posti di lavoro dove era stata assunta.

Mattia, da canto suo, le raccontò di un diploma al liceo e di una laurea in economia. Di come in pochissimo era diventato un broker finanziario apprezzato ma di come quella vita lo aveva rovinato. Aveva rotto i ponti con la famiglia e si era dato alla bella vita, ma Catia notò che non lo disse chiaramente, ci aveva solo girato intorno. Alla fine, lo stress lo aveva quasi ucciso e aveva perso i contatti con la realtà, oltre a quelli con la famiglia. Raccontò di come fossero morti improvvisamente i suoi genitori e di come questa notizia lo avesse convinto a cambiare modo di vivere: così era tornato lì, aveva consolato sua sorella e aveva ripreso il controllo sulla sua vita. Ora viveva lì, aveva rilevato il bar, sistemato gli appartamenti al primo piano e conosceva gente nuova a ogni Festa dei Fiori, perché ora il paese aveva iniziato a pubblicizzarsi, la festa era molto conosciuta e le stanze si affittavano velocemente.

Quello che invece non disse, Catia lo notò benissimo, fu che rimpiangeva di non aver fatto pace con i suoi genitori. E lei immaginò anche quanto lo facesse soffrire quando, parlando della panetteria del padre, disse che non riusciva ancora a entrare in un panificio senza aspettarsi di trovare suo padre a impastare il pane cantando.

“Mi spiace. Deve essere stato brutto perderli così” gli disse, come se potesse consolarlo. Mattia annuì e lei gli strinse la mano che aveva sul tavolo.

“I tuoi? Si diceva che fossero tornati in Romania…”

Quando il ragazzo cambiò argomento capì che non ne voleva più parlare e gli raccontò che i suoi genitori erano tornati in Romania, sì, ma poi si erano trasferiti in Francia da altri parenti.

La loro serata venne chiusa da un Angelo molto stanco anche se ancora chiacchierone, che li abbracciò calorosamente e disse loro che si sarebbero visti il giorno dopo. I due ragazzi si rincamminarono verso il B&B.

“Grazie, è stata una bellissima serata” lo salutò lei davanti alla porta della sua stanza. Il ragazzo annuì per confermare la cosa.

“Domani ti porto il pranzo in piazza”. Catia rise: quel ragazzo non si fermava mai?

“Ma non devi lavorare al bar?”

“Al bar c’è mia sorella, io aiuto ogni tanto. Il mio lavoro inizia…” Guardò l’orologio “Fra poco”. Come, come, come? Mattia rise ancora al suo sguardo stranito. “Non ho proprio abbandonato la vita di prima. Mi sono tenuto qualcosa di buono. Non ho lo stesso ritmo, ma ho ancora qualche contatto grosso e me la cavo abbastanza bene…” Catia spalancò gli occhi, sorpresa e ammirata.

“Allora buon lavoro.”

Aprì la porta e lui le fece un cenno con il capo.

***

Il sabato pomeriggio la piazza era piena di gente. Gente dei paesi vicini, gente del paese che abitava lontano ma che tornava per la festa dei fiori,  prendendo l’occasione per far visita ai parenti, gente che arrivava incuriosita da quella strana festa per ammirare gli addobbi lungo le strade, applaudire agli artisti di strada, mangiare quello che ora si chiamava street food e rilassarsi. Tantissima gente. Ed era vero: tutti si rilassavano ed erano contenti, si abbracciavano, si salutavano, presentavano nuovi compagni e mostravano orgogliosi i loro figli.

Catia aveva venduto più di quello che si era aspettata e aveva ricevuto la visita di quasi tutti i suoi conoscenti di quindici anni prima: gli insegnanti di scuola materna ed elementare, la vecchia proprietaria dell’alimentari che le aveva venduto la merenda per più di un decennio, la parrucchiera che aveva lasciato il negozio alla figlia e anche tanti ragazzi della sua età.

Il benvenuto era stato caloroso, da parte di tutti. Ognuno le aveva chiesto qualcosa: della sua famiglia, della nonna, dei suoi studi, del suo lavoro. Ed erano rimasti a chiacchierare e ad ascoltare le sue risposte. Era una cosa che, vivendo in città, Catia aveva perso. Nelle grandi città la gente va di fretta e si accorge a malapena di te. Si sentì scaldare il cuore: le era mancato, ma non lo sapeva.

