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Autore: _Lightning_    05/02/2020    2 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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.13.

Purgatorio


 
"Il labirinto non è la vita, o la morte”
“Uh, okay. E quindi cos’è?”
“È sofferenza,” disse lei. “Sbagliare e vedersi accadere cose ingiuste.
È questo, il problema. Bolivar parlava del dolore, non della vita o della morte.
Come si esce dal labirinto della sofferenza?”
J. Green – Cercando Alaska


Febbraio 2019, Complesso dei Vendicatori 

Schiva il primo montante, incassa il secondo sul fianco con un sibilo e scarta bruscamente di lato, individuando un'apertura nella guardia serrata di Natasha. È un'esca: lei scansa la testa mandando a vuoto il suo diretto e gli blocca poi in una leva dolorosa il braccio, costringendolo su un ginocchio con una semplice pressione. Tony si solleva ruotando di scatto nel tentativo di assestarle una testata nell'addome e riesce a farle perdere l'appoggio per un istante sfruttando il proprio slancio, per poi ritrovarsi a impattare con la schiena sul pavimento del ring, sbalzato via da uno sgambetto ben calcolato. Natasha gli incunea un ginocchio tra le gambe, inchiodandolo a terra e mozzandogli il fiato per il carico che gli pianta sull'inguine e sulle fluttuanti. Gli sta ancora torcendo il braccio, e si affretta a battere il palmo libero a terra a segnalare la sua resa.

«Oggi sei distratto,» constata spiccia lei, facendogli la grazia di alleviare la pressa sui suoi punti più o meno vitali, o che ha comunque un discreto interesse a preservare.

Si rimette a sedere, accusando una fitta al fianco che non ha molto a vedere col combattimento serrato che ha appena sostenuto, e si tasta la cicatrice slabbrata da sotto la maglietta con l'impressione falsata che sia troppo calda. La palestra oscilla impercettibilmente attorno a lui, come se qualcuno ne stesse scuotendo con forza le pareti. Si stropiccia gli occhi pesti di sonno con la base del palmo e cerca di umettarsi la bocca che continua a inaridirsi dopo pochi istanti. Non beve da una settimana, ma continua ad avere un retrogusto d'alcol in bocca, come se quel bourbon di troppe notti fa gli si fosse sedimentato sotto alla lingua.

«Non... non è stata una mossa corretta, quella,» dichiara poi, deviando all'ultimo istante da una frase che non ha alcuna intenzione di pronunciare.

Non si sente molto bene da quando si è svegliato. C'è una nebbiolina persistente davanti ai suoi occhi e sente gli organi interni che passano a ripetizione dentro un imbuto, strizzandosi ed espandendosi a intervalli discontinui. Sa che avrebbe dovuto parlarne con Bruce, invece di salire a testa bassa sul ring, ma è sempre stato troppo testardo e orgoglioso per il suo stesso bene, e ne sconta ogni volta le conseguenze. Si rimette in piedi nonostante le gambe cedevoli, sotto lo sguardo intento di Natasha, che gli sembra più accigliata del solito. Si asciuga inutilmente i palmi sudati sui pantaloncini, strizzando la stoffa nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa di fisico attorno a lui.

Ci sono le loro voci in sottofondo, indistinguibili. Gli ronzano nelle orecchie come api insistenti, pronte a pungerlo. Si sta sforzando di tenerle a bada, di concentrarsi sullo scontro fisico e sui colpi che assesta e subisce: di solito funziona, ma oggi ad ogni colpo che mette a segno sente riecheggiarle nei timpani, una vibrazione acuta e fastidiosa che lo fa sentire privo d'orientamento, come se avesse la labirintite. Guarda Natasha di sottecchi e il solo pensiero di abbracciarla come qualche sera prima gli scatena un'ondata di brividi e vampe di calore terrorizzato. Ha la cenere addosso, ce l'ha sulle mani, in bocca, gli fa bruciare gli occhi, gli intasa i polmoni.

