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Autore: Ghostclimber    29/01/2020    3 recensioni
Un omaggio alla mia maniera per ricordare Kobe Bryant e le vittime del tragico incidente che ha posto fine alla sua vita.
Genere: Angst, Introspettivo, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È una settimana che non esco di casa.

Faccio quel che devo fare, sia chiaro: mi vesto al mattino, lavo i denti, mi nutro a sufficienza, guardo la televisione, aggiorno i social network, sono persino riuscito a leggere finalmente Il Silmarillion, impresa che mi tiravo dietro da un bel po'.

Ma questo non significa che io stia funzionando a dovere.

Sopravvivo e basta.

Tiro avanti, anche se questa è una frase che detesto perché puzza di vecchi abiti lasciati a macerare nella naftalina, di brodini e di pasta per le dentiere.

Tutto è cominciato lunedì scorso, quando mi sono svegliato con una telefonata di Sakuragi.

Mai mi sono maledetto tanto per non essermi ricordato di mettere il cellulare in modalità silenziosa.

Appoggio la mia tazza di tè sul tavolo e sblocco incoerentemente lo schermo dello smartphone, per poi bloccarlo di nuovo, e ricordo.

 

“Ma che cazzo vuoi?” bofonchio, emergendo da un sonno profondo.

Qualcuno sta singhiozzando.

Guardo il telefono.

Lo schermo è nero, ci sono varie icone per registrare la chiamata, mettere il vivavoce, riagganciare e cose così, ma il nome sulla parte alta dello schermo è quello: “Red Monkey”.

“Sakuragi?” chiamo, spaventato.

“Rukawa...” singhiozza il mio nome, “Kaede.” aggiunge, e mi si gela il sangue.

Raramente mi chiama per nome, l'ultima volta è stato cinque anni fa, quando mi ha chiamato per annunciarmi che il coach Anzai era venuto a mancare.

“Che è successo?” chiedo, ora del tutto sveglio e allarmato.

“È... oh, merda, non ce la faccio a dirlo... accendi la tv.”

“Che canale?” chiedo, rotolando giù dal futon. È gennaio, fa un freddo cane, ma non mi preoccupo di mettermi i calzini o le ciabatte. Non ho mai sentito Sakuragi piangere a quel modo.

“Uno qualsiasi!” risponde lui, poi resta in linea, sempre singhiozzando.

Premo il tasto di accensione del telecomando e il televisore si sintonizza sulla CNN, l'ultimo canale che ho guardato ieri sera.

Mostra le immagini dello schianto di un velivolo su una montagna, e io aggrotto la fronte: come minimo mi aspettavo che fosse scoppiata la terza guerra mondiale minacciata da quel gran cazzone di Trump, o che l'epidemia di coronavirus si fosse spostata dalla Cina e fossimo tutti minacciati.

Poi, passano la parola al capo della polizia di Los Angeles: “Pare confermato che a bordo dell'elicottero ci fossero Kobe Bryant, sua figlia Gianna e una compagna di squadra con i familiari e il pilota. Le operazioni di recupero...”

“Ti richiamo.” riesco a dire a Sakuragi prima che il cellulare mi sfugga di mano.

 

Ecco il perché di quella crepa che attraversa lo schermo.

Dovrei farla riparare, oppure comprarmi un nuovo cellulare.

Probabilmente lo farò, ogni volta che lo prendo in mano mi torna in mente lunedì scorso, quando ho passato la giornata a setacciare tutte le maggiori testate di informazione, i siti, i blog, le pagine social e persino gli articoli clickbait in cerca di una smentita che non ho trovato.

 

Non ho ancora pianto.

 

Ogni tanto mi detesto per questo, altre volte mi ripeto che è logico che io non abbia pianto, ho incontrato Kobe in partita una sola volta quando giocavo per i Bulls e poi basta. È stato un rivale con cui ho amato scontrarmi, come a suo tempo lo erano stati Sendoh, Sawakita, Mitsui e per un breve periodo persino Sakuragi, ma se con Sendoh è stato fin troppo facile fare amicizia non è stato altrettanto con Kobe.

Troppo distanti, innanzitutto, stili di vita opposti, e quando ci siamo ritirati entrambi lui ha messo su famiglia e io sono ritornato in Giappone.

Gli ho stretto la mano, gli ho detto che era stato un onore battermi con lui, mi ha risposto che anche per lui era stato un onore, mi ha rivolto un sorriso e ha lasciato il campo.

Tutto qui.

