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Autore: Saelde_und_Ehre    07/02/2020    5 recensioni
Fronte Orientale, inverno 1942.
L'esercito tedesco è intrappolato nell'inferno ghiacciato di Stalingrado, accerchiato e ridotto alla fame, mentre il gelo miete più vittime dei proiettili.
Due ufficiali della Wehrmacht, provati da mille difficoltà ma per nulla intenzionati ad arrendersi, decidono di unire le loro forze per proseguire l'avanzata verso la città, ma tra loro si instaura un legame più forte della rovina incombente.
Una storia d'amore, di guerra e di morte.
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Eccoci al terzo (nonché terzultimo) capitolo di questa storiella.
Ringrazio tutti quelli che sono passati da queste parti e mi hanno lasciato dei commenti, sperando che la vicenda continui a interessarvi.


Come sempre, ogni presa di posizione da parte mia è totalmente assente da questa storia, che non vuole essere altro che un tentativo di ricostruire quella che doveva essere la vita sul fronte orientale (e la battaglia di Stalingrado, con tutta la sua Weltanschauung) dal punto di vista di due ufficiali tedeschi, vista attraverso i loro occhi e filtrata attraverso la loro sensibilità.

Buona lettura.


 
III.

 
 
La situazione al fronte non è mai stata così drammatica. Novembre ha portato con sé un’altra ondata di gelo dalla Siberia, che ha spazzato via anche le più flebili speranze di vittoria. Come fagotti tremanti, i soldati si aggrappano ai fucili e alle macerie in attesa dell’ennesimo attacco sovietico. Dormono sonni inquieti col capo reclinato sul grembo dei camerati, addossati l’uno all’altro contro le pareti della casamatta. Una stufa scassata emana onde di calore effimero, che si disperde in fretta attraverso gli spifferi; l’artiglieria rimbomba in lontananza come un eterno temporale senza pioggia. Fino a qualche giorno prima, quella struttura difensiva apparteneva ai russi: scritte in un cirillico incerto inneggiano a Stalin e alla Grande Madre Russia.
Schwerin ha le mani puntate sul tavolo e fissa la mappa; Richter non si stacca dal binocolo. Sembrano due belve in gabbia, logorate dal senso d’impotenza: nessuno può prevedere quando le trincee erutteranno una nuova ondata di nemici.
“La radio non prende, i camion in panne hanno le ruote impantanate nel ghiaccio.” Schwerin pronuncia quelle parole con distacco, senza il coraggio di guardare in faccia il collega. “Il Don è una lastra ghiacciata, non arrivano rinforzi né rifornimenti. Siamo bloccati qui.”
Hermann si lascia ricadere il binocolo sul petto con un sospiro. “Possiamo solo resistere a oltranza. Anche l’Armata Rossa è nella stessa situazione, ma non si arrende.”
Si scambiano un lungo e significativo sguardo. Alla fine, Schwerin abbassa di nuovo gli occhi sulla mappa e mormora: “Anche i loro comandanti sanno bene qual è la posta in gioco.” Per un attimo pare che la sua espressione risoluta vacilli, velata dal dubbio, ma subito dopo stringe il pugno e se lo porta al petto, quindi alza di nuovo la testa. “La guerra non sarà persa finché resterà ancora qualcuno con la volontà di combattere.”
Hermann non risponde: anche se per un brevissimo istante, Schwerin l’ha messo a parte dei suoi dubbi, e lui ha come l’impressione che gli abbia mostrato un lato di sé che a chiunque altro sarebbe precluso. Tuttavia, lo vede ergersi come un faro nell’oscurità, una fiamma che arde in tutto quel gelo.
“Signor maggiore!”
A quelle parole, i due si voltano di scatto: un tenente è entrato nella casamatta, facendo spirare all’interno una potente ventata di freddo che arriccia la mappa. È un ragazzo pallido e allampanato, con un mitra a tracolla, che non dimostra vent’anni. Si ferma davanti a Schwerin e si irrigidisce sull’attenti. “Signore, abbiamo sventato una sortita. Ci sono dei prigionieri.”
“Arriviamo subito.” L’ufficiale ha parlato al plurale, includendo anche Richter, che lo segue senza dire una parola.
Attraversano un camminamento scavato in una fossa dalle pareti ghiacciate mentre vortici di neve cadono da un cielo privo di colore, quindi giungono a una postazione dove quattro soldati con le mani alzate e la stella rossa sull’elmetto sono sorvegliati dai fucili di altrettanti fanti in grigioverde.
I due più anziani tra i bolscevichi rimangono in silenzio a fissare i tedeschi con un misto di astio e timore, ma non osano muovere un dito. Un terzo ha una vistosa ferita da taglio sulla guancia e un proiettile gli perfora la gamba.
Alla vista dei due ufficiali, l’ultimo prigioniero, un ragazzo gracile con l’elmetto che gli copre gli occhi, china il capo e grosse lacrime iniziano a scorrergli sulle guance. “Pomotsch,” mormora, il petto scosso da potenti singhiozzi.
Per tutta risposta, uno dei soldati lo colpisce, ma un gesto perentorio di Schwerin lo induce ad abbassare il fucile.
Il maggiore si avvicina al ragazzo, che si morde il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, quindi si ferma di fronte a lui e a bassa voce, in russo, gli dice qualcosa che da quella distanza Hermann non riesce a cogliere. Ha un tono fermo e autorevole, ma le sue parole riescono in qualche modo a riscuotere il ragazzo, che annuisce e riserva occhiate remissive ai suoi carcerieri.
“Accompagnateli nel rifugio, fate medicare il ferito e lasciate qualcuno a sorvegliare a vista gli altri. Chi maltratta un prigioniero inerme dovrà risponderne a me personalmente.”
Richter non può fare a meno di stupirsi del comportamento del suo parigrado: da quando si trova in Russia ha visto fucilare decine di uomini ed è ormai troppo avvezzo a quel modo sporco di fare guerra, senza quartiere e senza prigionieri. Schwerin invece non si è lasciato corrompere: se lo immagina su un alto destriero da guerra, con un’armatura lucida e la lancia ornata di nastri. Un cavaliere in un mondo che va scomparendo, un uomo tra le rovine, nobile nell’animo prima che nel nome.
 
