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Autore: Carme93    29/01/2020    3 recensioni
Novembre 1918. Il giovane maggiore Gabriele Aricò viene ferito sul Piave e si risveglia nell'ospedale militare di Treviso.
Sofia Visentin, giovane infermiera, preoccupata per la sorte della sua famiglia, nasconde un segreto che potrebbe farle perdere il lavoro. E se il maggiore scoprisse il suo segreto e decidesse di aiutarla? L'Europa è in macerie, ma Gabriele e Sofia sentono rifiorire la vita nei loro cuori.
[Questa storia si è classificata quinta al contest "Scritto tra le note" indetto da _Freya Crescent_ sul forum di EFP]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Sillabario galeotto
 
 
 




 
Aprì gli occhi, ma fu costretto a serrare nuovamente le palpebre per la luce. Era soffusa, ma non la tollerava ugualmente. Si prese qualche secondo e riprovò più lentamente. Dovette richiuderli nuovamente, ma testardamente vi riuscì al terzo tentativo.
Percepì di essere sdraiato su un letto duro - mai quanto le brandine che avevano al campo o, peggio, mai quanto la trincea -, ma le lenzuola sembravano pulite. L’odore era diverso, ma ugualmente pregnante.
Non si mosse, ma ruotò leggermente il capo da un lato e dall’altro: in trincea aveva imparato a stare ben attento. Si rese conto che quello stato di perenne attesa, era diventato parte di lui: nonostante si rendesse conto di essere in un ospedale militare e una parte del suo cervello gli consigliasse di ringraziare il Signore di essere ancora vivo, non riusciva a scrollarsi di dosso quell’ansia come se avessero dovuto attaccarlo da un momento all’altro.
«Si è svegliato!» trillò una voce allegra. «Allora come si chiama, tenente? Ho visto la sua divisa quando l’hanno portata qui».
Strinse gli occhi in risposta alla fitta alla testa provocata dalla voce acuta di quell’infermiera. Le lanciò un’occhiataccia e serrò la mascella. «Non sono tenente» sbottò tentando di mettersi a sedere, ma ella lo bloccò immediatamente borbottando qualcosa sugli ordini del ‘signor dottore’. «Sono stato nominato maggiore del Regio Esercito subito dopo la prima battaglia del Piave» sibilò altezzosamente, senza sapere veramente perché il titolo gli importasse così tanto all’improvviso.
«A me sa tanto di un ragazzino viziato» borbottò la donna a mezza voce.
«Come scusi?» ribatté egli incredulo. L’aspro rimbrotto salitogli alla bocca non venne mai pronunciato a causa del sopraggiungere del medico.
«Maggiore Aricò, vedo con piacere che si è svegliato. Sono il sottotenente Corsari, responsabile dell’ospedale militare di Treviso».
Il maggiore annuì seccamente, costringendosi a distogliere gli occhi da quell’infermiera vestita di bianco ma che sembrava avere l’animo di un diavolo visto le parole pronunciate fino a quel momento.
«Un maggiore?» replicò sorpresa l’infermiera.
Il medico parlò solamente a conclusione della visita. «La ferita fortunatamente non si è infettata. Vedrà, guarirà bene».
«La ringrazio, sottotenente» biascicò il maggiore Aricò, che sentiva più salda la voce dopo aver bevuto. Il sottotenente si congedò, lasciandolo alle cure dell’infermiera chiacchierona.
«Come fa a essere un maggiore? Scommetto che non ha nemmeno diciotto anni!».
«Voi siete una grande maleducata» replicò il maggiore. «E per vostra informazione, compirò venti anni in primavera».
«Ciò vuol dire che ne ha solo diciannove al momento» ribatté superbamente l’infermiera.
«Voi non ne avete nemmeno quindici» sbuffò alterato il maggiore.
«Ne ho diciotto, invece».
Il maggiore la fissò di sottecchi, mentre gli medicava la ferita: effettivamente era giovane, indipendentemente dall’età reale, quasi fanciullesca: i tratti infantili erano ancora ben distinguibili sul suo volto e le gote arrossate apparivano quelle di una bambina che aveva appena corso nei prati. E aveva anche lo stesso atteggiamento di una bambina!
«Non ho mai visto un maggiore così giovane» insisté la ragazza.
«Sono stato nominato sul campo. Il generale ha voluto premiare la mia strenua condotta e…».
«Era l’unico» lo interruppe acidamente la ragazza.
«Prego?».
«Gli altri ufficiali saranno morti tutti. Solo Dio sa come sta andando avanti il nostro Regio Esercito. Lei sicuramente è di buona famiglia, è colto, no? Così ha avuto le sue prime medagliette senza sapere nulla di tattica militare, mentre i veri soldati sono morti senza lo straccio di un riconoscimento per una guerra che non hanno nemmeno voluto».
Il giovane maggiore la fissò a occhi sgranati, troppo basito per poter replicare a tono. Lei, comunque, non gliene diede modo, allontanandosi subito come se il paziente avesse la peste e non un buco nel fianco causato da un’arma da fuoco.
Il maggiore Aricò sospirò e si lasciò andare sul cuscino: non si aspettava che una fanciulla – una donna! – gli sputasse in faccia quelle verità. Perché erano verità. Per quanto avrebbe voluto biasimarla, accusarla di vilipendio alla Corona, era tutto vero: lui, Gabriele Aricò, non era altro che uno dei ragazzi del ’99 che aveva osservato nella bambagia della sua città gli eventi bellici per quasi quattro anni e che, improvvisamente, fresco del suo diploma di liceo classico, con la bocca piena di belle parole e sentenze sull’operato di re e generali, era dovuto partire per servire la Patria, senza nemmeno sapere da dove iniziare a tenere in mano un’arma. Lui che aveva odiato la caccia fin da fanciullo, lui che aveva biasimato il padre proprio perché la caccia era il suo passatempo preferito.
In preda a quei pensieri, cadde in un sonno agitato e solo ore dopo l’infermiera riapparve al suo capezzale. Ormai lo stanzone dell’ospedale era in penombra, segno che la notte doveva essere calata, e delle luci fredde, che davano un aspetto spettrale insieme alle urla di alcuni feriti, lo illuminavo fiocamente. Il medico non si era più fatto vedere e accolse favorevolmente l’arrivo dell’infermiera sebbene fosse tanto indisponente.
Storse il naso all’odore di medicinale e anestetizzanti che ella usò per il soldato accanto.
 