Eppure, quando lunedì sono uscito per comprare un giornale, sempre in cerca dell'inesistente smentita, guardandomi intorno mi sono reso conto di aver in qualche modo fatto affidamento sul fatto accertato che lui stesse camminando su questa Terra.

Intendiamoci, non mi svegliavo al mattino pensando “Grazie al cielo esiste Kobe Bryant”, ma vedere i vecchi filmati delle sue azioni, il suo cortometraggio sul basket, le sue interviste e le foto sui social era sempre piacevole. E ora mi sembra che il mondo sia un po' più vuoto.

La mia parte razionale mi ripete di continuo che non era altro che un essere umano su sette miliardi e rotti, ma il mio lato emotivo, quello che sbraita con la voce di Sakuragi, mi ripete che era un uomo a cui molti guardavano.

Quando muore una celebrità, credo, chiunque l'abbia conosciuto anche in maniera indiretta ne piange la scomparsa come se patisse la morte di una parte di sé.

Ho spesso guardato a Kobe per la sua determinazione, la sua forza d'animo, il suo cuore possente, e ora mi sento come un bambino che per la prima volta prova ad andare in bicicletta senza le rotelle e sente la mano del papà che si stacca dal sellino.

Ho paura, irrazionalmente mi sento investito dalla responsabilità troppo grande di portare avanti la sua eredità, che si tratti dell'amore con cui giocava a basket o la luce che portava al mondo, e so per certo di non esserne capace.

Tento di razionalizzare ripetendomi che di certo aveva lati molto umani, magari masticava a bocca aperta, ascoltava musica orribile o cose così, che quello che vedevamo noi era solo la parte luminosa e tirata a lucido che esponeva quando era sotto ai riflettori, ma so che c'è di più.

Era un essere umano come tanti, sì, ma era un essere umano meraviglioso, e ora che non c'è più il mondo è un posto un po' più buio.

 

Il campanello suona a lungo, invadente.

-E va bene, cazzo, arrivo.- bofonchio alla casa vuota, poi mi alzo e vado ad aprire. Mi ritrovo la faccia di Sendoh, con stampato sopra un sorriso che non vedevo dalla prima superiore: un sorriso ampio, “da pubblicità del dentifricio” come diceva Sakuragi, che però non si estende agli occhi.

Al suo fianco c'è Mitsui, l'espressione cupa e imbronciata.

-Sapevo che avresti opposto resistenza,- mi dice Sendoh, poi mi scosta ed entra in casa mia senza aspettare un invito, -Quindi siamo venuti a prenderti.

-Mi stavo per vestire, ok?- sbotto. Col tempo ho fatto amicizia con Sendoh, soprattutto quando abbiamo giocato insieme nella Nazionale, ma se per questo crede di potermi invadere la casa e obbligarmi ad uscire casca davvero male.

-Sì, certo, e mia nonna ha abbattuto un terzo aereo americano nell'agosto del '45.

-Davvero?

-No, sua nonna è suonata.- interviene Mitsui, poi finalmente si stacca dallo stipite a cui si era appoggiato ed entra al seguito del marito, -Dai, forza, fuori le palle, vestiti che andiamo.

-E se non volessi venire?

-Verrai comunque.

-Senti, io...- io cosa? Io mi sto incazzando? Io voglio solo continuare a marcire? Io non ho intenzione di uscire mai più nella vita?

-Quand'è stata l'ultima volta che sei riuscito a contraddire Akira? Non fare storie, ha deciso che ci sarai e ci sarai.- l'argomentazione di Mitsui è inattaccabile. L'ultima volta che ho provato ad oppormi ad un piano di Sendoh lui mi ha fatto trovare dai giornalisti, costringendomi a cambiare casa tre volte in due mesi per seminarli, il tutto mentre mi chiedevo se davvero non c'erano cose al mondo più importanti di un ex giocatore dell'NBA che non aveva mai dato confidenza ad anima viva. Mugugno qualcosa tra i denti, non so nemmeno io cosa, e vado in camera da letto per buttarmi addosso una tuta. Sendoh mi segue, si mette a frugare nei cassetti sordo alle mie minacce e infine scova un paio di calzoncini che non vedevo dal liceo, un paio di calzettoni, le mie scarpe da basket e una canottiera, ficca il tutto di malagrazia nella borsa della palestra e me la ficca in mano.

Non ho scelta.

Devo seguirlo.

 

“Ciao a tutti.” è stato il primo messaggio di Kogure sulla chat di gruppo intitolata “Kobe”, poi per un paio di minuti nient'altro se non l'andare e venire dell'ansiogena dicitura “Sta scrivendo...”