 
Za Rodinu! Za Stalina!” Le grida dei russi irrompono nel silenzio della notte, accompagnate dalle salve di altrettanti fucili e dal crepitare furioso delle mitragliatrici. “Vperjod!” Centinaia, migliaia di gole innalzano al cielo un gigantesco Hurra mentre le bocche dei cannoni vomitano tonnellate di fuoco. “Za Stalina! Hurra pobieda!
Appiattito dentro una buca insieme a due soldati con la mitragliatrice pesante, il maggiore Richter ritira la testa tra le spalle. Colonne di fumo plumbeo si torcono nell’aria, rendendola così rovente da far sciogliere la neve prima ancora che tocchi terra.
Sieg Heil!” urla un sottufficiale incitando i propri uomini, ma la sua voce è troppo timida per coprire il fragore della battaglia. Stanchi e sfibrati, pochi soldati si uniscono, preferendo combattere in silenzio. Intorno a loro ci sono reparti della Wehrmacht, delle Waffen-SS, perfino della Hitlerjugend: combattono dietro muri crollati, nelle voragini scavate dagli obici, dietro ridotti di sacchi ammassati alla rinfusa; focolai di scontri dilagano per tutto il centro abitato. La differenza è che, quando un tedesco muore, i camerati si stringono intorno a lui cercando di resistere; quando muore un russo, al suo posto ne sopraggiungono altri dieci, che combattono con più furore e urlano a voce più alta.
Hurra pobieda!” Il grido, prima vigoroso, perde d’intensità fino a rendere più chiaro un ruggito di motori in sottofondo.
“Sono i nostri Tiger! Gott mit uns!
Alla vista dei carri armati, che procedono allineati per la strada principale sferzando lo schieramento nemico con raffiche di mitragliatrice, i bolscevichi si disperdono come bestie braccate e i tedeschi si avventano su di loro con rinnovato furore.
Richter fa per strisciare via dalla propria postazione, quando a pochi metri di distanza, leggermente più avanti, intravede la figura ormai familiare di Schwerin che sta cercando di tenere a bada un’orda di russi a colpi di pistola, riparato dietro i resti di un muro di mattoni. Uno dei soldati della sua scorta viene colpito da un proiettile e si accascia per terra come un sacco vuoto. Subito dopo, un altro lascia cadere il fucile e si rannicchia contro il muro gemendo di dolore. La neve ai suoi piedi è macchiata di sangue e il maggiore è rimasto solo.
Hermann si rende conto dell’istinto che lo ha guidato fin lì soltanto quando, ginocchia a terra, si accorge di aver sfidato una bordata di proiettili solo per raggiungerlo.
L’altro lo fissa sbalordito. “Richter?” Ha la fronte imperlata di sudore e i suoi occhi azzurri sono un tocco di colore in tutta quella tetraggine.
“Attento!” è la risposta. Richter lo afferra per un braccio e lo trascina in copertura mentre una salva di bossoli tintinna a un palmo dalla sua spalla, poi si sporge appena e spara al russo armato di mitra, che scompare dietro un cumulo di macerie senza un lamento.
“Adesso non c’è più nessuno,” mormora, mentre l’altro abbassa il braccio armato e riprende fiato.
Si abbandonano con la schiena contro il muro, spalla a spalla. Schwerin cerca la sua mano e le loro dita si sfiorano appena, in un muto gesto d’intesa. “Non mi aspettavo di trovarla qui... camerata.”
Hermann si limita a rafforzare la stretta intorno al suo polso, senza dire nulla né voltarsi verso di lui. Non c’entra niente la gratitudine per essere stato salvato da prigionia o morte certa: è qualcos’altro, che lo porta quasi a considerarlo un amico. Insieme hanno vegliato, marciato e sopportato ore di incessanti bombardamenti. Insieme hanno provato stanchezza, fame e paura, ma si sono fatti forza con la reciproca presenza. Si rende conto che non conosce nemmeno il suo nome di battesimo, non sa da dove venga né quale sia la sua storia, ma nella Wehrmacht nulla di questo conta. Sa solo che sotto quell’uniforme c’è un uomo nelle cui mani può tranquillamente riporre la propria vita, e tutto il resto passa in secondo piano.
 