«Il suo nobile naso si sente offeso, signor maggiore?».
 
Indisponente, assolutamente!
Le ferite, effettivamente, emanavano un lezzo opprimente e nauseante per chi non era abituato, ma non per chi aveva combattuto ed era stato costretto a dormire tra i cadaveri. E nuovi feriti arrivavano a ogni ora, sebbene fossero diminuiti dall’inizio della guerra e dicessero che sarebbe finita presto, che vi sarebbe stata la pace. Si era svegliato da poche ore, ma era già consapevole che i loro lamenti costanti l’avrebbero accompagnato a lungo. E ancora non aveva reso grazie al Signore per averlo salvato, ma non trovava le forze di congiungere le mani come la madre gli aveva insegnato da bambino, come migliaia di volte aveva fatto nella chiesetta della sua infanzia: non era più innocente.
«Non risponde? Una plebea non merita la sua attenzione?» lo provocò ancora l’infermiera.
Ma da dove era uscita quella ragazza? Non ne aveva mai veduta una così, nemmeno Maria che giocava con lui e gli altri maschi da bambini era in quel modo, ma non più da quando avevano iniziato il ginnasio. Non si rivolgeva con tanta sfacciataggine agli uomini, specialmente se non aveva confidenza!
Il maggiore fece per mettersi seduto, ma non fu una buona idea e dovette tornare a sdraiarsi.
 
«Vuole andare a mostrare ancora il suo strenuo coraggio?» lo provocò ella.
Il giovane strinse con forza le coperta con i pugni e sbottò, tentando di mantenere la voce bassa: «Voi siete una cafona, se foste semplicemente plebea non sarebbe un problema».
La giovane gonfiò le guance, apparendo in tutto e per tutto una bambina capricciosa. Non fiatò, ma gli voltò le spalle e fece per andarsene.
«La mia cena» la richiamò il maggiore.
«Se la vada a prendere da solo».
«Tornate immediatamente qui, se non volete che vi faccia licenziare».
La ragazza a denti stretti obbedì, ma, per tutto il tempo che lo aiutò a mangiare, lo guardò male. Il maggiore ricambiò pienamente.
 
 


 
*
 
 



«Signorina, allora, si sbrighi, su» la esortò una suora.
La ragazza sospirò raccogliendo i capelli in quell’odiosa cuffia bianca e si preparò a iniziare una nuova giornata di lavoro.
«Signorina» la chiamò il sottotenente medico Corsari – là dentro tenevano tutti così tanto a quei maledetti titoli nonostante la morte, la follia, il dolore incommensurabile negli occhi di chi aveva perso tutto, gli occhi vacui dei mutilati, le urla strazianti dei feriti, i morti… quanti arrivavano lì dentro con ferite orribili e alcuni medici non si sforzavano nemmeno di guarirli ma li facevano benedire dai preti! Il suo cuore non avrebbe retto ancora a lungo. Non avrebbe retto ancora al tormentoso pensiero di poter vedere su uno di quei letti a marcire senza la minima carità suo padre e i suoi fratelli, ora da qualche parte sul monte Grappa. - «Signorina Visentin! Che fa, s’incanta? Le ho detto ripetutamente che qui non c’è posto per le fantasticherie».
«Sì, signore».
Corsari scosse la testa e le ordinò seccamente: «Mi prenda la tintura di iodio e si sbrighi».
Ella annuì e corse al ripostiglio dei medicinali, ma qui si bloccò. Odiava essere mandata lì. Poteva cambiare le medicazioni, dare da mangiare ai degenti, ottemperare persino a compiti ancora più sgradevoli, ma l’armadietto dei medicinali era un vero incubo. Prese un bel respiro e mise le mani tra le varie ampolle, garze e medicamenti vari. Lavorava in quell’ospedale militare abbastanza da poter riconoscere la tintura di iodio dall’aspetto e soprattutto dall’odore. Prese il flacone che le parve giusto e lo odorò. Storse il naso: era quello. Richiuse il ripostiglio a chiave come da regolamento e si affrettò a raggiungere Corsari, poco paziente di natura, e a consegnargli quanto richiesto per poi seguirlo nella visita dei pazienti.
Naturalmente ignorò quel bel bamboccio del maggiore Aricò, che si era risvegliato il giorno prima – aveva visto tanti giovani morire sotto i suoi occhi, perché mai il Signore aveva   salvato un ragazzo ricco che aveva sempre avuto tutto dalla vita? Senza farsi vedere da Corsari si fece il segno della croce, chiedendo perdono per quei suoi pensieri sacrileghi: lei non era nessuno per mettere il dubbio l’operato dell’Altissimo. Eppure vivere a stretto contatto con le vittime di quella infinita guerra, che da anni imperversava in Europa, a volte - e di ciò si vergognava e spaventava al medesimo tempo - la portava a rimuginare su quelle cose.
E poi avrebbe dovuto smettere di pensare a quello sbruffone, “Io sono maggiore del Regio Esercito”, ma per favore! Doveva toglierselo dalla testa, perché il solo pensarlo la innervosiva parecchio.   
Seguì per tutta la mattina Corsari, talvolta con l’aggiunta di qualche suora, tra le varie corsie, e l’arrivo di un paio di feriti le evitò di avvicinarsi al maggiore, d’altronde lui era considerato fuori pericolo ormai, sulla via della guarigione, e poteva occuparsi di lui anche qualche giovane ufficiale medico e non Corsari.
Riuscì a evitarlo per tutto il giorno e questo la rilassò parecchio. La sera tornò a casa, ma chissà come mai il suo ricordo ritornò prepotente alla mente quando rivide la stanzetta in affitto in cui si erano ritrovate a vivere lei e la madre e un fratellino ancora, per fortuna, ben lontano dall’avere l’età per essere arruolato. E, con l’aiuto del Signore, la guerra sarebbe finita prima. A quanto sembrava la battaglia di Vittorio Veneto era stata decisiva e la situazione stava per volgere al meglio, sebbene in casa loro non sembrasse: sua madre era la solita donna energica e vivace soltanto in presenza del figlio più piccolo, in sua assenza sedeva con occhi vuoti vicino al braciere, desolatamente spento, come un guscio vuoto. E quante donne la guerra aveva ridotto in quelle condizioni?
Sofia Visentin andò a letto presto sia perché era stanca sia perché non riusciva a vedere la madre in quelle condizioni, si sdraiò e sperò di non sognare nuovamente l’arrogante maggiore come la sera prima: ovviamente stavano litigando perché lui aveva scoperto il suo segreto, l’aveva fatta licenziare e poi rideva.
 