“Ho creato questo gruppo per invitarvi ad una partitella amichevole a squadre miste, in ricordo dei vecchi tempi e in onore di Kobe Bryant, Gianna Bryant, le sue compagne di squadra Alyssa Altobelli e Payton Chester, i loro genitori, Keri e John Altobelli e Sarah Chester, l'assistente coach Christina Mauser e il pilota, Ara Zobayan. Se siete tutti disponibili, proporrei martedì prossimo, a otto giorni dalla scomparsa di Kobe.”

Subito dopo era intervenuto Akagi: “Lo Shohoku è disponibile ad ospitare la partita.”

E poi, mezza giornata col cellulare che vibrava di continuo, chi rispondeva di sì, chi di no, chi nicchiava... Ho risposto che avrei cercato di liberarmi, così da poter accampare una scusa se per caso avessi deciso di marcare visita.

 

-Ehi.- è Akagi a salutarci dalla soglia della palestra, dal lato che dà sui corridoi del liceo; oltre la porta sentiamo il vociare confuso di una folla di spettatori che non sapevo ci sarebbe stata. Ci fermiamo con lui ad aspettare gli altri, in un silenzio imbarazzato.

Ma sono contento che nessuno stia cominciando una conversazione con qualche stupidaggine del tipo: “Eh, brutta storia questa.” o “Ci sono rimasto malissimo” o “Era un grand'uomo”. Odio questo genere di cosa, preferisco qualcuno che mi guardi in faccia, capisca al volo che sto male e poi prosegua al mio fianco.

O almeno, questa è sempre stata la mia idea in generale.

In realtà non c'è mai stato nessuno che mi trattasse così.

Per meglio dire, non c'è mai stato nessuno al mio fianco.

E forse è per questo che mi sento così a disagio in mezzo a vecchi amici e rivali, che si affollano intorno all'ingresso come se nessuno osasse varcare la soglia per primo.

Rivedo Maki, Kiyota e Jin del Kainan, Koshino e Uozumi del Ryonan, Hanagata, Hasegawa e Fujima dello Shoyo. Dei nostri ci siamo io, Mitsui, Akagi e Kogure, che farà da arbitro.

Miyagi è passato a salutare, però non giocherà: ha subito un intervento alla spalla pochi mesi fa.

Non vedo Sakuragi da nessuna parte.

Akagi tenta di dire qualcosa: -Quel Sakuragi. Sempre in ritardo.- e io so che avrebbe voluto esibirsi in una delle sue roboanti ringhiate da Gorilla, ma non gli è uscita per niente bene.

Dopotutto, ricordo all'improvviso, lui ha una figlia della stessa età di Gianna Bryant. Dev'essere scioccante guardare tua figlia che esce di casa per andare a scuola, per uscire con gli amici, per andare all'allenamento di pallacanestro, e immaginare di aspettarla invano per ore e ore mentre il suo corpo si raffredda su un tavolo di obitorio.

O fuma tra le macerie.

Ho un brivido.

-Scusate il ritardo!- sento ululare da dietro di me, poi un energumeno si ferma al mio fianco.

Non lo vedo da anni, ma è sempre uguale: il rosso dei suoi capelli si è appena stinto in un più mite biondo veneziano, ma è ancora grosso e muscoloso, e soprattutto megalomane: -Ah, ma siete tutti fuori, vedo che dopo anni ancora sapete che senza il Genio non vale neanche la pena di cominciare la partita, eh!

-Cretino...- bofonchia Akagi. Io scuoto la testa, qualcuno ridacchia, infine Maki apre la porta. Ci accoglie un boato che sa di passato, e un'ondata di inadeguatezza mi investe di colpo, togliendomi ogni forza dalle gambe.

Ho quarant'anni, per l'amor del cielo, quarant'anni e un ginocchio malandato e poco fiato, un po' di pancetta e una settimana passata sul divano a vegetare alle spalle. Che razza di figura penso di fare?

Non sarò certo la vecchia gloria che gioca come se non fosse passato un giorno dalla prima liceo, neanche un giocatore navigato dallo stile maturo e pacato.

Sarà come guardare un vecchio che cerca di scopare.

 

-Allora, lo muovi il culo o no?- chiede Sakuragi alle mie spalle.

Mi volto, stupito: non mi ero accorto che fosse ancora lì, e se avessi dovuto indovinare avrei supposto che fosse entrato per primo, correndo con le braccia alzate, a fare un giro d'onore intorno al campo per raccogliere applausi e un paio di insulti giocosi.