 
Fiocchi bianchi si posano sulla terra bruciata dal gelo, nascondendo alla vista i campi minati e i labirinti delle trincee. Nella piazza sgomberata dal ghiaccio, i soldati stanno salendo sui camion, pronti per riprendere la marcia.
Prima di partire, Hermann si guarda intorno alla ricerca del suo collega, sperando di scorgerlo tra le file di ufficiali inferiori radunati intorno all’uscita del rifugio.
Lo individua alla fine, mentre in disparte osserva gli uomini del suo reparto, le mani dietro la schiena e il berretto leggermente sulle ventitré.
Si avvicina e gli rivolge un rapido saluto militare. “Schwerin, la stavo cercando.”
L’altro si volta verso di lui; il cielo infuocato dell’alba fa risaltare i suoi occhi azzurri sul volto dal profilo aristocratico. “Può chiamarmi Eugen.”
Colto alla sprovvista, Richter fatica a credere a ciò che ha appena udito: è la prima volta che lo sente usare con tanta disinvoltura il proprio nome di battesimo. Ha come l’impressione che l’altro gli abbia accordato un privilegio che non concede spesso. “Va bene... Eugen.” Annuisce, ricomponendosi. “Solo se lei mi chiama Hermann, però.”
“Hermann,” ripete l’altro, in un tono che fa sembrare l’inflessione della sua voce ancora più calda.
In quell’istante sospeso, i loro respiri si condensano in tenui nuvolette di vapore; si scambiano uno sguardo e si sentono come se fossero in confidenza da sempre. La consapevolezza li colpisce come un fulmine a ciel sereno, ma la presenza dei loro subalterni li trattiene dal fare un ulteriore passo avanti.
 
La buca che ospita i due ufficiali è una cantina dal soffitto basso, da cui i pezzi d’intonaco si staccano come farina. Fuori, da ore, ulula un’implacabile bufera di neve.
“È la fine del mondo, un dannato inferno ghiacciato...” geme un soldato.
Uno dei più anziani, che dall’aspetto si direbbe un veterano della Grande Guerra, si rigira nervosamente tra le coperte e grugnisce: “Se andiamo avanti di questo passo, la neve ci sommergerà tutti. Non ci ritroveranno più.”
Si fa avanti un sergente, all’incirca dell’età di Schwerin e Richter. È alto, vigoroso, sembra uscito da un manifesto di propaganda. “Basta così!” li rampogna. “Se volete morire, uscite fuori e sdraiatevi per terra: sarà questo gelo infame la vostra tomba. Nessuno si ricorderà più di voi e state certi che non mancherete a nessuno.” Nessuno osa replicare mentre il giovane, mani puntate sui fianchi, scruta i soldati a uno a uno. “E voi sareste soldati della Eisenfaust? Mi sembrate un branco di smidollati! Tirate fuori le palle e smettete di lagnarvi, o abbiate almeno la decenza di tenervi codesti pensieri per voi. La tempesta finirà.”
“La tempesta finirà...” ripete un giovanotto. “Signorsì, signore.”
A quelle parole, l’espressione del sottufficiale si ammorbidisce. “Animo, ragazzi miei. Chi si dà per vinto è già perduto.” Si lascia scivolare il fucile giù dalla spalla, prende una cassetta di munizioni vuote e va a sedersi di fronte a loro, accavallando le gambe. “Cantiamo qualcosa, piuttosto.”
Un giovane caporale tira fuori un’armonica a bocca e, mentre il vento ulula e muggisce, i soldati intonano un timido canto.
 
Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
Dort wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit.
 
(Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.
Laggiù, dove le stelle incontrano il margine del bosco, germoglia una nuova epoca.)
 
In piedi di spalle, le mani dietro la schiena, il maggiore Richter – o meglio, Hermann – non si muove: sembra assorto nella contemplazione del poco cielo che si riesce a intravedere da una fenditura nel muro.
 
Jeder brave Grenadier sehnt heimlich sich nach dir.
Jo! Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
 
(Ogni buon soldato prova nostalgia per la sua terra.
Sì! Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.)
 
Anche Schwerin si mantiene in disparte, ma per un attimo si sorprende a chiedersi che cosa stia pensando. Qualcosa, tuttavia, lo trattiene dall’avvicinarsi a lui e offrirgli uno spunto per conversare: si trovano a tu per tu da quasi un mese, hanno combattuto fianco a fianco e si sono difesi senza chiedere nulla in cambio, ma il suo mondo interiore rimane un mistero insondabile.
Forse è il carattere ombroso di Richter, forse sono gli stessi scrupoli di quella notte nelle trincee. Eppure, si sente di considerarlo un camerata, un amico, qualcuno con cui abbia condiviso una fetta significativa della propria vita. Sono due ufficiali superiori, ciascuno a guida di un’accozzaglia di battaglioni sbandati, ma le uniformi logore e i cappotti consunti li rendono poco più che due fagotti di stracci con le mostrine lucide e qualche medaglia. Perfino i vincoli di formalità si allentano, in casi del genere.
 
