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Autore: Sibylla    28/01/2020    4 recensioni
Dal testo
"L'estate del 97 arrivò inaspettata.
Reduce da una primavera dal sapore invernale, la città chiuse gli occhi una domenica notte di fine maggio ancora avvolta in un groviglio di lenzuola, per riaprirli sudata e sconcertata su un afoso lunedì mattina. [...] Col torace gonfio d'aria, del respiro più profondo di cui le fu possibile cibarsi, e il capo pesante come il tronco di sequoia su cui poggiava da ore indolente, si decise finalmente a sollevare lo sguardo. I suoi occhi le rimandarono indietro l'immagine di quelli di lui, vispi e profondi specchi erbosi, velati in superficie da un'ombra difficile da scalfire. E dietro la quale non avrebbe più avuto occasione di scoprire cosa si celasse"
Lui, lei, istantanea di un ingenuo piccolo grande amore giovanile e della sua fine.
-Storia partecipante al contest "Citazioni d'amore" indetto da Asia Dreamcatcher sul forum di Efp.
-Storia partecipante al contest "Il contest degli haiku" indetto da Juriaka sul forum di Efp.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La primavera parte:
pianto tra gli uccelli e lacrime
negli occhi dei pesci


L'estate del 97 arrivò inaspettata.
Reduce da una primavera dal sapore invernale, la città chiuse gli occhi una domenica notte di fine maggio ancora avvolta in un groviglio di lenzuola, per riaprirli sudata e sconcertata su un afoso lunedì mattina.
Distesa sul pavimento in cerca di ristoro dalla canicola straordinariamente pressante, sotto l'egida di un ormai imminente giugno, Nivrea se ne stava immobile, certa che anche solo il più minuscolo gesto avrebbe infranto quel fragile compromesso termico tra la fresca umidità del legno sotto di lei e il sole ticchettante sulla sua pelle. Il solo movimento che si concedeva era, in effetti, quello pigro delle dita tra le pagine del libro abbandonato di fianco, e saltuariamente il ruotare del capo per rinfrescare a turno -prima una e poi l'altra- le guance contro il pavimento.
Con null'altro a tenerle compagnia eccetto i suoi occhi, si divertiva a spiarne il riflesso sullo specchio adagiato al suolo ai suoi piedi. Insignificanti nel colore -un banalissimo castano- quanto espressivi nella forma: grande e tondeggiante, con l'estremità leggermente all'insù che conferiva loro un guizzo orientale meravigliosamente dissonante con i tratti mediterranei del suo volto. Intorno a quegli occhi il viso roseo e florido di una bambina, sorretto dal corpo longilineo di una ventiduenne appena sbocciata.
A chiederlo a chiunque la parte migliore di quel corpo erano le gambe: toniche e perfettamente dritte, tanto da parere disegnate. Vanitose nel loro aspetto atletico nonostante la sedentarietà fosse l'unico sport da lei negli anni praticato con ineccepibile costanza. Dono di madre natura dicevano tutti, e di una malsana abitudine a camminare in punta di piedi aggiungeva lei. Colonne portanti di un busto tutt'altro che stentoreo, comune nella sua semplicità, magro ma squadrato, senza grandi forme ad arricchirlo e con un accenno di scoliosi mai curata.
A chiederlo a lei la parte migliore del suo corpo erano i polsi invece: sottili e delicati, si incantava spesso a ammirarli in uno di quei scarsi momenti di vanesia autostima che la colpivano, coi bracciali ad ondeggiare tintinnanti su e giù lungo la sporgenza ossea del carpo.Talvolta movimenti troppo bruschi le causavano un crepitio d'ossa tutt'altro che rassicurante in corrispondenza dell'articolazione, e allora lei con leggero timore si domandava cosa avrebbe mai fatto se a lungo andare quel crepitio si fosse trasformato in qualcosa di più serio e limitante -un'artrosi magari?- e la sua parte preferita del corpo avrebbe così perso di valore.
Avrebbe dovuto trovarne un'altra? Una fatica in cui, sperava, non doversi mai cimentare.
Un passero planò dolcemente sul davanzale della finestra grezzamente intagliata di fronte a lei, forse alla ricerca di ristoro nell'ombra offertagli dai rami sovrastanti. Il buffo zompettio mitigato dall'eleganza del piumaggio, lucente e scarlatto come le foglie degli aceri nel loro ultimo giorno di vita, un attimo prima di staccarsi e dondolare pigramente verso il terreno. Conosceva quella danza, le era stata compagna negli innumerevoli sgoccioli d'estate trascorsi da che aveva abbandonato la metropoli per trasferirsi nella più silenziosa e verdeggiante periferia.
