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Autore: BabyLolita    10/02/2020    0 recensioni
Il primo amore non si scorda mai. Ti rimane dentro, impresso, indelebile. Il primo amore ti travolge e ti stravolge. Hilary è alle prese con il suo primo amore. Un amore che la cambia, che la turba. Un amore che la risucchia e l'annulla. Quando si scopre innamorata è troppo tardi, perché lui è ormai lontano. Si promette di aspettarlo, di dichiararsi non appena lui farà ritorno. Si promette di essere forte. Fa tante promesse a sé stessa. Così tante che è difficile mantenerle tutte quante. Quando un amore è lontano e tanta gente gira intorno a te è difficile essere fedeli a sé stessi, alle proprie promesse. È difficile non innamorarsi ancora. È difficile dimenticare chi si è amato tanto. È difficile quando, davanti a te, il passato ed il presente si scontrano per impossessarsi del tuo futuro.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Castiel, Kentin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Una volta giunto a casa mi rintanai in cantina dove avevo allestito una piccola palestra. Iniziai a prendere a pugni il sacco da boxe, cercando di sfogarmi. Avevo passato gli ultimi due anni a cambiare me stesso per lei. A fortificarmi, mentalmente e fisicamente, per poterla proteggere da tutto e tutti. Avevo immaginato ogni cosa, creato il futuro ideale in cui vivere felici. Mi ero spinto al limite, e per cosa? Per tornare e scoprire che, in qualche modo, mi aveva sostituito. Aveva iniziato ad amare un altro. Ma non una persona qualsiasi, uno dei nostri più acerrimi nemici. Qualcuno che entrambi odiavamo. Io e lui eravamo finiti, chissà come o perché, sullo stesso piano. La cosa mi irritava, mi disgustava. Mi sembrava di vedere la mia vita gettata nel cesso, un progetto dopo l’altro. Colpivo quel sacco con violenza, con rabbia. Mi accorsi che le mie mani iniziarono a sanguinare, ma non mi importava. Il dolore emotivo era più forte di qualsiasi altra cosa. La rabbia che provava cancellava qualsiasi altra sensazione. Aumentai la potenza con la quale urtavo il sacco. Gocce di sudore scendevano dalla mia fronte. Gocce di sangue schizzavano dalle mie mani.
È questo che doveva succedere? È per vederla amare un altro che sono tornato?
Mi fermai. Avevo il fiato corto e le mani distrutte. Mi accasciai a terra ed iniziare ad urlare. Ero sfinito, in tutti i modi in cui una persona potesse sfinire sé stessa. Gridai a lungo, sapevo che nessuno mi avrebbe sentito. Ero solo in quella casa. Solo con me stesso. Mi presi il viso fra le mani, frustrato.
Ed io sarei un uomo?
Mi sentivo patetico. Un mollusco di basso rango.
Come può amare me? È normale che ami lui.
Questo pensiero mi fece venire i conati di vomito.
No. Non è normale. Lui… lui deve averla sedotta, in qualche modo. Non c’è altra spiegazione.
Ero un flusso continuo di energie negative. Lei, per la quale provavo l’amore più profondo del mondo, riusciva anche a farmi vivere un odio così intenso.
Salii al piano di sopra, consapevole di non essere stato in grado di ritrovare un minimo di stabilità. Passando nel corridoio vidi che anche il mio viso era coperto di macchie di sangue. Mi fissai per un lungo istante. Quell’immagine riflessa mi fece tornare alla mente i ricordi dei primi giorni di addestramento quando rientravo alla base coperto di sporco e terriccio. Chiusi gli occhi e riportai alla mente i pensieri di allora: “Lo stai facendo per lei. Per la tua Hilary. Devi diventare forte per poterla proteggere”.
Ma proteggere da chi?
Riaprii gli occhi, scontrandomi con la realtà. Nella mia mente, sebbene mi ripetessi incessantemente quelle parole, non avevo mai preso in considerazione la possibilità di avere un rivale. Probabilmente era quel fatto a farmi arrabbiare a tal punto. Al mio rientro, un rivale lo avevo eccome. E si trattava di qualcuno che mai avrei immaginato. Caricai l’ennesimo pungo rabbioso ma mi fermai prima di colpire il muro. Qualcuno aveva suonato al campanello. Immaginavo di chi si trattasse. Sapevo che era lei. Le aprii, incurante del mio terribile aspetto. Lei mi guardò inorridita, ma non le diedi il tempo di reagire in alcun modo.
   «Che vuoi?»
Mi resi conto che amarla significava anche essere dannatamente odioso. Dannatamente distaccato. Diabolicamente glaciale. Lei si portò le mani davanti alle labbra. Gli occhi divennero lucidi praticamente subito.
   «Tu sei… il sangue… sei… stai…»
Balbettava. La vedevo crollare a pezzi davanti a me. Ma, per qualche ragione molto malata, non mi sentii in colpa. Pensavo che, quel dolore, se lo meritava. Se lo meritava per avermi dimenticato. Per aver iniziato ad amare un altro. Per avermi paragonato a quell’altro. Digrignai i denti, pensando a loro due assieme.