Die Wolken ziehn dahin, daher, sie ziehn wohl übers Meer.
Der Mensch lebt nur einmal, und dann nicht mehr...
 
(Le nuvole si muovono nel cielo, sorvolano il mare.
Si vive solo una volta, e poi non più...)
 
Gli ritornano in mente i tempi in cui il principe Eugen von Schwerin-Wolfshagen, all’epoca capitano della Luftwaffe, si presentava col proprio nome per intero ed era sempre alla ricerca di nuove avventure. Aveva ricevuto vari richiami disciplinari per il suo atteggiamento sopra le righe, era stato sballottato da uno Stukageschwader all’altro ed era piuttosto spigliato nel dare sfogo alle proprie inclinazioni, anche se per quell’ultima cosa aveva sempre adottato la massima discrezione. Ciò lo rendeva però anche ardito, spericolato quando c’era da partire per una missione, e gli era fruttato una croce di cavaliere per aver affondato un incrociatore inglese al largo di Calais, dileguandosi poi sotto gli occhi attoniti di una squadriglia di Hurricane senza che il suo aereo subisse danni.
Era andato avanti così almeno fino a quando non aveva conosciuto Jörg, un lanzichenecco alla conquista di Parigi, un capitano delle truppe corazzate che dilagavano per le campagne francesi.
Eugen si era tirato fuori a fatica da uno Stuka in fiamme, le mani e il volto imbrattati di sangue, e si era imbattuto in un gruppo di Panzergrenadiere di ritorno da una sortita. Lutz, il suo mitragliere, era morto prima che l’aereo toccasse terra, e i soldati dello Heer lo avevano aiutato a seppellirlo sotto l’ala di gabbiano rovesciata, salutandolo a braccio teso come un vecchio camerata.
Jörg lo aveva ospitato nei baraccamenti della sua compagnia, ferito, in attesa che qualcuno del suo stormo venisse a recuperarlo. Tra loro c’era stata una passione intensa ma fugace, imprevista, consumata nei pochi momenti di tregua dalle battaglie.
A quei tempi la Germania era gloriosa e potente, e Jörg non era vissuto abbastanza per vederla raggiungere l’acme e precipitare poi inesorabilmente verso la rovina.
Dentro di lui ardeva un fuoco che si è spento troppo in fretta.
Schwerin si riscuote all’improvviso: non sa perché gli è tornato in mente; forse non l’ha mai dimenticato. Certe cose non si dimenticano mai facilmente, non quando si arriva a condividere così tanto per così poco tempo. Dopo di lui non c’è stato più nessun altro, ma quel poco che hanno vissuto insieme basta a non fargli rimpiangere la sua vecchia vita e il tempo passato a rincorrere uomini che non sono stati capaci di lasciare il segno.
E in quel momento, alza gli occhi sulla figura imponente del suo parigrado che si erge come un pilastro nell’oscurità, si perde a fissare la sua nuca bionda. È immobile, ma per un istante gli sembra di rivederlo mentre con un gesto da predatore afferra una vanga da trincea e si lancia nella mischia per difendere i suoi soldati.
Si rende conto che è stato proprio lui a fargli tornare in mente quei ricordi: è portatore dello stesso fuoco, che arde con altrettanta intensità al di sotto della scorza di ghiaccio.
 
Die Wolken ziehn dahin, daher, sie ziehn wohl übers Meer.
Der Mensch lebt nur einmal, und dann nicht mehr...
 
(Le nuvole si muovono nel cielo, sorvolano il mare.
Si vive una sola volta, e poi non più...)
 
Fa un passo avanti e gli si avvicina. “Hermann,” lo chiama, a voce bassissima.
L’altro si volta verso di lui con un sobbalzo, ma subito dopo le sue labbra si piegano in un accenno di sorriso. “Eugen.”
Rimangono per qualche istante in silenzio, mentre un sibilo più forte s’insinua tra le feritoie. Schwerin conosce bene gli uomini, ma con lui si sente stranamente impacciato: teme di metterlo in imbarazzo o di indisporlo, e allontanarlo da sé è l’ultima cosa che vuole. Come sempre quando è nervoso, si morde il labbro inferiore. “Tu senti mai la mancanza di casa?” gli chiede infine, indicando con un cenno del capo i soldati che cantano.
“Non lo so,” ammette l’altro, con una scrollata di spalle. “Adesso il mio posto è qui, al fronte... almeno fino a quando questa guerra non sarà vinta. Sinceramente credo che ci sia più bisogno di me qui che in Patria.”
Eugen annuisce. “È così per tutti noi.” Segue una lunga pausa, poi soggiunge: “Tu di dove sei, se posso chiedere?”
“Eisenach, in Turingia. È da tanto tempo che non ci torno, però.”
“È una bella città, ricca di cultura e storia.”
“Sì, quando passeggi per il centro storico o per i dintorni, ai piedi del castello di Wartburg, è come fare un viaggio indietro nel tempo.” Gli occhi di Hermann si illuminano appena nel riflesso delle candele. “Ci sei mai stato?”
Egli annuisce. “Ho girato la Germania in lungo e in largo, più volte, e considero casa mia ogni luogo dal Maas al Memel, dall’Adige al Belt. La mia famiglia è originaria della Pomerania, ma io sono nato e ho vissuto a lungo in Prussia Orientale... mi piacerebbe ritornarci, un giorno.”
 
Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
Dort wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit.
 
(Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.
Laggiù, dove le stelle incontrano il margine del bosco, germoglia una nuova epoca.)
 
“Mi chiedevo se...” Tentenna, poi tace.
Hermann sembra vagamente deluso. “Se?”
Egli scrolla il capo. “No, niente. Cose militari, ma ne abbiamo già parlato.” Gli volta le spalle, si avvicina alla caffettiera. Con gesti imprecisi versa del caffè in due tazze e vi lascia cadere due zollette di zucchero, poi gliene porge una senza neanche guardarlo in faccia. “Ne prenda un po’, Richter. Ci converrà rimanere svegli, stanotte...”
“Eugen.” La mano dell’altro gli si poggia sulla spalla. “Se hai qualche dubbio, parliamone. Sai che non ci è concesso di sbagliare o fallire.”
Schwerin si limita a sorbire il suo caffè freddo, senza dire nulla: in realtà la strategia non c’entra niente con la sua titubanza. La verità è che ha offerto a Richter un grado di confidenza che da anni non offriva più a nessuno, e l’ha fatto quasi senza pensarci, senza tenere in conto le conseguenze che quel gesto potrebbe avere. Ma c’è anche qualcos’altro, qualcosa che non aveva previsto e che non deve ripetersi: se Richter lo venisse a sapere, se dovesse sospettare qualcosa, tutto ciò che hanno duramente conquistato in quelle settimane finirebbe spazzato via da uno scandalo senza precedenti. “Ho piena fiducia in te e nei nostri uomini, Hermann,” si costringe a dire, alla fine. “Nemmeno in passato sono mai stato così sicuro di poter resistere alla marea rossa.”
“E questa è la cosa importante,” gli dice l’altro, prendendo la tazza di caffè dalle sue mani.
Schwerin annuisce, ma ancora una volta preferisce guardarlo negli occhi e tacere. Non ci sono parole per esprimere quello che vorrebbe dirgli in quel momento; forse nemmeno lui le conosce.
 
 
Mentre il sole spande i suoi ultimi raggi dorati sulla terra di nessuno, il reggimento macina altri chilometri in terra russa. La neve è così alta che da essa riaffiorano solo creste di muri, e a un lato della strada s’intravede la carcassa di un T-34 col cannone rivolto verso il cielo.
Le canzoni risuonano tristi per il paese fantasma, le voci sono stanche, i volti rigati di lacrime.
Il maggiore Richter dà ordine alla schiera di fermarsi all’ombra di una quercia spoglia, quindi balza giù dal camion. Schwerin lo imita poco dopo, seguito dagli altri soldati: alcuni recano delle vanghe e delle croci di legno, altri trascinano a braccia i sudari dei caduti – non tutti hanno diritto a una bara.
Senza voltarsi verso di loro, Richter alza lo sguardo sull’albero: alto diversi metri, con un tronco robusto e rami nerboruti, dà l’idea di essere resistito a mille anni di intemperie e di turbolenta Storia russa. “Camerati!” La sua voce rimbomba nel silenzio, riverbera nell’aria gelida. “Oggi più che mai le difficoltà sono immense, ma noi siamo ancora qui e non ci è concesso demordere. Qui, alle porte di Stalingrado, ci stringeremo gli uni agli altri, ci sentiremo parte di un unico gruppo e renderemo onore al sacrificio dei nostri compagni. Chi si dà per vinto è già perduto.”
Cita involontariamente le parole del sergente che arringava i soldati nel rifugio, caduto in combattimento quella mattina stessa. È lui il primo a essere tumulato ai piedi della quercia, in una modesta cassa da morto avvolta nella bandiera di guerra del Reich.
Gli stessi soldati dell’altro giorno riprendono a cantare.
 
Ich hatt’ einen Kameraden
einen bessern findst du nit
Die Trommel schlug zum Streite,
Er ging an meiner Seite
In gleichem Schritt und Tritt.
 
(Avevo un camerata
non ne puoi trovare uno migliore.
I tamburi incitavano alla battaglia
lui stava saldo accanto a me
allo stesso passo di marcia.)
 
Mentre la neve riprende a fioccare nell’aria, le tombe dei caduti vengono ricoperte di terra e i loro elmetti d’acciaio apposti sulle croci. Forse in primavera vi cresceranno dei fiori.
 