Un regalo non troppo gradito dei suoi genitori, ma che pazientemente aveva imparato ad apprezzare, riscoprendo dentro di sé un imprevedibile amore per la quiete e la solitudine. Una conquista che le sarebbe tornata parecchio utile da domani, pensò cinicamente.
Un sorriso dal retrogusto amaro le deformò il volto.
Trascorse così alcuni minuti, intenta ad osservare minuziosa e assorta il pavoneggiarsi dell'animale -quasi fosse stato conscio di avere spettatori- finché dalle sue spalle il rumore di passi trascinati lungo la scaletta di legno non giunse ad infrangere il silenzio di quel primo pomeriggio. 
Il passero si voltò di scatto arricciando il becco, poi in un guizzo vaporoso di piume volò via, disturbato forse da quell'intrusione.
Nel guardarlo allontanarsi, per qualche secondo Nivrea assaporò, quasi profeticamente, il senso di curioso abbandono tipico di quando si perde qualcosa di estremamente bello e vicino, ma che non si è mai davvero posseduto.
«Eccoti»
Attese che anche l'eco dell'ultimo passo si fosse attutito prima di voltare il capo, senza però sollevare lo sguardo.
Dinanzi a lei l'immagine di due piedi ben custoditi in un paio di scarpe da tennis usurate dal tempo. Macchie di terriccio campeggiavano tronfie su quella che un tempo doveva essere stata una tomaia perfettamente bianca e decisamente poco adatta alla lasciva noncuranza del proprietario. Immaginò le sue dita all'interno intente a tamburellare su e giù per lo spazio angusto offertogli dalla calzatura consunta, in quel buffo balletto di accavallamenti tra alluce e melluce che prendeva forma quando l'impazienza iniziava a pervaderlo, e che più volte a piedi nudi aveva potuto minuziosamente studiare.
Sorrise all'idea di quella danza e l'amarezza di qualche istante prima le scivolò dalle labbra, traghettata lontano da una goccia di sudore
a favore di un più tenero sentimento,
«Eccomi»
Col torace gonfio d'aria, del respiro più profondo di cui le fu possibile cibarsi, e il capo pesante come il tronco di sequoia su cui poggiava da ore indolente, si decise finalmente a sollevare lo sguardo. I suoi occhi le rimandarono indietro l'immagine di quelli di lui, vispi e profondi specchi erbosi, velati in superficie da un'ombra difficile da scalfire. E dietro la quale non avrebbe più avuto occasione di scoprire cosa si celasse, si disse.
Il sorriso invece era un enigma ormai svelato. Raccontava di sogni ambiziosi e viaggi intorno al mondo e, dietro la patina giallastra di sigarette scoperte troppo presto, si nascondeva il fascino goliardico e impertinente di un animo giovane e irrequieto.
Incentivato dall'ettenzione finalmente rivoltagli, le si avvicinò a passi lenti, finché la sua testa non gli finì perfettamente incorniciata tra le gambe.
Si accovacciò dunque sui talloni, abbassandosi fino a far coincidere il proprio capo con il suo nel senso opposto, di modo che mento e fronte flirtassero rispettivamente l'uno con l'altra.
Le labbra invece, quelle erano perfettamente allineate.
Esitò qualche istante prima di catturargliele. L'alito caldo che gli si sprigionava dalla bocca era quasi una fresca brezza in confronto alla morsa di calura che li circondava. Ogni respiro sulla sua pelle un infrangersi d'onda contro gli scogli del suo naso, delle ciglia, degli zigomi... con le lentiggini scompigliate dalla risacca ancora odorosa di dentifricio.
Una mano di lui le si posò leggera sull'incavo del collo, con i polpastrelli presi ad amoreggiare con la sua pelle lucente di sudore.
Un brivido la pervase, come sempre accadeva quando lui le stava troppo vicino, traversandole l'intero corpo e oltre, invadendo quello di lui.
Come se non aspettasse altro che percepire quel tremolio sotto le dita, solo allora lui azzerò la distanza tra loro posandole un bacio sulle labbra.
Un bacio poco casto, come tutto di lui.
Il tocco inizialmente delicato di pelli accaldate arricchito ben presto della nota ruvida della lingua: prima a tamburellarle sulle labbra carnose fino a farle schiudere, per poi insinuarvisi prepotentemente incatenando anche quella di lei in una stretta turgida.
Il poco ossigeno che i loro nasi erano capaci di rubare all'aria lì intorno veniva generosamente spartito tra loro, con correnti che, raggiuntele all'interno, erano poi sequestrate per brevi interminabili attimi dalle lingue nella loro folle danza, prima di poter scivolare via, libere e indisturbate verso i polmoni.