Rialza di scatto la testa e si rimette a forza in posizione di combattimento, con una guardinga Natasha che lo imita assecondando i suoi propositi autolesionisti. La cicatrice sul polso si tende e la sfrega senza pensare sul fianco, ad attenuare un prurito inesistente; gli occhi della donna guizzano a seguire il gesto. Tony sa di essersi tradito, e dà inizio allo scambio slanciandosi in avanti senza nemmeno pensare a cosa stia facendo, coi sensi ovattati che sembrano registrare in ritardo colpi e movimenti. È di nuovo disorientato e il mondo si inclina, lo inganna con sbuffi di fumo spuntati dal nulla. Un pugno lo raggiunge nello stomaco, smorzato; non sa se Natasha l'abbia trattenuto più del solito o se sono i suoi sensi ad essere fuori fase. Incespica e cade di fianco a terra parandosi di riflesso col palmo; sente la scossa dell'impatto che gli riverbera in ogni singolo osso. Sono fragili, tintinnano come fogli d'alluminio compattato. Sbatte le palpebre a ripetizione, ma la sua vista rimane sfocata.

«Stark, non hai una bella cera...»

«Sto bene,» quasi ringhia lui, mandando giù a fatica un groppo impastato di saliva e sabbia e cenere.

Fa per rimettersi subito in piedi, ma si sbilancia e ricade pesantemente a terra di sedere, in un modo che forse sarebbe anche risultato comico, se non fosse per il conato che lo piega in due subito dopo. Strizza gli occhi e la stanza si capovolge, inizia a mollificarsi e a diventare gelatinosa, sembra colargli addosso in rivoli di sudore freddo.

«Stark?»

La voce di Natasha gli arriva da un megafono rotto e non gli riesce di riaprire gli occhi mentre cerca di contenere la nausea e i brividi. Il pavimento del ring diventa sabbia, e getta fuori un respiro sforzato dal naso, cercando di scacciare quella sensazione irreale. È irreale, è irreale, non è davvero laggiù, non è su Titano.

"Tesoro, stai bene?"

"Signor Stark, che le succede?"

Smorza i richiami istintivi che gli salgono alle labbra, mentre le loro voci si intrecciano e sovrappongono a quella di Natasha, che percepisce china su di lui con una mano sul suo volto mentre cerca di strappargli una risposta. Ma lei non è davvero qui: non può essere qui, perché lui è sulla Benatar, tra le stelle fredde. Sotto i suoi palmi c'è il pavimento metallico dell'astronave, e oltre le palpebre chiuse lo aspettano occhi stellari e immobili. Il suo cuore batte così rapido che non distingue le singole pulsazioni, avverte solo quelle mancate e il muscolo cardiaco che sbatte contro le costole come se volesse romperle per schizzargli via del petto.

Sta andando a fuoco, realizza con sconcertato orrore, sentendo le carni che bruciano scoperchiando le ossa e il fetore di ferro e plastica bruciati che lo prende alla gola. Gli sfugge un lamento acuto, un'istintiva richiesta d'aiuto, come se qualcuno potesse trovarlo in mezzo allo spazio profondo in una navicella in fiamme, e porta una mano al volto ad attutire tutte le sensazioni che gli si stanno abbattendo addosso. Poi è lui ad abbattersi a terra di schianto, precipitando nel buco nero che si spalanca sotto di lui.


 
§

 
Voci entrano ed escono dalla sua coscienza, mormorii e sussurri che gli avvolgono la testa e si disperdono come acqua nebulizzata di un torrente. Non è acqua, però, quella che sente.

Galleggia su un mare d'ombra, immobile, ma sta ancora bruciando. Una chiazza di petrolio a pelo d'acqua. Il fuoco gli divampa nello stomaco e risale ogni arto, gli carbonizza occhi e lingua, arde nei suoi polmoni. Può essere estinto in un solo modo, con lo stesso liquido che lo alimenta, e si contorce ricercandolo tra gli spasmi che lo squassano.