Eine Kugel kam geflogen,
Gilt's mir oder gilt es dir?
Ihn hat es weggerissen,
Er liegt vor meinen Füßen
Als wär's ein Stück von mir.
 
(Giunse fischiando una pallottola;
è per me, oppure per te?
L’ha strappato alla vita,
egli giace ai miei piedi
come se fosse una parte di me.)
 
Richter assiste in rispettoso silenzio alla cerimonia, con le mani nelle tasche del lungo cappotto.
Cerca di fare il vuoto nella mente, ma il ricordo di Werner Altendorf lo colpisce ancora una volta come una stilettata ghiacciata che lo trapassa da parte a parte. Lo sguardo vacuo fisso di fronte a sé, si irrigidisce e stringe i pugni.
Era autunno, allora, nei pressi di Smolensk: il capitano gli aveva comunicato via radio che la vittoria era vicina e quel giorno stesso era morto in maniera orribile. Hermann non aveva potuto far altro che giungere sul posto e assistere impotente mentre spirava, la mano stretta nella sua. Di quella compagnia non era rimasto nemmeno un superstite.
Quel giorno, Hermann ha perso molto più che un semplice camerata: è come se insieme a Werner fosse morta anche una parte di lui.
 
Will mir die Hand noch reichen,
Derweil ich eben lad'.
"Kann dir die Hand nicht geben,
Bleib du im ew'gen Leben
Mein guter Kamerad!"
 
(Vuole tendermi ancora la mano
mentre ricarico il fucile.
Non posso darti la mano,
riposa in pace nella vita eterna,
mio buon camerata!”)
 
Si dice che morire combattendo per la propria Patria sia l’onore più grande per un soldato, ma spesso non basta ad alleviare il peso che una tale perdita si porta dietro. Soprattutto se di quella morte ci si sente indirettamente colpevoli.
Ai caduti di quella compagnia era stata riservata una cerimonia solenne: Hermann ricorda ancora le bandiere scarlatte che avvolgevano i feretri, la parata funebre e gli ufficiali in alta uniforme che cantavano, con gli elmetti lucidi e le sciabole alla cintura. Lui faceva parte della guardia d’onore, ma ha vissuto l’intero evento come una sorta di strano incubo allucinato.
Tu senti mai la mancanza di casa, Hermann?”
Non lo so. Ogni volta che torna in Turingia deve attraversare le stesse strade, visitare gli stessi parchi e percorrere gli stessi viali, pur sapendo che lui non tornerà più. Non potrà più vedere il guizzo di baldanza nei suoi occhi di cielo, né intrecciare le dita tra i suoi capelli biondi nei loro preziosi momenti di solitudine. Una lapide spoglia nel cimitero della città, con incisi il suo nome e una croce di ferro, è tutto ciò che resta di lui.
Sente lo sguardo di Schwerin su di sé, ma si sforza di restituirgli una facciata impenetrabile. Qual è il confine tra il cameratismo e l’ineffabile sintonia che serpeggia tra due uomini uniti dagli stessi intenti? Cos’è che marca la differenza tra un soldato modello, dedito ai commilitoni prima che a se stesso, e quello che verrebbe bollato senza indugi come un depravato privo di dignità? Forse, se Eugen conoscesse il suo tormento, non lo guarderebbe più con gli stessi occhi. Nella migliore delle ipotesi gli riderebbe in faccia e gli negherebbe la sua amicizia, nella peggiore lo denuncerebbe, condannandolo a finire la guerra in galera e privato della possibilità di dare il suo contributo.
E su di lui, oltre al disonore, peserebbe la colpa di una seconda sconfitta.
Nell’aria riecheggiano per tre volte le salve dei fucili, come ultimo saluto ai caduti.
L’ufficiale sente che i suoi occhi si inumidiscono e mentalmente incolpa il vento sferzante.
 
