pianto tra gli uccelli e lacrime
negli occhi dei pesci
L'estate
del 97 arrivò inaspettata.
Reduce da una primavera dal sapore
invernale, la città chiuse gli occhi una domenica notte di
fine
maggio ancora avvolta in un groviglio di lenzuola, per riaprirli
sudata e sconcertata su un afoso lunedì mattina.
Distesa sul
pavimento in cerca di ristoro dalla canicola straordinariamente
pressante, sotto l'egida di un ormai imminente giugno, Nivrea se ne
stava immobile, certa che anche solo il più minuscolo gesto
avrebbe
infranto quel fragile compromesso termico tra la fresca
umidità del
legno sotto di lei e il sole ticchettante sulla sua pelle. Il solo
movimento che si concedeva era, in effetti, quello pigro delle dita
tra le pagine del libro abbandonato di fianco, e saltuariamente il
ruotare del capo per rinfrescare a turno -prima una e poi l'altra- le
guance contro il pavimento.
Con null'altro a tenerle compagnia
eccetto i suoi occhi, si divertiva a spiarne il riflesso sullo
specchio adagiato al suolo ai suoi piedi. Insignificanti nel colore
-un banalissimo castano- quanto espressivi nella forma: grande e
tondeggiante, con l'estremità leggermente
all'insù che conferiva
loro un guizzo orientale meravigliosamente dissonante con i tratti
mediterranei del suo volto. Intorno a quegli occhi il viso roseo e
florido di una bambina, sorretto dal corpo longilineo di una
ventiduenne
appena sbocciata.
A chiederlo a chiunque la parte migliore di
quel corpo erano le gambe: toniche e perfettamente dritte, tanto da
parere disegnate. Vanitose nel loro aspetto atletico nonostante la
sedentarietà fosse l'unico sport da lei negli anni praticato
con
ineccepibile costanza. Dono di madre natura dicevano tutti, e di una
malsana abitudine a camminare in punta di piedi aggiungeva lei.
Colonne portanti di un busto tutt'altro che stentoreo, comune nella
sua semplicità, magro ma squadrato, senza grandi forme ad
arricchirlo e con un accenno di scoliosi mai curata.
A chiederlo a
lei la parte migliore del suo corpo erano i polsi invece: sottili e
delicati, si incantava spesso a ammirarli in uno di quei scarsi
momenti di vanesia autostima che la colpivano, coi bracciali ad
ondeggiare tintinnanti su e giù lungo la sporgenza ossea del
carpo.Talvolta movimenti troppo bruschi le causavano un crepitio
d'ossa tutt'altro che rassicurante in corrispondenza
dell'articolazione, e allora lei con leggero timore si domandava cosa
avrebbe mai fatto se a lungo andare quel crepitio si fosse
trasformato in qualcosa di più serio e limitante -un'artrosi
magari?- e la sua parte preferita del corpo avrebbe così
perso di
valore.
Avrebbe dovuto trovarne un'altra? Una fatica in cui,
sperava, non doversi mai cimentare.
Un passero planò dolcemente
sul davanzale della finestra grezzamente intagliata di fronte a lei,
forse alla ricerca di ristoro nell'ombra offertagli dai rami
sovrastanti. Il buffo zompettio mitigato dall'eleganza del piumaggio,
lucente e scarlatto come le foglie degli aceri nel loro ultimo giorno
di vita, un attimo prima di staccarsi e dondolare pigramente verso il
terreno. Conosceva quella danza, le era stata compagna negli
innumerevoli sgoccioli d'estate trascorsi da che aveva abbandonato la
metropoli per trasferirsi nella più silenziosa e
verdeggiante
periferia.
Un regalo non troppo gradito dei suoi genitori, ma che
pazientemente aveva imparato ad apprezzare, riscoprendo dentro di
sé
un imprevedibile amore per la quiete e la solitudine. Una conquista
che le sarebbe tornata parecchio utile da domani, pensò
cinicamente.
Un sorriso dal retrogusto amaro le deformò il volto.
Trascorse
così alcuni minuti, intenta ad osservare minuziosa e assorta
il
pavoneggiarsi dell'animale -quasi fosse stato conscio di avere
spettatori- finché dalle sue spalle il rumore di passi
trascinati
lungo la scaletta di legno non giunse ad infrangere il silenzio di
quel primo pomeriggio.
Il passero si voltò di scatto
arricciando il becco, poi in un guizzo vaporoso di piume
volò via,
disturbato forse da quell'intrusione.