Ma perché se n’era andata? Già perché? Pensò osservando un acrobata sui trampoli e un clown su un monociclo che lanciava petali di fiori.

Una ragazza si fermò a guardare un giglio e lo accarezzò con le dita, senza prenderlo in mano. “È un giglio” le disse, avvicinandosi.

“È molto bello”. La ragazza sorrise e Catia notò quanto fosse giovane: doveva avere tredici anni, forse quattordici. “Mi piace come hai sfumato il colore qui” disse ancora, indicando un punto preciso. Effettivamente piaceva molto anche a lei, il giglio era venuto molto bene e le piaceva che qualcuno potesse notare una dettaglio così piccolo. Le sfumature del bianco non le vedeva mai nessuno!

“Clea! Vieni a vedere questo vestito!” La voce di un’amica fece girare la ragazza che rispose subito e fece per andarsene.

“Aspetta!” la richiamò la donna. Quando la ragazza si girò, le chiese, quasi senza rendersene conto: “Ti chiami Clea?”

Clea inclinò la testa e rispose: “Sì, perché?”

“Ti chiami come mia nonna…” balbettò Catia. La ragazza tornò indietro e le chiese: “Sei… Katrina?” Lei annuì confusa. “Mamma!” gridò ad alta voce verso la strada.

Quando una donna sulla trentina si avvicinò, si voltò verso di lei e il sorriso si aprì sul suo volto. “Katrina! Lo aveva detto Adele che eri tornata! Come stai?” Loredana Dinnisi girò intorno al banco di lavoro e abbracciò calorosamente Catia. “Che bella sorpresa!”

Loredana, più piccola di Catia di qualche anno era ‘famosa’ in paese per aver avuto una bambina a diciotto anni e aver dovuto mollare la scuola. Passando lo sguardo fra lei e la figlia, Catia riconobbe molti tratti della madre nell’adolescente, prima che scappasse via. “Io sto bene, sono qui a vendere fiori” scherzò. “E qui? Ho sentito un sacco di cose…”

La donna si fermò a parlare con lei per tantissimo tempo, più di quello che si riserva a delle conoscenti e loro non è che fossero poi molto amiche già all’epoca, così Catia non riuscì più a resistere e le chiese a bruciapelo: “Perché tua figlia mi conosce?”

Loredana sorrise e sospirò. “E non vuoi sapere perché ha il nome di tua nonna?”

“Sì, mi piacerebbe sapere anche questo, effettivamente…” disse.

“Quando rimasi incinta, il paese iniziò a guardarmi. A guardarmi male. Io… sì, lo sapevo e immaginavo sarebbe successo. Iniziai a uscire meno e ad abbassare lo sguardo quando incontravo qualcuno… mi vergognavo. Le mie amiche non potevano uscire con me perché i loro genitori non mi vedevano di buon occhio e rimasi sola…” Sospirò e prese fiato. “Tua nonna… tua nonna mi fermò un giorno che avevo cambiato marciapiede quando il vecchio farmacista aveva borbottato vedendomi. Lei… lei è stata gentile e nessuno lo era con me, non veramente, come se portassi una colpa molto più pesante di quella di essere rimasta incinta. Tua nonna fu l’unica a dirmi che non avrei dovuto farlo, che non avrei dovuto vergognarmi. Che mio figlio si meritava una madre che camminava a testa alta e non si sentisse in colpa. Quando scoppiai a piangere mi abbracciò e mi disse che avrei dovuto essere la persona che volessi crescesse mio figlio. Da quel momento io non mi sono più vergognata e me ne sono infischiata di tutti. Ho voluto darle il suo nome perché mi ha salvato e quindi, ha salvato lei. Clea, la mia Clea, la sa questa storia, gliela racconto quando qualcosa va male o ha bisogno di sostegno.”

Catia rimase a bocca aperta e sorrise, sentendo gli occhi umidi. Anche lei aveva amato tantissimo la nonna, dopo averla odiata. L’aveva odiata perché era il collegamento con quella vita diversa dagli altri e lei, Catia, non aveva capito quanto fosse importante. Quanto fosse importante essere diversi per poter essere veramente se stessi. Italiani o Rumeni o qualsiasi cosa si volesse essere, l’importante era stare bene con se stessi.