   «Non ti preoccupare. Il sangue è mio. Non ho toccato il tuo adorato Castiel.»
Sputavo veleno, perché quello scorreva nelle mie vene. Ero diventato un mostro, ma lei mi aveva fatto diventare così. Non sopportavo più niente, ed ero in quella situazione da così poco che questa mia reazione sarebbe parsa esagerata a chiunque. Io stesso avevo deciso di continuare a combattere, ma ora mi pareva del tutto inutile. Il suo viso si incupì. Vidi il suo corpo chiudersi a riccio. Incrociò le braccia al suo petto, avvolgendosi, come nel tentativo di non crollare del tutto. La guardai iniziare a tremare e, in quel momento, tutta la rabbia si tramutò in schifo e dolore. La stavo ferendo ancora, e tutto tornò a sembrarmi dannatamente sbagliato. Ma cosa c’era di giusto in tutto quella situazione? Nulla sarebbe mai potuto essere davvero sereno.
   «Kentin io… io ti amo… ti prego non… non dire… non fare…»
Davanti a me vidi una Hilary che non conoscevo. Avevo davanti una sconosciuta. La Hilary sempre forte, sempre coraggiosa, sempre radiosa mi pareva scomparsa per sempre. Davanti a me avevo una ragazza fragile, in pezzi, che cercava di non annegare nel suo stesso dolore. Mi sentivo combattuto, frustrato ed amareggiato. Non sapevo più cosa sarebbe stato meglio fare. Se combattere ancora, o tirarmi indietro e lasciarla libera di andare da lui. Per un secondo, un solo secondo, pensai che forse sarebbe stato meglio sparire per sempre.
 
Il suo viso si alzò nella mia direzione. Gli occhi, intrisi di lacrime, urlavano il suo dolore. Quel dolore che condividevamo. Ci guardammo per un istante eterno, ma nessuno dei due si mosse. Lei ancora tremava, io ancora sanguinavo. Eravamo come due bambole rotte che cercavano di aggiustarsi a vicenda, facendo ancora più danni.
   «Io ti amo.» mi disse ancora, con tono più sicuro e deciso.
La voce ancora le tremava, ma la fermezza non le mancava.
   «Ma ami anche lui.» Quelle parole uscirono dalle mie labbra come un fulmine che colpì entrambi. «Forse… forse ha ragione lui. Tu, in realtà, non mi ami. Non così profondamente, almeno. Se mi amassi come dici, non saresti mai stata in grado di innamorarti anche di lui.»
Vacillai. Per la prima volta, vacillai. Le mie parole erano lame che si conficcarono dritte dentro di lei. La trafissero, disintegrandola ancora di più.
Perché lo sto facendo?
Nemmeno io sapevo il perché delle mie parole. Non sapevo più in che direzione continuare. Forse, volevo solo che qualcuno mi indicasse la via. Forse, volevo solo che lei mi desse un segnale di poter vincere quella guerra così devastante.
Dopo aver pronunciato quelle parole mi immaginai la scena seguente. Il suo pianto diventare ancora più isterico, le sue lacrime farsi ancora più insistenti ed il suo dolore ancora più angosciante. Ma ciò non accadde. Hilary mi guardò con rabbia. Per la prima volta, i suoi occhi traboccavano di rancore. E quel rancore, era rivolto proprio verso di me. Alzò la mano sinistra dove portava i due anelli. Sfilò dal dito quello che le aveva regalato Castiel e, voltandosi, lo lanciò lontano. Rimasi senza fiato, senza parole.
E questo cosa significa?
Si voltò ancora verso di me.
   «Si, amo anche lui. Ma non ti ho mai amato di meno solo perché il mio cuore si è spezzato a metà. Lui ha solo riempito il vuoto che tu hai lasciato, ma non ha potuto prendersi tutto di me perché, l’altra parte, è sempre stata e sempre sarà solo tua.»
Rimasi senza parole. Dopo tutto lo schifo che le avevo lanciato addosso, lei aveva fatto una cosa bellissima. Mi aveva ridato speranza. Hilary corse via, ma io non le andai dietro. Ero ancora troppo in estasi per quella piccola vittoria che avevo appena avuto.