-Non ce la faccio.- ammetto.

-Sì che ce la fai. Anzi. Ce la facciamo.- mi porge una mano, e senza pensarci troppo la stringo. Ho una frazione di secondo per domandarmi a che livello di ridicolo saremo, entrando in palestra per ultimi e oltretutto mano nella mano, poi vengo trascinato sul parquet.

Sento uno strattone: Sakuragi ha alzato entrambe le mani, sollevando anche il mio braccio.

Agli occhi del pubblico, sembra un'entrata scenica.

 

Kogure ha provveduto a dividere le squadre con un minimo di criterio, e mentre siamo schierati a bordocampo chiama i giocatori e consegna le magliette.

In giallo giocheranno Sakuragi, Sendoh, Uozumi, Koshino, Mitsui e Hanagata.

In viola giocheremo io, Akagi, Jin, Hasegawa, Fujima e Kiyota.

Approvo la suddivisione operata da Kogure: le squadre sono ben equilibrate, si potrà giocare una bella partita.

 

Rivedere Akagi e Uozumi a fronteggiarsi nel contrasto a due è come ringiovanire di venticinque anni: è di nuovo aprile, stiamo ancora giocando la prima partita amichevole contro il Ryonan, Sendoh è arrivato in ritardo, si cambia in mezzo al campo mentre Taoka lo rimprovera, i sakura germogliano nei parchi, l'aria non è più così fredda e nella palestra del Ryonan si sente un gradevole odore di mare e di pini.

Passo la prima frazione di gioco a ricordarmi come si corre. Prendo la palla e opero qualche buon passaggio a favore dei compagni, ma ancora non entro in gioco.

Durante la seconda frazione riesco a ingranare meglio e metto a segno un tiro da tre e una schiacciata; mentre salto giù dal canestro mi convinco che sentirò il menisco che parte di nuovo, ma non succede.

È quasi un miracolo, come se fossimo di nuovo tutti dei sedicenni agguerriti e pronti a mangiarsi il mondo intero.

Comincia il terzo quarto dopo una breve pausa, e sto marcando stretto Sakuragi. Mi accorgo che un po', in effetti, è cambiato: ha un po' di fiatone, anche se non quanto me, e una piccola maniglietta di ciccia gli orna i fianchi un tempo muscolosi e quasi ossuti.

C'è qualcosa di strano, non sembra essere del tutto concentrato sul gioco, anche se mi fa muro davvero bene: qualsiasi cosa io faccia, riesce sempre a tenere quel dannato pallone fuori dalla mia portata.

E, quattro minuti dopo, al fischio di Kogure, ricordo.

Una lunga fila di messaggi su un tributo, una specie di flash mob, una cosa che a me era sembrata una gran cazzata ma che gli altri avevano organizzato senza aspettare il mio parere, scambiandosi messaggi che non avevo letto fino a tarda notte.

Allo scattare di quello che tecnicamente è il ventiquattresimo minuto di gioco, Kogure fischia.

Sakuragi raddrizza la schiena e solleva la palla; la tiene alta, col braccio teso, come se la stesse offrendo al cielo.

Gli spalti ammutoliscono.

E io resto immobile a guardare le lacrime silenziose che solcano il viso di Sakuragi, e capisco che non aveva il fiatone: stava piangendo.

Nel quasi impercettibile tremore del suo braccio capisco che avrebbe voluto liberarsi della palla ma gliel'ho impedito, che nonostante l'orgoglio di essere colui che offre il tributo a Kobe avrebbe dato qualunque cosa per non doverlo fare.

Sento il suo dolore, ed è il mio.

Kogure fischia di nuovo dopo ventiquattro secondi esatti.

Sakuragi abbassa il braccio e mi lancia la palla, in una parabola elegante che la fa atterrare tra le mie mani, e io mi rendo conto di essere appena dietro alla linea dei tre punti.

Mi giro senza dovermi soffermare a pensare, i movimenti ormai impressi nei muscoli anche dopo anni di inattività, alzo le braccia, salto ed effettuo un tiro in sospensione.

-KOBE!- esulta Sakuragi.

La sua voce è roca, e in teoria sarei dovuto essere io ad urlare il suo nome, ma non ce l'avrei mai fatto. Non ci avrei mai nemmeno pensato.