Nel guardarlo allontanarsi,
per qualche secondo Nivrea assaporò, quasi profeticamente,
il senso
di curioso abbandono tipico di quando si perde qualcosa di
estremamente bello e vicino, ma che non si è mai davvero
posseduto.
«Eccoti»
Attese che anche l'eco dell'ultimo passo si fosse
attutito prima di voltare il capo, senza però sollevare lo
sguardo.
Dinanzi a lei l'immagine di due piedi ben custoditi in un
paio di scarpe da tennis usurate dal tempo. Macchie di terriccio
campeggiavano tronfie su quella che un tempo doveva essere stata una
tomaia perfettamente bianca e decisamente poco adatta alla lasciva
noncuranza del proprietario. Immaginò le sue dita
all'interno
intente a tamburellare su e giù per lo spazio angusto
offertogli
dalla calzatura consunta, in quel buffo balletto di accavallamenti
tra alluce e melluce che prendeva forma quando l'impazienza iniziava
a pervaderlo, e che più volte a piedi nudi aveva potuto
minuziosamente studiare.
Sorrise all'idea di quella danza e
l'amarezza di qualche istante prima le scivolò dalle labbra,
traghettata lontano da una goccia di
sudore a favore
di un più tenero sentimento,
«Eccomi»
Col torace gonfio d'aria, del respiro più
profondo di cui le fu possibile cibarsi, e il capo pesante come il
tronco di sequoia su cui poggiava da ore indolente, si decise
finalmente a sollevare lo sguardo. I suoi occhi le rimandarono
indietro l'immagine di quelli di lui, vispi e profondi specchi
erbosi, velati in superficie da un'ombra difficile da scalfire. E
dietro la quale non avrebbe più avuto occasione di scoprire
cosa si
celasse, si disse.
Il sorriso invece era un enigma ormai svelato.
Raccontava di sogni ambiziosi e viaggi intorno al mondo e, dietro la
patina giallastra di sigarette scoperte troppo presto, si nascondeva
il fascino goliardico e impertinente di un animo giovane e
irrequieto.
Incentivato dall'ettenzione finalmente rivoltagli, le
si avvicinò a passi lenti, finché la sua testa
non gli finì
perfettamente incorniciata tra le gambe.
Si accovacciò
dunque sui talloni, abbassandosi fino a far coincidere il proprio
capo con il suo nel senso opposto, di modo che mento e fronte
flirtassero rispettivamente l'uno con l'altra.
Le labbra invece,
quelle erano perfettamente allineate.
Esitò qualche istante prima
di catturargliele. L'alito caldo che gli si sprigionava dalla
bocca
era quasi una fresca brezza in confronto alla morsa di calura che li
circondava. Ogni respiro sulla sua pelle un infrangersi d'onda
contro gli scogli del suo naso, delle ciglia, degli zigomi... con le
lentiggini scompigliate dalla risacca ancora odorosa di dentifricio.
Una mano di lui le si posò leggera sull'incavo del collo,
con i
polpastrelli presi ad amoreggiare con la sua pelle lucente di sudore.
Un brivido la pervase, come sempre accadeva quando lui le stava
troppo vicino, traversandole l'intero corpo e oltre, invadendo quello
di lui.
Come se non aspettasse altro che percepire quel tremolio
sotto le dita, solo allora lui azzerò la distanza tra loro
posandole
un bacio sulle labbra.
Un bacio poco casto, come tutto di lui.
Il tocco inizialmente delicato di pelli accaldate arricchito ben
presto della nota ruvida della lingua: prima a tamburellarle sulle
labbra carnose fino a farle schiudere, per poi insinuarvisi
prepotentemente incatenando anche quella di lei in una stretta
turgida.
Il poco ossigeno che i loro nasi erano capaci di rubare
all'aria lì intorno veniva generosamente spartito tra loro,
con
correnti che, raggiuntele all'interno, erano poi sequestrate per
brevi interminabili attimi dalle lingue nella loro folle danza, prima
di poter scivolare via, libere e indisturbate verso i polmoni.
E
intanto la mano di lui gradualmente abbandonava il collo, facendosi
strada verso i suoi seni. Giù fin dove il
vacillante equilibrio dei
suoi talloni gli consentì. Quella lenta discesa era come
colata
di lava lungo il pendio delle sue curve, una cinta di fuoco indomita,
alimentata dal tocco di lui centimetro dopo centimetro. E di
fuoco erano le budella e la pelle e il petto, scudiero impotente
sotto i colpi di un cuore sempre più agguerrito e infiammato
di
passione. Di fuoco era lui. Bellissimo e indomito, capace di
incantarti e inchiodarti con lo sguardo, distraendoti il tempo
sufficiente a venirne lambita tutt'intorno senza più
possibilità di
scampo. In grado di accendersi e accenderti in un istante, di
attecchire anche alla più brulla delle terre e, privandoti
di
ossigeno, gradualmente lasciarti esanime, consumandosi con te.