 



 
 
*
 



 
La mattina dopo Sofia si recò a lavoro, questa volta puntuale, ma non fu fortunata come il giorno prima: fin da subito dovette prendersi cura del maggiore Aricò, ma si ignorarono e nessuno dei due parlò più del necessario.
E così trascorsero anche i giorni successivi. Sofia lo osservò di sottecchi, rendendosi conto che era un giovane taciturno e trascorreva il suo tempo dormendo – dopotutto era ancora debole – o leggendo qualche vecchio libriccino che il sottotenente Corsari si era premurato di procurargli.
Più volte si era sorpresa a fissarlo intensamente, per quanto potesse essere arrogante, era sicuramente bello: la carnagione scura tipica del Sud e di chi è abituato a un clima caldo si lasciava indovinare al di sotto del pallore causato dalla ferita, ma probabilmente anche dagli stenti della guerra – no, gli stenti, no si corresse più volte: un alto ufficiale come lui non sapeva nemmeno che cosa fossero – e sicuramente la vita austera militare aveva modellato il suo corpo da ragazzino che era finito per crescere molto velocemente; ciò che la colpiva però era la sua espressione e soprattutto i suoi occhi castani spenti e senza vita. Che problemi aveva? Era vivo! E se la guerra fosse veramente finita, come si pensava, non sarebbe più tornato al fronte. Una vera fortuna. Avrebbe dovuto essere allegro e felice come il giovane tenente Tonioli che ci provava con tutte le infermiere – persino le giovani suore! – e, con gran rabbia di Corsari, tentava di farsi portare dell’alcool di straforo affermando che avrebbe lenito il dolore delle ferite molto più dei loro puzzolenti medicinali. Eppure Tonioli era più grande di Aricò, ma quest’ultimo manteneva una compostezza e una serietà invidiabili per i suoi diciannove anni.
Era vivo e presto si sarebbe ricongiunto alla sua famiglia. Per quale assurdo motivo non festeggiava? Sofia non sapeva proprio spiegarselo, ma lo trovava ancora più antipatico per questo motivo: doveva essere felice per quello che Dio gli aveva donato!
«Fermatevi, ma che mi state dando?» sibilò il maggiore Aricò. Erano le prime parole che le rivolgeva direttamente nell’ultima settimana e le aveva addirittura afferrato il polso con forza facendole versare il liquido sul lenzuolo bianco.
Il Natale si stava avvicinando, non aveva notizie di suo padre e suo fratello risultava disperso, perciò Sofia aveva i nervi a fior di pelle: come osava trattarla in quel modo?
«Ha qualche grado di febbre, signor maggiore. Il sottotenente Corsari mi ha ordinato di somministrarle del chinino».
«Quello non è chinino» ribatté Gabriele Aricò.
«Sì, che lo è» replicò testardamente Sofia, presa in contropiede da quella rimostranza.
«No, che fate mi prendete in giro?».
Sofia turbata fissò la boccetta, appoggiata sul comodino, che lui le indicava. Deglutì incerta: aveva veramente sbagliato? Eppure il colore del liquido sembrava proprio quello del chinino. Intanto lui le aveva liberato il polso.
Passarono interminabili minuti, mentre, sempre più agitata, Sofia fissava la boccetta e Gabriele fissava lei, come se fosse uno strano mistero, aggrottando la fronte. «Sapete leggere?» chiese a bruciapelo.
Sofia fece un salto all’indietro e per poco non lasciò cadere la boccetta a terra, ma i suoi occhi si riempirono di lacrime e per Gabriele fu una risposta più che sufficiente.
«Voi non sapete leggere».
«Non sono figlia di signori, io» tentò di darsi un contegno Sofia. I suoi peggiori incubi stavano diventando realtà. Nessuno in tutti quei mesi si era accorto di nulla e ora arrivava il signor maggiore e rovinava ogni cosa. Già immaginava la sfuriata che le avrebbe fatto il sotto tenente Corsari.
«Ho ragione? Rispondetemi» ordinò seccamente Gabriele.
«La prego, non posso perdere questo lavoro» lo supplicò ella, ignorando il suo orgoglio ferito.
«Mi stavate dando un lassativo» ribatté Gabriele sempre a bassa voce. «È gravissimo».
«I soldi mi servono per dare da mangiare a mio fratello e mia madre» replicò Sofia, asciugandosi una lacrima che le era sfuggita e guardandosi intorno temendo che qualche medico o qualche altra infermiera si avvicinasse.
«Mi stavate dando una medicina al posto di un’altra» insisté Gabriele ancora scioccato.
«Era solo un lassativo, non l’avrebbe uccisa» borbottò Sofia testardamente.
«Sono debole… voi non solo non avete alcuna nozione di medicina, ma non sapete nemmeno leggere! Io dovrei veramente prestarmi a coprire la vostra terribile menzogna?».