«... dose massima... rischiare il coma...»

«... turni... Rogers?»

«... sì... tutti...»

Spilli di conversazioni che trapassano la febbre, e sbatte gli occhi nel buio puntinato di stelle enormi e troppo vicine. Mani che lo immobilizzano, che gli premono sulla fronte e che gli rimboccano le coperte che scalcia via. Serra i denti per impedirsi di delirare, ma parla lo stesso, le parole mozzate dai tremiti.

Li chiama. Sa che li chiama, anche se non possono più rispondergli, e i loro nomi hanno il sapore del sale, delle speranze infrante. Qualcuno lo stringe nel delirio tenendolo a galla, mani forti e salde e familiari a cui si aggrappa.

Sprofonda, poi riemerge. Annega, respira, ingoia acqua e torna sotto, nel mare ora nero, ora d'ambra, tra onde acide e fredde. Si aggrappa a relitti fragili. Sprazzi di nitidezza, cristallini nella massa di inchiostro che lo avviluppa. Banner sulla sedia accanto al letto, gli occhiali sul naso, una mano a stringere un libro e l'altra a reggere un termometro. Rhodey sulla sponda del materasso, che parla, racconta qualcosa che non comprende nemmeno, monocorde, ricordi adolescenziali di una vita e mezzo fa. Rogers lì in piedi, una sentinella sull'attenti che gli rivolge occhiate limpide e miti. Natasha accanto a lui, silenziosa, gli occhi in ombra, le dita che gli arricciano i capelli scivolandolo nel sonno.

Pepper che lo bacia, che si stringe nuda a lui sotto le lenzuola. No, quello non è reale. Peter che si appoggia a lui per fargli le orecchie da coniglio di soppiatto. Nemmeno quello è reale. Entrambi seduti accanto a lui, uno per lato, a parlare e parlare e parlare, a riempire il suo silenzio stringendogli le mani. Non è reale, non è reale. Ma ci crede lo stesso.

Bicchieri d'acqua e compresse. Aghi sottopelle. Bile e battiti frenetici e scorpioni e ragni. Lampi, percosse invisibili e lacrime. Vuole morire. Non vuole morire. No, no, non vuole morire, la morte è troppo simile a un portale senza sbocco, a un buco nero, ad acque profonde e torbide che gli rubano il respiro.

«Non stai morendo, Tones. Non stai morendo,» ripete qualcuno, distorto, e non sa se sia reale o nella sua testa.

Lo ascolta comunque, e non sta morendo, si convince, non sta morendo. È Iron Man. È Iron Man e non può morire. Il ferro non muore: si corrode e arrugginisce, si sgretola. Lui si sgretola, osso dopo osso.

Non se lo merita, di morire. Urla, ed ha di nuovo l'armatura addosso, è invincibile e troppo fragile, la sua corazza si sfalda e si ricompone in un ciclo infinito finché non si fonde a lui, donandogli un vuoto allo stomaco e l'impressione fasulla del volo che precede la caduta.

 
§
 

Schiude gli occhi e la luce è accecante, anche se è solo penombra – grigia e viola, brulicante di puntini. Apre appena le labbra, una fessura sottile che libera un gemito rauco: qualcosa, qualcuno, si muove accanto a lui facendo affondare il materasso.

«Pepper,» chiama, appena udibile, e ci crede davvero, ci crede con tutto se stesso finché non distingue i lineamenti duri di Rhodey, contorti in un'espressione addolorata.