Prima che la tempesta renda la strada impraticabile, i soldati riescono a ottenere asilo presso alcuni contadini russi, che mettono a disposizione le loro isbe. Una di esse, completamente disabitata, funge da quartier generale per i due comandanti; le altre vengono occupate dalle compagnie.
Fuori imperversa la bufera, ma nel camino arde un grosso ciocco di legna, e i soldati, seduti a gambe incrociate per terra, bisbigliano, borbottano e ridono mentre divorano i loro pasti caldi. Due massicci cani da pastore col pelo lungo come lana di pecora girano loro intorno e li annusano, per poi avvicinarsi e accettare le loro carezze.
Gli anziani padroni di casa, a capo di una famiglia che conta almeno quattro generazioni, si stringono l’uno all’altro per invitare alla loro tavola gli ufficiali; parlano in un dialetto così stretto che capiscono solo a metà il russo letterario del maggiore Schwerin, e si limitano ad annuire con aria dimessa mentre rimestano i cucchiai nella zuppa. Hanno occhi chiari e tristi, barbe lunghe come i simulacri delle divinità slave, e sembrano depositari di una saggezza che il comunismo delle città non ha mai conosciuto.
Seduta a un angolo della tavola c’è una ragazza tutta sorrisi e lentiggini, con una lunga treccia bionda che le ricade sulla spalla, che ascolta le parole del maggiore indugiando con occhi languidi su di lui. Eugen ci fa caso appena, mentre con lo sguardo cerca Richter: neanche lui parla, solo di tanto in tanto risponde con un grugnito d’assenso quando qualcuno lo interpella.
Finita la cena, la maggior parte dei soldati tornano ai loro dormitori improvvisati, ma qualcuno si trattiene ancora insieme alle ragazze e agli anziani dal volto senza tempo. Comunicano tra loro a gesti e frasi prive di significato, cantano canzoni popolari e festeggiano una vittoria di cui a quei vecchi contadini probabilmente non importa nulla.
L’anziana babushka, incurante delle chiacchiere dei tedeschi, si siede in un angolino a sferruzzare una sciarpa e il vecchietto dalla barba lunga si assopisce su una sedia a dondolo.
Schwerin e Richter rimangono in disparte, uno a scaldarsi le mani seduto su un ceppo vicino al fuoco e l’altro alla finestra, a osservare la neve che si posa sui tetti spioventi.
Come l’altro giorno nel rifugio, si trova a pensare Eugen. Vorrebbe avvicinarsi, ma ancora una volta l’esitazione gli impedisce di allontanarsi dal suo angolo caldo. Sa che anche una sola parola fuori luogo potrebbe distruggere il sodalizio su cui si reggono le sorti di quella faticosa avanzata, e non se lo può permettere. Con un sospiro, torna a fissare le fiamme che danzano e si contorcono crepitando intorno al legno consunto.
Dopo un po’, gli giunge all’orecchio la voce di Richter: parla in russo, rivolgendosi direttamente ai contadini per ringraziarli della loro ospitalità. Ha il suo solito tono asciutto e privo d’inflessione, ma pare che anche lui abbia gradito quell’inaspettato ristoro.
Schwerin si volta e lo scorge sulla soglia, col bavero del cappotto tirato su e le mani in tasca. Sembra titubante: per un attimo, i suoi occhi gelidi si posano su di lui, ma la visiera del berretto impedisce di coglierne l’espressione. Lo saluta con un rapido cenno del capo, quindi schiude appena la porta; basta una piccola breccia per far mulinare all’interno una manciata di fiocchi di neve. Sospinte da un poderoso ululato di vento, le fiammelle delle candele tremolano e le assi del pavimento scricchiolano, poi il maggiore scivola all’esterno e si richiude l’uscio alle spalle, facendo ripiombare la casa nella solita quiete.
Schwerin esita ancora un po’, poi si congeda a sua volta ed esce fuori nel freddo a cercarlo.
 