«Lei può davvero giudicarmi?» sbottò Sofia. «È veramente senza peccato? Se fossi in lei, lascerei il giudizio a Dio. Solo a lui renderò conto, quando sarà il momento».
Gabriele s’incupì e tornò a sdraiarsi. «Vedete di trovare il chinino».
Sofia deglutì sonoramente, sorpresa da come si stesse evolvendo la situazione: possibile che il signor maggiore non l’avrebbe denunciata? Tornò di corsa alla dispensa dei medicinali, ma questa volta fu furba e chiese aiuto alla suora a capo delle infermiere adducendo di non trovare il medicinale.
«Benedetta, ragazza» borbottò la suora, «se finisse il chinino saremmo messi molto male. Cerca di fare più attenzione, non ho tempo da perdere» la rimproverò.
Sofia si scusò e la ringraziò, poi filò via. Il maggiore volle vedere bene la boccetta, prima di prendere la dose prescritta da Corsari.
«Sentite, signorina» la trattenne per un braccio proprio mentre Sofia stava per allontanarsi velocemente, non desiderando null’altro che mettere un po’ di distanza tra loro, «non posso essere complice di una simile menzogna». Il cuore di Sofia affondò. «Ma non dirò nulla, a patto che voi, nelle vostre ore libere, v’impegniate a imparare a leggere».
Sofia emise un verso strozzato. «Sono troppo grande per andare a scuola, signor maggiore».
«Vi insegnerò io. Se volete il mio silenzio, questa è la mia condizione».
E Sofia accettò, non avendo altra scelta.
Il giorno dopo alla fine del suo turno pomeridiano raggiunse il maggiore e sedette accanto al suo letto su una vecchia sedia. Odiava quel ragazzino che si atteggiava a uomo, odiava trovarsi in una posizione così scomoda e lasciarsi ricattare, odiava l’idea di dover studiare con quello sbruffone.
«Avete portato il sillabario?».
Sofia annuì con una smorfia e cacciò fuori dal grembiule un libriccino vecchissimo e tutto strappato. «Non posso mica permettermene uno nuovo e lo terrà lei qui, così che nessuno lo veda» esclamò all’istante vedendo la smorfia dell’altro.
Gabriele lo prese e lo sfogliò con una delicatezza, che Sofia non avrebbe creduto possibile, e le sorrise leggermente. «Ci sono tutte le pagine, va bene. Cominciamo?».
E cominciarono. Un’ora tutte le sere alla fine del turno di Sofia. Quel tempo trascorso insieme, giustificato dalla necessità del maggiore di avere compagnia, portò Sofia a scoprire un altro volto di quel giovane per lei sempre più strano: quando l’aiutava a sillabare era sempre rigido e severo, non coglieva mai le battute sciocche della ragazza che, principalmente all’inizio, si annoiava. Sempre serio, tanto che una sera poco dopo Natale lei gli chiese:
«Ma prima della guerra facevi il maestro?».
«No» rispose Gabriele sorpreso dalla domanda e infastidito perché la sua allieva, riottosa come al solito, aveva ignorato la sua richiesta di leggere alcune parole.
«Invece lo sembri. Uno di quei maestri vecchi e maneschi».
Stranamente Gabriele non riuscì a fare a meno di lasciarsi sfuggire un sorrisino. «Mi stai dando del vecchio?».
«Ti comporti come un vecchio. Non sorridi mai».
«Perché dovrei?» s’irritò Gabriele.
«Perché sei vivo. Dovresti ringraziare il Signore».
Ormai da qualche giorno, durante le loro lezioni gli dava del tu come una piccola rivincita in quella situazione in cui l’aveva costretta. Certo doveva ammettere che si aspettava che lui ne approfittasse, ma effettivamente studiavano soltanto e lui non aveva mai detto una parola fuori luogo o allungato le mani.
Gabriele la fissò intensamente e lei dovette distogliere lo sguardo. «Già, probabilmente hai ragione» replicò dopo qualche secondo cogliendola di sorpresa. «Ora, rimettiti a lavoro».
Sofia stava leggermente migliorando. Non che leggesse fluidamente, ma cominciava a distinguere i nomi dei medicinali sulle boccette e questo le aveva risparmiato parecchi rimproveri per la sua lentezza.
«Comunque ho frequentato il liceo classico. Quando sono stato chiamato alle armi mi ero diplomato da poco» spiegò sorprendentemente Gabriele quando chiusero il sillabario alla fine della loro ora. «Penso che, se non ci fosse stata la guerra, mi sarei iscritto all’università».
«La guerra è finita, lo potrai sempre fare» replicò Sofia, non comprendendo da dove le uscissero quelle parole: non erano quelli i problemi.
«Ora non so più quello voglio» ribatté lui, ma non aggiunse altro visto che era sopraggiunta una suora con la cena.
Non avrebbe saputo spiegare perché, ma Sofia quella sera si offrì di aiutarlo durante la cena. I suoi occhi tristi lo attiravano e chissà se avrebbe mai scoperto che cosa lo tormentasse.