Non gli risponde e forse pensa che sia semincosciente e stia solo delirando. Chissà quante volte l'ha chiamata inutilmente. Quante volte ha costretto lui e tutti gli altri ad ascoltarlo. Sente che gli scosta i capelli dalla fronte, premendovi il palmo ampio per testargli la temperatura. Sospira insoddisfatto, gli sistema meglio le coperte a coprirgli le spalle e rimane in silenzio, immobile, per un tempo che gli sembra lunghissimo. Tony respira appena, una molecola d'aria alla volta, il volto sprofondato nel cuscino. Ha una flebo nel braccio e si sente sporco; gli gira la testa e ha freddo, dopo l'incendio ha un freddo terribile, ma non riesce nemmeno a muoversi per rannicchiarsi meglio sotto le coperte. Richiude gli occhi, intorpidito.

Lo scatto della porta gli trapassa i timpani, e qualcuno si affaccia dallo spiraglio buio.

«Vuoi il cambio?» chiede Natasha, sottovoce.

«Sì, grazie,» replica Rhodey, e la sua voce è roca, sfibrata, come se avesse urlato per ore.

«Novità?»

«Continua a delirare, ma la febbre si è abbassata.» Lo sente deglutire rumorosamente. «Banner che dice?»

«Che siamo entrati nella curva positiva e che possiamo sospendere il lorazepam,» risponde concisa lei, e il materasso sprofonda ancora quando si siede accanto a lui e armeggia poi con la sua flebo, rimuovendo l'ago con un pizzico acuto e metallico che gli risale la vena. «Ha detto che ha visto di peggio, e che in fin dei conti è un bene che abbia smesso di bere gradualmente.»

Tony è certo, anche oltre il drappo torrido della febbre, che vi sia un pizzico di compiacimento nella sua voce. Rhodey sospira profondamente, in quel modo esasperato di solito associato a quel migliore amico che gliene fa passare di tutti i colori.

«Mi farà prendere un infarto, Cristo, ed è lui il cardiopatico,» sbotta snervato, ma con una sensibile nota di sollievo.

Tony si trattiene dal parlare perché è certo che quello sia un ottimo modo per farglielo venire, quell'infarto. E non riesce comunque a racimolare abbastanza inventiva per una replica arguta. Un brivido gli risale la spina dorsale, evidente, e Rhodey gli stringe di riflesso un braccio come a impedire ad esso di diffondersi.

«Ci siamo andati vicini tutti,» risponde Natasha, pragmatica ma con una punta di rimprovero. «Vai a riposarti, Rhodes. Il mio o quello di Steve dovrebbe essere l'ultimo turno, poi ci penserà Bruce,» dice con sicurezza.

Sente Rhodey che lo scrolla appena per la spalla a mo' di congedo, per poi alzarsi dal letto e imboccare a passi pesanti la porta. Natasha rimane in silenzio e Tony tiene gli occhi chiusi, cercando di capire se le ondate di nausea che sente siano abbastanza preoccupanti da doverla avvertire. Un altro brivido, e stavolta porta appena le ginocchia al petto, stupendosi di non sentire una patina di ghiaccio che scricchiola quando si muove. O di non sentire mille esseri zampettargli sulla pelle. Ragni, di tutte le creature orripilanti a questo mondo. Ragni e tarantole. Le intravede agli angoli della sua visuale, sui muri, si chiudono su di lui in un'orda brulicante.

«Sei sveglio,» dice d’un tratto Natasha a mezza voce, con la stessa inflessione che userebbe per proferire un "tana per Tony".

Lui si forza ad aprire uno spiraglio negli occhi, trovandosi a fissarla in volto. La replica pungente che gli sale alle labbra emerge in un gracidio incomprensibile, vanificando il suo intento sarcastico. Crede di vedere un fioco sorriso sul suo volto, ma non ne è certo.

«Se già cerchi di rispondermi per le rime, stai meglio di quanto pensiamo,» commenta poi, raccogliendo le gambe sotto di lei in una posizione più comoda.

«Non...» gracchia Tony, e si schiarisce la gola sentendo un sapore metallico e acido in bocca. «Non sto così male,» riesce ad articolare, debolmente.