“Tua figlia è molto intelligente ed è attenta ai dettagli: sarà una bella persona. Sono contenta porti il suo nome” disse, sincera. Ed era contentissima che il nome di sua nonna materna camminasse sulla terra per un motivo così nobile. Come lei portava quello della madre di suo padre. Ma che stava nascondendo. Per vergogna. Per… per cosa? Non lo sapeva più.

Avrebbe voluto parlare ancora con la nonna, o forse avrebbe dovuto parlarle quando aveva incominciato a sentirsi ‘diversa’…

“Grazie di avermelo raccontato” disse alla fine, quando si salutarono.

***

Il weekend era stato molto produttivo, Catia era molto soddisfatta quel lunedì. Quasi le dispiaceva dover partire il giorno dopo.

“Domani sera ci sarà una cena con gli altri. I ragazzi dell’oratorio, della piazza, della scuola. Lo facciamo tutti gli anni. Vieni anche tu? Al locale di Angelo.”

Mattia arrivò con un fiore e questa proposta. Lei lo guardò: in pochi giorni si stava facendo più audace e a Catia non dispiaceva per niente.

“Ma gli altri vogliono?” chiese, ancora per il solito dubbio di sentirsi esclusa. Lui dovette capirlo perché le chiese: “Ma pensi che abbiano fatto finta ad accoglierti così? Tu sei stata una loro amica e loro ti ricordano così, qual è il problema adesso?”

Catia non seppe rispondere e alzò le spalle. Era vero. Perché non andarci? “Ok, verrò”.

Mattia allungò una mano e le prese la sua. “E ti andrebbe di andarci insieme?”

La donna annuì. “Perché no?”

***

“E quella volta che Diego ha sbattuto contro il muro il tizio del circo? Ve lo ricordate? Il ragazzino circense che è venuto in terza elementare? Che odioso! Alla fine al povero Diego gli è toccato dargli una lezione…”

Filippo stava raccontando fra una fetta di pizza e un sorso di birra e tutti risero, perché effettivamente era stato divertente vedere quel ragazzino arrogante e presuntuoso venir appeso al muro dal loro compagno.

“E quella volta che Katrina ha risposto in rumeno alla supplente e lei pensava fosse una maledizione? Era così terrorizzata! Avevamo tutti la sufficienza alla fine dell’anno!” Roberta ridacchiò e arricciò il naso in direzione di Catia. Poi scosse la testa. “Scusa! Mi ero scordata: Catia…”

Ma Catia si era sentita chiamare così tante volte Katrina che ormai era tornata una ragazzina. Scosse la testa e sventolò una mano dicendole di non preoccuparsi.

Era contenta di essere andata alla cena. Aver rivisto veramente tutti, soprattutto le amiche più care della sua infanzia, di cui si era scordata il suono della risata e di cui iniziava a vedere i capelli bianchi. E gli altri, i ragazzi… Perché aveva aspettato così tanto? Non erano in tanti a essere rimasti in paese a vivere, ma erano in tanti a tornare per la festa dei fiori, aveva scoperto.

A fine cena, si salutarono tutti calorosamente, scambiandosi numeri e contatti. “E torna anche l’anno prossimo, non fare che sparisci ancora!” Roberta l’aveva stretta e l’aveva baciata affettuosamente sulle guance. “Mi ha fatto così piacere vederti… se passi dalle mie parti, chiamami che ci facciamo quattro chiacchiere.”

Catia quella sera promise a tutti di non nascondersi più, soprattutto a se stessa.

“Non avrei mai pensato che potesse essere così bello…” disse a Mattia mentre tornavano a casa da soli.

Lui annuì e le prese la mano. “La festa dei fiori fa miracoli”. Camminarono in silenzio per tutto il tragitto, accompagnati solo dalla luce della luna.

Quando arrivarono davanti alle rispettive porte, si resero conto in due che sarebbe stata l’ultima sera, l’ultima occasione.

“Catia…” disse lui, tirandole la mano. Lei si avvicinò e gli posò le dita sul petto.

“Mi chiamo Katrina, veramente…” Mattia sorrise e le circondò la vita.

Le loro labbra si sfiorarono e Katrina non pensò più a scappare da quel paese. Non ora che aveva iniziato ad amare la Festa dei Fiori.

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Eccomi qui con un altro contest! Spero che la storia di Katrina vi sia piaciuta, nella sua banalità 😅 e vi lascio la traccia .

Se vi va di farmi sapere cosa ne pensate... un bacio a tutti!!!

traccia

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