Le settimane trascorsero lente e inesorabili, ma il 1919 non si stava rivelando un anno migliore, nonostante la guerra fosse finita: la spagnola imperversava e mieteva vittime in tutta Europa. Sofia era sempre più informata perché Gabriele le faceva leggere qualche riga da un giornale, stanco del sillabario per bambini. Naturalmente aveva provato con uno dei libri che gli portava Corsari, ma c’erano troppi paroloni per Sofia.
«Certo che sei un’asina testarda!» sbottò una sera.
Sofia lo fissò offesa. Quella sera era più impaziente del solito e sbuffava per ogni errore, lei s’innervosiva e nei compiva ancora di più. In quei mesi, però, non l’aveva mai insultata.
Gabriele sembrò rendersene conto. «Perdonami, questa sera non ho voglia, riprendiamo domani».
«Che meraviglia! Sei di umore nero, proprio quando devo fare la notte» replicò ella ironica, ma ben contenta di mettere da parte la lettura prima di solito. Odiava l’idea di dover rimanere in ospedale di notte, ma più il tempo passava più aveva bisogno di denaro. Era tranquilla sapendo che in mezzo a quei malati c’era anche quel maggiore così strano, ma tutto sommato cortese.
«Mi dispiace» si scusò ancora Gabriele, appoggiando la testa al cuscino e voltandosi dall’altra parte. «Pensi che pioverà stanotte? Corsari parlava di una tempesta in arrivo».
«Non vedo quale sia il problema» replicò la ragazza seccata. «Per ora ce la siamo cavata con pioggerelline da nulla, ma di solito il tempo qui è più brutto. A gennaio è normale».
«Preferisco la neve» bofonchiò Gabriele.
«Tipico di voi del Sud. La neve! Ah, per voi è un gioco! Ti ricordo che le strade sono state bloccate per settimane dopo Natale per la tua amata neve!» sbottò Sofia, alzandosi di scatto e andandosi a preparare per la notte.
Ignorò Gabriele per il resto della serata, dopotutto se era di cattivo umore non avrebbe di certo aiutato Sofia che a furia di stare tra tutti quei feriti e moribondi era già depressa.
Il temporale scoppiò verso le undici di sera, Sofia sobbalzò al primo tuono, ma non fu quello a terrorizzarla, ma le urla che si levarono dai pazienti. Erano urla di animali braccati e feriti. Rimase paralizzata in mezzo a una corsia, mentre le colleghe la spingeva da ogni parte nel tentativo di sedare i pazienti.
A ogni tuono urlavano più forte.
Sofia si guardò intorno e si rese conto che altre giovani come lei erano paralizzate. Perché gridavano? Quei lamenti le penetrarono in testa e le strinsero il cuore. Era terrorizzata e i piedi automaticamente la portarono da Gabriele, lui l’avrebbe aiutata con la sua compostezza, l’avrebbe invitata a darsi una calmata e pronunciata qualche bella frase dei suoi autori latini e greci tanto cari.
Gabriele, però, era seduto sul letto con le gambe circondate dalle braccia e dondolava avanti e indietro. Non urlava, ma avvicinandosi, Sofia si accorse che piangeva. In quel momento dimostrava meno dei suoi diciannove anni e non conservava nulla della spavalderia e della fierezza con cui si era presentato al suo risveglio.
Sofia accorse immediatamente al suo fianco, spaventata all’idea che i punti, ancora non guariti perfettamente, potessero aprirsi esponendolo al rischio di un’infezione che fino a quel momento aveva evitato per grazia del Signore.   
«Fermati, fermati» lo pregò tentando di liberarlo con forza dalla sua stessa stretta per farlo sdraiare.
«Silenzio, silenzio» replicò lui tappandosi le orecchie. Un nuovo tuono scosse la struttura che fu pervasa da nuovi lamenti e strilla. Sofia impotente gli accarezzò i capelli sudati. «È solo un tuono» tentò.
Gli occhi di Gabriele erano vacui e persi. Il buio che Sofia aveva notato in quei giorni era più profondo e se ne spaventò: che cosa lo angosciava? Gli bloccò le mani perché si stava graffiando e ferendo le orecchie con sempre maggior ferocia.
«Silenzio, ti prego… ti prego…» biascicò Gabriele a un nuovo tuono.
Sofia non aveva idea di quello che stava facendo, ma ignorando quello che accadeva intorno a lei corse al carrello dei medicinali e prese del cotone, tornò da Gabriele e glielo mise nelle orecchie. Non avrebbe fatto sparire il rombo dei tuoni, ma almeno l’avrebbe attutito leggermente. Gabriele le strinse la mano con forza tanto che ella gemette per il dolore, ma non lo allontanò. Sembrava leggermente più tranquillo, tanto da sdraiarsi con il suo aiuto; continuava a tremare, ma aveva il battito del cuore meno accelerato.
Il temporale durò qualche ora e per tutto il tempo Sofia, ancora terrorizzata, non fu conscia di quanto ella stessa avesse tremato e di avere le guance umide. Rimase accanto a Gabriele anche quando il temporale finì e lui si calmò lentamente fino ad addormentarsi.
Lentamente fecero altrettanto anche gli altri pazienti, alcuni più agitati erano stati sedati da principio.
«Beva» le ordinò Corsari.
Sofia obbedì rendendosi di star tremando, più che per il freddo probabilmente per la paura provata. «Grazie, signore» mormorò. «Che cosa è successo…?». In condizioni normali non avrebbe mai intavolato discussioni con il graduato dottore, ma quella notte era stata troppo.
Corsari sospirò. «È la sua prima notte?».
«Sì, signore» mormorò Sofia dopo aver svuotato il bicchiere.
«Allora, le è andata decisamente male. I temporali sono brutti per loro, normalmente la cosa peggiore sono gli incubi… ma stasera…». Persino lui sembrava aver perso la sua rigidità.
«Sì, ma… perché?».
«Perché? Ringrazi Dio di essere una donna e di non essere mai stata in guerra» replicò Corsari in un sospiro. «Comunque è stata brava con il maggiore».
«Grazie» rispose sorpresa: Corsari non le aveva mai rivolto un complimento.
«Rimettiamoci a lavoro» ingiunse il dottore i passandosi una mano tra i capelli.
Sofia annuì e lo fissò con occhi nuovi: le persone si stavano rivelando diverse da quelle che le erano sembrate in principio.
Il giorno dopo ella era libera dopo la notte, ma quello dopo ancora, tornata in ospedale compì la solita routine. Durante la lezione di lettura, alla quale Gabriele aveva deciso di aggiungerci qualche rudimento di scrittura, nessuno dei due accennò alla notte del temporale: lei non sapendo da dove iniziare e lui probabilmente troppo imbarazzato per farlo. Si guardarono a lungo prima di iniziare, poi lui rivestì i panni del professore e ogni cosa sembrò tornare normale.
E l’argomento non fu toccato per lungo tempo.