E intanto la mano di lui gradualmente abbandonava il collo, facendosi strada verso i suoi seni.  Giù fin dove il vacillante equilibrio dei suoi talloni gli consentì. Quella lenta discesa era come colata di lava lungo il pendio delle sue curve, una cinta di fuoco indomita, alimentata dal tocco di lui centimetro dopo centimetro. E di fuoco erano le budella e la pelle e il petto, scudiero impotente sotto i colpi di un cuore sempre più agguerrito e infiammato di passione. Di fuoco era lui. Bellissimo e indomito, capace di incantarti e inchiodarti con lo sguardo, distraendoti il tempo sufficiente a venirne lambita tutt'intorno senza più possibilità di scampo. In grado di accendersi e accenderti in un istante, di attecchire anche alla più brulla delle terre e, privandoti di ossigeno, gradualmente lasciarti esanime, consumandosi con te.
Per poi scomparire.
«Ci rivedremo. Tornerò, promesso»
La frase gli uscì perentoria, nonostante il tono flebile e ansante.
«Ti amo»
Le labbra ancora vicine, quasi a sfiorarsi... che quel tiamo che lei le aveva appena donato forse lui era stato in grado di sentirselo sillabare sulla pelle, come marchiato a fuoco, ancor prima che il suono raggiungesse le sue orecchie.
«Lo so»
«Come lo sai?»
«Lo so»
Non c'era stupore negli occhi di Nivrea, né disappunto.
Sebbene quel Ti amo arrivasse inedito e titubante oggi per la prima volta, vestito del cliché dell'impellenza che precede una partenza. E di cliché era altresì ornata la risposta di lui, degna di un Harrison Ford dei tempi di quel secondo Star Wars, prototipo d'uomo perfettamente allineato con ciò che lui era -o quantomeno desiderava fortemente essere.
Eppure nel suo sguardo per la prima volta non lesse sfrontatezza o irriverenza, bensì reale consapevolezza, caustica sincerità... e profonda tenerezza. Quello sguardo e un sorriso furono l'ultimo regalo che le concesse, prima di voltarsi e sparire, un gradino alla volta, dalla sua vista. 
E dalla sua vita.

Non andò al mare quel giorno Nivrea, né al corso di fotografia, né in altri posti.
Trascorse invece il resto pomeriggio così come l'aveva trascorso sino a quel momento, cristallizzata nella loro -la sua- casa sull'albero, come un uccello saldamente appollaiato al proprio ramo preferito per timore che qualcuno possa abbatterlo approfittando di un breve volo. 
Come lo sai?
Lo so.
Lo sapeva. Lo sapeva davvero, anche se lei non glielo aveva mai ancora detto.
Perché lui le aveva mentito e ne erano entrambi consapevoli. Così come entrambi erano consapevoli che a quella bugia nessuno dei due aveva creduto. Era un segreto il loro che custodivano nel cuore, celato da false promesse e ipocrite attese.
Non sarebbe tornato, lei lo sapeva.
Non l'avrebbe mai nemmeno chiamata, sapeva anche questo.
Perché lui era un frutto ancora acerbo. Irrequieto e incapace di mettere radici, tanto da dover sfruttare quelle di un albero per poter perpetrare l'illusione di saper erigere un progetto con solide fondamenta in cui trovare quiete. In cui trovare casa.
Era semplicemente incapace di amare
-ancora?-.
Ma lei lo aveva amato invece e lui lo sapeva, perchè aveva scorto quella sua debolezza ma l'aveva accolto ugualmente, curandosene come un seme su cui riversare premure e amore e da cui ricevere in cambio solo le timide e riconoscenti carezze di un germoglio che un domani sarebbe diventato anch'esso albero, ma di cui non sarebbe stata lei a coglierne il frutto. Lui lo sapeva, perchè lei lo aveva lasciato andare via fingendo di credergli pur conoscendo la verità, salutandolo senza gravarne la libertà col fardello del senso di colpa o di una scenata, in fondo, fine a sè stessa.
Da lassù, con gli occhi ben protetti dal riserbo delle solide e sospese mura lignee, Nivrea tendeva l'orecchio ad ogni rumore, e per ogni auto che passava immaginava fosse la sua. E ne passarono parecchie, e parecchie volte così gli disse addio.
E di volta in volta articolarlo prese a suonare meno difficile, il cuore cominciò a farsi via via più leggero e le lacrime si fecero sempre meno copiose.
Finché ne versò soltanto una. 
Finché non ne versò più. 


N.d.A.
~Questa storia partecipa al contest "Citazioni d'amore" indetto da Asia Dreamcatcher sul forum di Efp, col pacchetto n°
5: Citazione da Joe Black, stagione estate, elemento fuoco.
~Questa storia partecipa al contest "Il contest degli haiku" indetto da Juriaka sul forum di Efp col pacchetto n° 3: t
ematica generale partenza, luogo casa sull'albero, prompt scommessa / promessa,
s
tagione estate.





  
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