Lei scrolla la testa, alzando un sopracciglio.

«Tutto qui? "Non sto così male?"»

A Tony sfugge un sorriso fiacco che gli tende le labbra screpolate.

«Cosa pretendi, da un uomo appena scampato alla morte?» dice, con un filo di voce.

«Il solito esagerato,» lo rimbecca lei premendogli svelta una mano gelida sulla fronte.

Lui si ritrae, pentendosene all’istante quando sente un'incudine piombargli sul cranio a quel minimo movimento.

«No, non toccarmi… faccio schifo,» bofonchia in uno sprazzo di consapevolezza, sentendosi come se qualcuno l'avesse gettato in un tritacarne.

«Non è la tua ora peggiore: ti abbiamo fatto un bagno prima,» ribatte Natasha, riuscendo nell'intento di distruggere quell'ultimo barlume di dignità che gli rimaneva, e riuscendo anche in quello di misurargli la febbre. «È ancora alta. Dormi, ne hai bisogno,» gli intima poi, seccamente.

Tony sospira senza energia. È esausto, ma dietro le palpebre lo attendono ombre non più informi e spettri traslucidi. C'è Pepper nel buio, distesa accanto a lui. C'è Peter seduto ai piedi del letto, appena distinguibile. Li vede. Non dovrebbe vederli.

«Non ho sonno,» ribatte a stento, combattendo l'impulso di chiudere gli occhi.

«Bugiardo.»

«Non voglio dormire,» si corregge quindi, scosso da un altro brivido che gli fa vibrare le vertebre come sonagli.

Natasha non risponde. Aspetta, intuendo chissà come che ha altro da dire, ed è come se con quella pausa gli tirasse fuori le parole: gli scivolano dalle labbra come un ruscello appena sgorgato.

«Sono qui,» sussurra di getto, senza riuscire a frenarsi, e forse la febbre è davvero troppo alta e dovrebbe tacere. «Li... vedo, anche adesso, e so che non...» prende un respiro troppo grande, doloroso, stringendo il cuscino con forza, la poca che sente nelle mani, «... che non è possibile,» esala infine con la bocca impastata, soffocando un singhiozzo prima che si formi del tutto.

Sente gli occhi farsi lucidi lungo le ciglia. Non vuole vederli, anche se ne ha bisogno, non vuole riscivolare nei suoi mondi onirici fasulli. Vuole di nuovo un sonno senza sogni, di quelli neri e profondi che si fanno dopo una sbronza. Blackout totale. Si sente già oltre l'orlo dell'incoscienza e vorrebbe strapparlo. Non può ricominciare da capo, non può dare inizio a un ciclo infinito di oblio e agonia, un eterno ritorno alcolico.

«Non sono qui,» replica lei, mestamente, un dato di fatto scontato che però diventa più reale nel sentirlo pronunciare da altri.

La intravede voltarsi appena, sente un click e la stanza viene irrorata dalla luce soffusa dell'abat-jour che gli fa bruciare gli occhi. Rimane accecato, ma loro spariscono dissolti dal chiarore, miraggi mai esistiti. Vede Natasha, vera e reale accanto a lui, con più occhiaie del solito, una felpa decisamente enorme e non sua addosso e una piega corrucciata a segnarle le sopracciglia.

«Bruce ci aveva avvertito di non tenerti al buio. Immagino avesse ragione,» dice senza perdersi in chiacchiere, fattuale come sempre. «Dormi,» ripete poi, intimandogli con lo sguardo di seguire quella direttiva.

Tony vorrebbe chiudere gli occhi, ma sente il peso dell'oscurità addosso, liquida, densa. Ha ancora freddo e galleggia in un mare ghiacciato, con esseri spiraliformi che si contorcono negli abissi, pronti a ghermirlo.

«Potrei… avere incubi...» mormora, e c'è un tremito che gli scuote la voce, incontrollabile.

«Ti sveglio,» completa lei prontamente, con una sicurezza che lo disorienta.