Gennaio fu un mese piovoso e Sofia, con la scusa dei soldi, fece altre notti cercando di essere presente nei temporali più forti, standogli più vicino possibile. Gabriele si agitava, ma in quei momenti confusionari sembrava stranamente riconoscerla tanto che Corsari stesso approvava, sebbene, e Sofia se ne rendeva conto, cominciassero a circolare strane voci tra le altre infermiere.
Una sera, dopo una giornata sconvolta da un violento temporale, Sofia si avvicinò a un Gabriele ancora tremante.
«Perché?».
Lui non alzò nemmeno il capo. «Di che parli?».
«Perché reagite così ai temporali?».
Gabriele deglutì e strinse con forza le coperte. Sofia si pentì di averglielo chiesto, non era un medico ed era analfabeta, anzi semianalfabeta grazie al giovane maggiore, ma era di certo una pessima idea toccare simili discorsi dopo una crisi e il tempo non era migliorato, continuava a piovere anche se non vi erano più tuoni e fulmini. Si scusò e si mosse per allontanarsi e prendersi cura di un altro paziente come da istruzioni di Corsari.
«È come tornare in guerra».
Le parole erano state flebili, ma lei le sentì e si voltò.
«N-non è la trincea… lo so… ma…» Gabriele si zittì, non sapendo come continuare e si strinse nelle spalle. «È come se i tuoni fossero delle bombe… quel rimbombo…».
Sofia annuì e non insisté quando lui si sdraiò e chiuse gli occhi. Non ebbe bisogno delle spiegazioni di Corsari per capire che, se la ferita al fianco di Gabriele era ormai quasi guarita, così non lo era quella dell’anima: qualunque cosa avesse visto o sentito in guerra, doveva averlo turbato nel profondo. E per quello non servivano medicine. Per quel genere di ferite ci voleva molto più tempo e l’amore delle persone care.