Al piano terra dell’isba i soldati dormono ammassati sul pavimento con gli zaini come guanciali e i fucili appoggiati al muro, mentre chi è di guardia impreca contro la bufera: il passo dei loro stivali chiodati fa tremare il legno della veranda e i loro discorsi si perdono nel vento.
“Che palle, non si può nemmeno fumare una sigaretta in santa pace!”
“Perché non hai mai provato a pisciare controvento: ti assicuro che è molto peggio.”
“Venite dentro, scellerati, o vi buscate qualcosa!” urla un sottufficiale, senza osare mettere la testa fuori. “Con questo freddo pure gli orsi se ne stanno rintanati nei loro buchi!”
“Parla degli orsi pelosi o di quelli che sul colbacco hanno una stella rossa e falce e martello, signor maresciallo? Perché sui secondi avrei qualche dubbio.”
Schwerin alza gli occhi al cielo e si accosta di nuovo alla porta. “Date retta a Möller, forza: tutti dentro.”
“Sì, signor maggiore,” gli risponde una voce rassegnata.
L’ufficiale aspetta che i due uomini entrino e richiudano la porta, poi si guarda intorno alla ricerca del suo parigrado: si aspetta di trovarlo da qualche parte insieme ai soldati; invece non c’è traccia di lui. “Möller, dov’è il maggiore Richter?”
Il maresciallo indica le scale. “È andato su nell’ufficio, signore. Aveva da fare.”
Schwerin annuisce. Sarà sicuramente a scrivere alle famiglie dei caduti, pensa. Il conto del macellaio è stato caro anche stavolta...
La morte non guarda in faccia a nessuno: si è portata via il vecchio con la dissenteria, ma anche il sergente dei manifesti di propaganda mentre incitava i suoi uomini a non demordere.
Decide di raggiungerlo e sale al piano superiore divorando gli scalini a due a due. Anche se la porta è chiusa, intuisce la sua presenza al di là di essa; si accosta e bussa.
Nessuno risponde.
Avvalendosi del fatto che l’ufficio è condiviso, Schwerin entra con titubanza: Richter è seduto su una vecchia sedia, di fronte a sé ha la macchina da scrivere e una bottiglia di vino mezza vuota. Sta fissando il fondo torbido del bicchiere e alza la testa su di lui solo quando la porta si richiude.
La stanza è avvolta nella penombra, solo alcune candele ardono proiettando riflessi sul vetro opaco e sui capelli chiari del maggiore.
Eugen muove un passo in avanti e lo vede irrigidirsi involontariamente, ma è Hermann stesso, con un cenno silente, a invitarlo a sedersi vicino a lui. In silenzio, egli prende una sedia e la accosta al tavolo.
“Stavo scrivendo alle famiglie dei caduti,” spiega l’altro, mentre con un gesto meccanico gli versa del vino e gli porge il bicchiere. “Conoscevo personalmente la moglie e la figlia del sergente.”
A quelle parole, Schwerin non può fare a meno di chiedersi se anche Richter abbia qualcuno che lo aspetta in Germania, e il pensiero gli provoca un’inaspettata fitta di gelosia. Fingendo indifferenza, si porta il bicchiere alle labbra e sorbisce un sorso di vino scadente. “Anch’io dovrò preparare diverse lettere, stanotte,” risponde, in tono neutro. “Al capitano Weiss è stata conferita la croce tedesca una settimana fa, ma sarà sua madre a ricevere il pacchetto.”
Hermann si limita ad annuire. Ha un’espressione indecifrabile, ma la sua postura è rigida. “Ho ricevuto una comunicazione dal comando generale: tra una settimana parte l’operazione Wintergewitter,” annuncia infine. “Dobbiamo tenere duro ancora qualche giorno, poi arriveranno altri rinforzi.”
“Se siamo arrivati fin qui, possiamo farcela ancora.”
Senza replicare, Richter si versa dell’altro vino e beve in silenzio; i suoi occhi grigi sembrano scaglie d’oro alla luce delle candele.
Eugen abbassa la voce. “A che pensi, Hermann?”
“A tutto e niente.”
“Si dice che la guerra faccia emergere il vero volto degli uomini... la loro vera essenza, il loro valore, al di fuori di ogni sovrastruttura borghese. Abbiamo condiviso tante cose, io e te, senza il bisogno di sprecare tempo in chiacchiere effimere.” Si pente subito di essersi lasciato scappare quel pensiero ad alta voce, ma l’altro scrolla il capo, continuando a fissare dritto di fronte a sé.
“È così, e te ne sono grato,” ammette. “Ti sono grato per non avermi fatto domande e per non esserti perso in inutili elogi.” Fa una lunga pausa, poi si volta verso di lui e i loro occhi si incrociano: solo in quel momento sembra che l’abisso di dolore che dimora sul loro fondo si spalanchi, ma il suo contegno rimane composto. “Il capitano Altendorf era il mio aiutante di campo. Era ardito, brillante, competente. Uno degli ufficiali migliori che abbia mai avuto al mio comando. Quel giorno avevo dato l’ordine alla sua compagnia di attestarsi in una vecchia fabbrica, un punto strategico per le nostre operazioni, mentre io col resto delle truppe avrei tentato una manovra di accerchiamento. Sembrava che fosse il piano perfetto, una vittoria assicurata.” Sospira e abbassa lo sguardo sulle fiamme. “Nessuno aveva previsto il contrattacco dei sovietici, arrivato prima ancora che noi potessimo ricevere l’allarme. Quando sono arrivato sul posto, della fabbrica restava solo un cumulo di rovine fumanti e i carri armati russi dilagavano per i campi, mentre la compagnia era rimasta intrappolata all’interno. Non abbiamo potuto far altro che scavare delle buche e cercare di contrastare i nemici con armi da fanteria. Siamo riusciti a ricacciarli indietro solo dopo otto ore di combattimenti.” Le parole gli escono dalla bocca in tono distante, apatico, come non fosse davvero lui a pronunciarle, ma Schwerin nota che i suoi muscoli si sono irrigiditi e i suoi occhi vengono attraversati da un bagliore sinistro. “A quel punto siamo andati a recuperare i feriti dalle macerie. Erano passate ore, ma il capitano respirava ancora... il suo viso era una maschera di sangue, quasi irriconoscibile... mi sono davvero reso conto di quello che stava succedendo solo quando ha aperto gli occhi e mi ha guardato, senza dire nulla.” Le dita vanno a sfiorare le foglie di quercia della croce che porta al collo, ma i suoi occhi diventano due lame di ghiaccio. “Non lo dimenticherò mai.”
Schwerin lo fissa come se lo vedesse per la prima volta. Crede di conoscere il dolore a cui allude, perché l’ha provato lui stesso quando, subito dopo la parata trionfale lungo gli Champs Elysées, ha appreso che il nome del suo amante era tra i caduti della 24. Divisione Corazzata.
D’istinto, si avvicina a lui e gli passa un braccio intorno alla spalla: un gesto fraterno, al quale Richter non si sottrae, ma esala un profondo sospiro e rilassa appena la propria postura, abbandonandosi contro di lui.
Eugen rafforza la stretta e, con uno slancio che meraviglia lui per primo, solleva una mano a sfiorare la guancia liscia dell’altro, che si tende impercettibilmente verso quella carezza.
Rimangono così per un istante imprecisato, la fronte di Hermann contro la sua guancia, vicini come non lo sono mai stati. Nessuno dei due osa proferire parola.
  
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