«Dillo anche a Rogers,» si obbliga ad aggiungere, odiando la sola prospettiva di mostrarsi così vulnerabile in sua presenza.

«Rimango io,» ribatte lei. «Ora dormi, Tony,» ripete ancora, un ordine, ma con la voce che si ammorbidisce sul suo nome.

Lui scuote la testa accaldata, sfregando contro il cuscino, e sa che potrebbe comunque essere lasciato in balia di incubi ormai realizzati. Non ha garanzie, ha solo un abbraccio fragile, gesti che non comprende fino in fondo e mezzi non detti. Tiene gli occhi aperti, quasi sbarrati, cerca quelli di Natasha e ha paura a crederle; c'è un pugnale che gli preme contro la schiena e si chiede quando gli affonderà tra le costole come l'ultima volta in cui si è fidato di qualcuno. Trattiene a forza le lacrime che minacciano di rigargli il volto, come fosse più un modo per indurre l'alcol ad abbandonare pian piano il suo corpo, depurandolo, che una vera esternazione di tristezza. Di sconfitta, di frustrazione e nulla, il nulla che gli stringe il petto. Le ricaccia da dove sono venute e rilascia un sospiro tremante, umido. È stanco. È così stanco.

«Ti sveglio,» mormora di nuovo Natasha con più decisione, e nel dirlo si distende accanto a lui, vicina.

Lo circonda con un braccio da sopra le coperte, attirandolo a sé come qualche sera fa, quando il mondo aveva smesso di crollare per un istante. Tony respira il suo odore ancora estraneo e stavolta vi trova una nota rassicurante, boschiva, che gli dà l'impressione di giacere in una radura nel folto di qualche foresta. Si lascia stringere inerte, le braccia raccolte al petto come un bambino, perdendo lucidità in quel tepore uno spiraglio di luce alla volta. Mentre cede al sonno e alle inquietudini, sente che gli posa un bacio impalpabile sulla fronte bollente, ad accompagnarlo nel buio.

«Fidati.»



 


Note: 

- Il delirium tremens può scatenarsi in modo repentino e inaspettato circa una-due settimane dopo l'ultima assunzione d'alcol. Tutti i sintomi riportati sono realistici, anche se ognuno li sviluppa con gradi d'intensità e combinazioni diverse. Il vedere e sentirsi addosso ragni/insetti, per esempio, è un sintomo molto comune (formicolio) e si consiglia per questo di tenere i pazienti in piena luce, onde attenuare allucinazioni simili.
- Il lorazepam (Ativan) e il diazepam (Valium) sono entrambi benzodiazepine: il primo è più potente e viene smaltito più in fretta, mentre il secondo è più leggero ma rimane più a lungo nel sistema, di qui la scelta di differenziarne l'uso nel corso della storia a seconda della gravità dell'astinenza. Qui chiudo il bugiardino e perdonate la pignoleria :')
- Nella citazione d'apertura i protagonisti del libro Cercando Alaska citano Il generale nel suo labirinto di Gabriel G. Màrquez; il generale in questione è appunto Bolìvar.



Note dell'Autrice:

Cari Lettori... eccoci qui! Al punto clou (?) della faccenda, forse. O meglio, a un punto d'inizio. 
Il capitolo poggia le basi delle varie interazioni presenti su quella scena di Iron Man 2 in cui Tony e Natasha parlano prima della disastrosa festa di compleanno a Malibu, oltre ai vari momenti di debolezza esternati da Tony in Iron Man 3. È molto bravo a dissimulare e cercare distanze, ma si può fare ben poco quando si è colti da un disagio che da puramente mentale diventa anche fisico e debilitante. Ricordo che gli strascichi di space dementia sono ancora ben presenti, e sono solo enormemente amplificati dai deliri d'astinenza.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e/o recensito fin qui <3
Alla prossima,

-Light-

 
   
 
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