La primavera giunse lenta e portò uno spiraglio di luce in un paese che faceva i conti con le macerie della guerra e l’epidemia di spagnola, ma Sofia in compagnia di Gabriele riusciva a dimenticarsi le sue preoccupazioni e quando l’aria divenne più calda lo trascinò nel chiostro, approfittando di un’assenza di Corsari.
«Sai che non dovremmo, vero?» chiese Gabriele, ma nei suoi occhi vi era un brillio nuovo.
«Stai bene» replicò ella. «Presto sarai dimesso. Un po’ d’aria non può farti che bene, ma se non vuoi rientriamo».
«Voglio» replicò Gabriele. «Lì dentro si soffoca». E Sofia sapeva che non si riferiva all’aria, quanto alle persone e all’atmosfera in generale. «Però è contro le regole».
Sofia alzò gli occhi al cielo. «Sei quel tipo di persona che segue sempre le regole?».
«Sono diventato maggiore» ribatté lui, ma il suo sguardo si era nuovamente oscurato pensando alla guerra.
«Che farai quando tornerai a casa? T’0iscriverai all’università?».
«Non credo» rispose Gabriele fermandosi e appoggiandosi al pozzo al centro del cortile del chiostro. Aveva il fiato corto, ma era normale per uno che non usciva all’aria aperta e non camminava da mesi.
«Non era quello che volevi?».
Gabriele fece una smorfia. «La guerra ha cambiato ogni cosa».
«A me sembra che tu abbia ancora voglia di studiare. Si vede da come fai il maestrino con me».
«Sei una pessima allieva».
«Questo non cambia nulla».
«Non posso» sussurrò Gabriele, indicandole poi la panchina all’ombra più vicina: non voleva rientrare, ma era già stanco di stare in piedi.
«Perché?» sbuffò Sofia, non riuscendo a comprenderlo: la guerra era finita, lui stava bene, avrebbe potuto seguire i suoi sogni!
«Le cose sono cambiate».
«L’hai già detto».
«Ho delle responsabilità adesso».
«Perché sei un maggiore? Ma l’esercito sarà smobilitato. Non vorrai entrarci permanentemente!?».
Lo sguardo di Gabriele s’indurì. «Io non voglio più sapere nulla dell’esercito».
Sofia deglutì di fronte al suo tono rabbioso.
«E quindi?».
Gabriele sospirò. «Sono il terzogenito di una famiglia più che benestante… o almeno lo ero prima della guerra… ora, sono l’unico figlio di una famiglia che stenta ad andare avanti. I miei mi hanno scritto che le nostre proprietà sono allo sbando… C’è molto da fare e non posso dedicarmi di certo agli studi e poi non mi iscriverei più a Lettere adesso».
«I tuoi fratelli?» chiese lei titubante.
«Il più grande è morto sul Carso nel 1915, il secondo si è tolto la vita dopo essere stato catturato dagli Austriaci… lui era un interventista, era così sicuro di sé, imbevuto di ideali nazionalisti che… sono rimasto solo io. I miei arriveranno presto… Avanti mettiamoci a lavoro».
«Cosa?» dopo tutte quelle confidenze non si aspettava mica che lui tirasse fuori dalla tasca di dietro del pigiama il sillabario.
«Hai sentito, non pensare di filartela».
«Ma se è tornato Corsari…».
«No, no, mi hai portato qui e se Corsari torna ne pagheremo le conseguenze, ma adesso leggiamo».
Sofia sbuffò impotente e ubbidì.
«Attenta questa frase è più difficile, seguì le parole una alla volta…». Gabriele le prese la mano per guidarle il dito lungo la riga e lei sentì un fremito percorrerle la schiena. Anche lui si bloccò.
«Ti chiedo scusa».
Lei si schermì.
Ci fu un attimo di silenzio, si guardarono negli occhi e lui si chinò in avanti sfiorandole le labbra.
La voce adirata di Corsari ruppe il silenzio e lei ebbe appena il tempo di sfiorarsi le labbra con un dito incredula, prima che quello spuntasse nel chiostro.
«Vasentin! Con quale autorizzazione ha portato fuori un paziente?». Era palesemente in collera, come Sofia non l’aveva mai visto e lei se ne spaventò.
«È colpa mia» intervenne Gabriele. «Avevo bisogno un po’ d’aria, mi sento in forze e stare nel letto mi avvilisce».
«Signor maggiore, posso capire la sua necessità, ma è stato molto imprudente e una saggia infermiera non avrebbe dovuto accontentarla».
«Ma la signorina non è saggia, ha a malapena diciotto anni, signor sottotenente».
Corsari lo guardò così male, che Sofia fu certa che per la prima volta Corsari non vedesse il ‘signor maggiore’, un superiore, ma un ragazzino insolente di vent’anni, più piccolo di lui che faceva quello che voleva. «Che non accada mai più. Signorina, riaccompagni il paziente all’interno».
«Sì, signore».





Man mano che la primavera avanzava, Gabriele ottenne il permesso di uscire all’esterno così come tutti i pazienti che erano in grado di spostarsi; acquistò colorito e energia, tanto che divenne più audace, trascinando Sofia dietro gli alberi o in anfratti del chiostro per baciarla, lasciandosi trascinare dal suo animo allegro e dalla sua giovinezza, senza minimamente pensare alle possibili conseguenze.
E se il mondo era in macerie, nei loro cuori stava rinascendo veramente la primavera.
La loro felicità era al culmine quando Corsari annunciò a Gabriele che a giorni l’avrebbe dimesso.
Gabriele era felice perché i suoi genitori erano in viaggio, presto sarebbero giunti a Treviso e non vedeva l’ora di presentarli Sofia.
La situazione, però, cambiò all’improvviso. Sofia andò da lui e glielo comunicò una mattina di maggio. «Ho dato le dimissioni. A breve dovrò partire».
«Cosa? Perché? Avevi detto che saresti venuta con me».
«Sì, ma hanno rintracciato mio padre… è vivo, è in un ospedale militare e mia madre vuole andare da lui al più presto».
«Verrò con te a trovarlo. Quando starà bene, potrete venire tutti da me, il lavoro non manca. Non andartene, Sofia».
«Non possiamo stare insieme» sussurrò lei. «Questi mesi sono stati un sogno e i sogni finiscono all’alba. Partirò con mia madre e mio fratello. Non abbiamo un soldo quasi, se non il mio ultimo stipendio, i tuoi genitori non mi vorranno mai. È meglio così».
«Non puoi decidere tu, cos’è meglio per noi!» sbottò Gabriele alzando la voce, suscitando occhiate di sdegno dalle suore, una esasperata di Corsari – probabilmente non vedeva l’ora che se ne andassero entrambi – e qualche fischio stupido da parte del tenente Tonioli.
«E chi dovrebbe decidere, tu? Sei un sognatore, Gabriele, fidati di chi la vita la conosce. Staremo meglio entrambi».
Gabriele le strinse i polsi con forza tanto da farle male. «Dimmi, guardandomi negli occhi, che non mi ami. Abbine il coraggio! Io ti amo Sofia Visentin!».
Sofia deglutì sorpresa e, non sapendo che cosa dire, scappò via.
«Sarò dimesso tra tre giorni e partirò subito» le disse e lei lo sentì.
 