So del trend di urlare “Kobe!” quando si fa canestro lanciando le cartacce nel cestino, e ammetto di essermi stupito nel notare che sembrava aver preso piede invece di svanire come tante altre cavolate del momento, ma io non l'ho mai fatto.

E soprattutto, non avrei potuto urlare, perché...

-KOBE!!!- esplode la folla.

Le braccia di Sakuragi mi circondano la vita, le mie gli cingono il collo.

Non avrei potuto urlare perché sto piangendo.

 

Kogure ci concede esattamente otto minuti per riprenderci dalla commozione, otto minuti che passo con la faccia affondata nella spalla di Sakuragi ad ascoltare i giornalisti che vanno in brodo di giuggiole per tutte le simbologie che il nostro arbitro ed organizzatore è riuscito a cacciar dentro in questa partitella.

-Meglio?- chiede Sakuragi.

-Nh.- ribatto. Lui sbuffa una risata liquida.

-Palla ai gialli!- chiama Kogure, e la partita finalmente riprende.

 

Lascio la palestra seguito dalle urla di Sakuragi che parla di ingiustizie, di arbitro corrotto, di Rukawa maledetto arrogante, di Sendoh che li ha sabotati apposta e tutte le sue care, vecchie baggianate, e un po' mi si stringe il cuore al pensiero di abbandonare tutta questa luce che abbiamo saputo evocare tutti insieme per tornare nella mia casa vuota.

-Ohi, Volpaccia, una birretta?- mi propone Sakuragi, battendomi una mano sulla spalla con così tanta enfasi che per poco non mi fa affondare nel terreno.

-Certo, una serata in mezzo alla folla... dove posso firmare?- ribatto.

-Scusa, eh... tu, io, e quale esercito?- chiede Sakuragi, e io mi guardo intorno.

Siamo rimasti da soli nel cortile della scuola.

-Ti prometto che non li ho nascosti nel frigo.

-Frigo?

-Sì, non ho voglia di stare in mezzo alla gente. Ma ho un sacco di birra a casa.

-Non disturbo?- chiedo, perché improvvisamente la prospettiva di una serata tra uomini mi sembra un'opzione più che valida.

-Chi, i muri? Rukawa, notizia flash: ho divorziato tre anni fa.

-Ah. Congratulazioni.- Sakuragi scoppia a ridere, poi mi prende per un gomito e mi trascina lontano dal cortile della scuola: -Dopo questa, devi assolutamente entrare nella mia tana! Ma sai che sei l'unico che mi ha detto una cosa adeguata? Tutti che mi dicevano “mi dispiace” e “ti riprenderai” e “il mare è pieno di pesci” e “quando si chiude una porta si apre un portone” e io no, ragazzi, non avete capito! Avevo due corna che ci sbattevo nelle porte quando passavo, il bambino non era figlio mio e l'ho sempre saputo, voglio dire, è nero! Sarò imbecille ma due più due lo so fare, eh, e comunque neanch'io ero più tanto preso, a un certo punto avevo pure pensato che avrei fatto meglio a mettermi con Haruko che almeno...

-Do'aho, ti prego, taci.- lo supplico.

Ride.

 

Siamo a casa sua.

Una “tana” da scapolo, come l'aveva chiamata lui, pulita e ordinata, piccola ma ben tenuta. Su una parete c'è la foto della Nazionale quando ci abbiamo giocato insieme.

Nessuna foto della ex moglie, una tizia incontrata all'università che mi era stata antipatica ancor prima che me la presentassero.

Sakuragi stappa una bottiglia di birra belga, presentandomela come un esperto. Parla di doppia fermentazione, malti e luppoli, aromi vari, la spilla dall'alto e in più riprese per farla schiumare adeguatamente, poi mi porge il calice e sorride.

-A Kobe.- propone.

-A Kobe.- ribatto.

I bicchieri tintinnano.

 

C'è ancora luce.

 

 

 

 

 

 

 

 

Prima che pensiate male di me, non sto cavalcando l'onda.

È solo che, come dice Stephen King, la finzione medica l'anima, e la mia sta sanguinando.

Vorrei essere in grado di offrire un tributo degno al campione che abbiamo perso, all'uomo che abbiamo perso, a lui e alle vittime del tragico incidente di domenica, ma questo è il meglio che io possa fare.

E forse non serve organizzare manifestazioni da megalomani, forse basta solo ricordare e mantenere la fiamma bruciante.

 

 

 

I never saw the end of the tunnel.

I only saw myself running out of it.

And so I ran.

 

(Kobe Bryant, 23/08/1978 – 26/01/2020)

 
 
   
 
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