Per
poi scomparire.
«Ci rivedremo. Tornerò, promesso»
La frase
gli uscì perentoria, nonostante il tono flebile e ansante.
«Ti
amo»
Le labbra ancora vicine, quasi a sfiorarsi... che quel
tiamo che lei le aveva appena donato forse lui era
stato in grado di sentirselo sillabare
sulla pelle, come marchiato a fuoco, ancor prima che il suono
raggiungesse le sue orecchie.
«Lo so»
«Come lo sai?»
«Lo
so»
Non c'era stupore negli occhi di Nivrea, né
disappunto.
Sebbene quel Ti amo arrivasse
inedito e titubante oggi per la prima volta, vestito del
cliché dell'impellenza
che precede una partenza. E di cliché era altresì
ornata la
risposta di lui, degna di un Harrison Ford dei tempi di quel secondo
Star Wars, prototipo d'uomo perfettamente allineato con ciò
che lui
era -o quantomeno desiderava fortemente essere.
Eppure
nel suo sguardo per la prima volta non lesse sfrontatezza o
irriverenza, bensì reale consapevolezza, caustica
sincerità... e
profonda tenerezza. Quello sguardo e un sorriso furono l'ultimo
regalo che le concesse, prima di voltarsi e sparire, un gradino alla
volta, dalla sua vista.
E dalla sua vita.
Non andò al mare
quel giorno Nivrea, né al corso di fotografia, né
in altri posti.
Trascorse invece il resto pomeriggio così come l'aveva
trascorso
sino a quel momento, cristallizzata nella loro -la sua-
casa
sull'albero, come un uccello saldamente appollaiato al proprio ramo
preferito per timore che qualcuno possa abbatterlo approfittando di
un breve volo.
Come lo sai?
Lo so.
Lo sapeva. Lo sapeva davvero, anche se lei non glielo aveva mai
ancora detto.
Perché lui le aveva mentito e ne erano entrambi
consapevoli. Così come entrambi erano consapevoli che a
quella bugia
nessuno dei due aveva creduto. Era un segreto il loro che
custodivano nel cuore, celato da false promesse e ipocrite attese.
Non sarebbe tornato, lei lo sapeva.
Non l'avrebbe mai
nemmeno chiamata, sapeva anche questo.
Perché lui era un frutto ancora
acerbo. Irrequieto e incapace di mettere radici, tanto da dover
sfruttare quelle di un albero per poter perpetrare l'illusione di
saper erigere un progetto con solide fondamenta in cui trovare
quiete. In cui trovare casa.
Era semplicemente incapace di amare -ancora?-.
Ma
lei lo aveva amato invece e lui lo sapeva, perchè aveva
scorto quella sua debolezza ma l'aveva accolto ugualmente, curandosene
come un seme su cui riversare premure e amore e da cui ricevere in
cambio solo le timide e riconoscenti carezze di un germoglio che un
domani sarebbe diventato anch'esso
albero, ma di cui non sarebbe stata lei
a coglierne il frutto. Lui lo sapeva, perchè lei lo aveva
lasciato andare via fingendo di credergli pur
conoscendo la verità,
salutandolo senza gravarne la libertà col fardello del senso
di colpa o di una scenata, in fondo, fine a sè stessa.
Da lassù, con gli occhi ben protetti dal
riserbo delle solide e sospese mura lignee, Nivrea tendeva
l'orecchio
ad ogni rumore, e per ogni auto che passava immaginava fosse la sua.
E ne passarono parecchie, e parecchie volte così gli disse
addio.
E
di volta in volta articolarlo prese a suonare meno difficile, il
cuore cominciò a farsi via via più leggero e le
lacrime si
fecero sempre meno copiose.
Finché ne versò soltanto una.
Finché non ne versò più.
N.d.A.
~Questa
storia partecipa al contest "Citazioni d'amore" indetto da
Asia Dreamcatcher sul forum di Efp, col pacchetto n° 5:
Citazione da
Joe Black,
stagione estate,
elemento fuoco.
~Questa
storia partecipa al contest "Il contest degli haiku"
indetto da Juriaka sul forum di Efp col pacchetto n° 3: tematica
generale partenza,
luogo
casa
sull'albero,
prompt scommessa
/ promessa,
stagione
estate.