 




 
*
 
 



Sofia e Gabriele non si videro in quei giorni.
Gabriele cupamente sperava ogni mattina di vederla arrivare con gli occhi gonfi di sonno e l’espressione seccata di chi, spinto dalla forza della propria gioventù, avrebbe voluto trovarsi in ben altro posto che non tra soldati in convalescenza nel puzzo intollerabile di disinfettanti e altri medicinali. Immerso in quell’inaspettata solitudine, non si accorse di Corsari che si avvicinava.
«Signor maggiore, avete delle visite».
Gabriele con una smorfia sospirò e posò il libro sul comodino: Corsari continuava a chiamarlo signor maggiore, ma non vi era più il rispetto e l’ammirazione precedente.
«Tesoro, mio!».
Non aveva fatto in tempo a registrare i volti di fronte a lui, che la madre l’aveva abbracciato.
«Su, cara, non è più un bambino» borbottò seccamente suo padre.
Gabriele sorrise leggermente e tentò di concentrarsi sui suoi familiari e pensare il meno possibile a Sofia. Con i suoi genitori era arrivata Maria, la sua amica di infanzia, che non si aspettava certo d’incontrare in una simile occasione.
Quelli prima della partenza furono giorni intensi e altalenanti: sua madre lo circondava di mille attenzioni, preoccupandosi di come l’avessero trattato durante la degenza; suo padre ne approfittava quando rimanevano soli per parlargli di quello che avrebbero dovuto fare una volta ritornati a casa.
Si sentì veramente tranquillo solo in compagnia di Maria, la quale gli disse che era diventata maestra nello loro paese e che si occupava lei della sua famiglia, visto che il padre era tornato cambiato dalla guerra e la madre si prendeva cura di lui.
La guerra aveva ferito ognuno di loro in modo diverso.
«Perché sei venuta?» le chiese quando furono nel portico del chiostro da soli, tentando di non pensare ai baci che impudicamente aveva rubato a Sofia dietro quelle stesse colonne.
«Volevo essere sicura che tu stessi bene» rispose lei senza guardarlo in volto.
«Non capisco. I miei genitori non ti hanno detto che la ferita è guarita perfettamente e che mi stavano per dimettere?».
«Sì, ma… ci sono ferite che non si vedono…».
Gabriele deglutì e annuì. «Tuo padre è nella seconda categoria, vero?».
«Sì» sospirò ella, visibilmente rassegnata. «Avevo bisogno di vedere con i miei occhi».
Gabriele annuì ancora e disse: «Non dimenticherò quello che ho visto nei miei pochi mesi di guerra».
«Ora bisogna pensare al futuro, però» gli disse ella prendendogli le mani. «Sono venuta anche per questo. Volevo parlarti lontano dal paese e il più possibile lontano dai nostri genitori».
«Non sono tanto distanti» sospirò Gabriele lanciando un’occhiata all’ingresso del chiostro e invitando silenziosamente Maria a spostarsi. «Il mio futuro è già deciso» le disse dopo qualche minuto di silenzio. «Non hai sentito mio padre? Non ho scelta».
«Non mi riferivo al lavoro» replicò ella stringendogli con forza le mani. «I nostri genitori si aspettano qualcosa da noi».
Gabriele s’irrigidì e l’ansia della madre di ricordare la sua infanzia e quella di Maria in quei due giorni divenne chiara.
«Senti…» disse, ma non sapeva come continuare.
«Gabriele, mi dispiace, mi sei molto caro. Ho sofferto quando ti hanno arruolato e quando ho saputo che eri stato ferito, ma mi sei caro come uno dei miei fratelli».
Gabriele si rilassò. «Anche tu mi sei cara come una sorella».
«Bisogna spiegarlo ai nostri genitori, però».
«Non ti preoccupare» le disse lui baciandola sulla testa. «Sistemeremo tutto».
 


Il giorno della partenza, quando i suoi genitori non sentivano Gabriele chiese più volte a Corsari se avesse notizie di Sofia e lui, sbuffando, gli rispose che non era più un problema suo visto che si era licenziata e che non conosceva quasi per nulla la città. Allora Gabriele pensò di chiedere a una delle giovani infermiere del luogo, ma non si fidava.
«Dovresti essere contento, figlio mio, stiamo tornando a casa grazie al Signore».
«Sì, madre, avete ragione» tentò di sorridere Gabriele guardandosi intorno. Eppure l’aveva avvertita.
Una carrozza li avrebbe accompagnati alla stazione più vicina. Gabriele si trattenne sul marciapiede - suo padre salutava e ringraziava ancora Corsari che si schermiva - guardandosi intorno.
«Gabriele».
Si voltò con il cuore in gola e la vide. Un sorriso sincero si dipinse sul suo volto e la raggiunse a passi veloci.
«Ti aspettavo» le disse non riuscendo a trattenere il sollievo e l’emozione.
«Quella è la tua amica? È venuta a prenderti fino a Treviso?» disse Sofia acidamente intravedendo Maria seduta sulla carrozza insieme a sua madre.
Gabriele sbuffò. «Maria è una mia amica d’infanzia, una sorella. Io non sono più un bambino e ora voglio una donna accanto a me». Si chinò e le rubò un bacio veloce per non scandalizzare i passanti, perché meno gente possibile avesse il tempo di vederli.
«Stai diventando peggio di Tonioli» quasi rise Sofia, ma lasciandosi abbracciare sotto un tiepido sole di fine maggio.
   
 
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