 
L’indomani andare a scuola fu strano. Avevo le mani doloranti e fasciate. Sapevo che la gente mi avrebbe guardato facendosi delle domande, ed io sapevo di non avere nessuna voglia di fornire delle risposte. Contattare Hilary mi era risultato impossibile. Probabilmente, aveva spento il cellulare per non sentirmi. Quando giunsi in classe mi accorsi che lei era già lì, ma non sedeva al solito posto. Era accanto a Iris e, non appena mi vide, mi fece un freddo cenno di saluto prima di tornare a parlare con la sua amica. Sapevo che era arrabbiata ed io, di certo, non potevo biasimarla. Mai avrei pensato che sarei arrivato al punto di dire delle cose così cattive alla donna che amavo. Andai a sedermi al mio posto ma non prestai alcuna attenzione alla lezione. Continuai a guardare Hilary, cercando un modo per scusarmi. All’intervallo non ebbi il tempo di raggiungerla che lei già era scappata. Sapevo che voleva evitarmi, ma io non accettavo che fuggisse da me. Si meritava delle scuse, ed io ero più che intenzionato a dargliele. Girai tutta la scuola, ma non riuscii a trovarla. Il cortile fu l’ultimo posto dove la cercai. Avevo cercato in ogni luogo ma, di lei, non c’era traccia. Quando mi voltai per rientrare nell’edificio, la vidi. Era sul tetto della scuola, in compagnia del mio rivale. Si stavano guardando e lui le stava scompigliando i capelli. Quel gesto così affettuoso mi irritò immediatamente. Lei lo lasciò fare, non si scompose, come se sentisse di aver bisogno di quel gesto d’amore. Pensai che correre lassù per interromperli non sarebbe stata la migliore delle idee. Avevo le mani fuori uso e Hilary era già in collera con me. Se fossi arrivato come una belva assetata di sangue, il suo odio non sarebbe che aumentato. Distolsi lo sguardo scocciato e rientrai in aula. Anche se lui le aveva dato conforto, lei ieri aveva rinunciato all’anello che lui le aveva regalato.
Qualunque cosa tu possa fare per tirarla su di morale, ha scelto il mio regalo al tuo. Sono io quello che sta vincendo.
 
L’egoismo umano non ha fine. Questa è una delle cose che so di aver imparato quando, nel presente attuale, ripenso a quei giorni passati. Noi esseri umani possiamo essere schifosamente avidi. Allora non ci rendevamo affatto conto di come Hilary venisse sballottata da una parte all’altra per via dei nostri comportamenti immaturi. Per via di quel sentimento così puro che inquinò le nostre anime. Ripensandoci ora, mi ripeto che avremo dovuto prestare più attenzione. Riflettendoci adesso, mi chiedo come abbiamo fatto a non accorgerci della terra bruciata che stavamo creando intorno alle nostre vite.
 
Quella sera mi recai a casa sua. Avevo intenzione di scusarmi, ed avrei fatto di tutto pur di farmi ascoltare da lei. Suonai alla sua porta e fu sua madre ad aprirmi.
   «Buonasera, signora.» le dissi, sfoggiando uno dei miei sorrisi più allegri.
Lei contraccambiò quel sorriso, ma mi accorsi subito che qualcosa non andava.
   «Ciao Kentin caro. Se cerchi Hilary mi spiace, ma è uscita.»
Finsi di credere a quelle parole, ma mi accorsi subito che stava mentendo. Con un gesto mi congedai e, non appena vidi la porta chiudersi, mi intrufolai nel giardino che stava di fronte al balcone di camera sua. Alzai lo sguardo e vidi la luce della sua stanza accesa. Iniziai ad arrampicarmi sull’albero vicino e poi, con un balzo sufficientemente silenzioso, atterrai sul suo balcone. Restai nascosto nell’ombra e la osservai. Era sdraiata sul letto, indossava un pigiama rosa a pois bianchi. Fissava il soffitto, persa nei suoi pensieri. Afferrai il cellulare e le mandai un messaggio: “Hai due minuti per un’idiota che ha tanto bisogno di farsi perdonare?”. Il cellulare di Hilary si illuminò. Lei scattò sul letto, afferrandolo dal comodino su cui stava. Lesse il messaggio nascondendo un sorriso. Tuttavia, il suo viso si incupì poco dopo. Posò il cellulare da dove lo aveva preso e tornò a fissare il soffitto. Il suo sguardo, sembrava essersi svuotato. Feci qualche passo e bussai alla finestra. Lei sobbalzò, spaventata, e si voltò nella mia direzione. Quando vide la mia figura trasalì. Le feci cenno di aprirmi ma lei rimase ferma, incapace di qualsiasi azione. Congiunsi le mani davanti a me, fingendo di pregare, per convincerla ad aprirmi. La guardai sospirare e massaggiarsi le tempie. Poi si alzò e mi fece entrare.
   «Perché sei qui?»
   «Perché ti meriti delle scuse.»
Lei iniziò a tracciare dei piccoli cerchi a terra con il piede. Era nervosa, agitata, lo vedevo chiaramente.
   «Mmmm…»
Estrassi dalla tasca la confezione di biscotti al cioccolato che avevo portato da casa. Vidi il suo sguardo illuminarsi per poi allontanarsi subito. Sapevo che non voleva darmela vinta così facilmente. E, infondo, sapevo che aveva ragione. Scartai il pacchetto e ne estrassi un biscotto, porgendoglielo.
   «Scusami per essere stato un grossissimo idiota. Ho detto cose che non ti meritavi, e vorrei rimangiarmele tutte quante. Ti amo. Prima di qualsiasi altra cosa, io ti amo. Immensamente. Follemente. Più di chiunque altro.»
Si morse il labbro, sapevo di averla colpita nuovamente dritta al cuore ma, questa volta, avvolgendola di dolce armonia. Lei si avvicinò di qualche passo ed addentò il biscotto che reggevo in mano. Mi scappò un sorriso che lei contraccambiò subito mentre si leccava i baffi. Ci guardammo nuovamente e poi ci abbracciammo. Sentire nuovamente quel calore mi diede energia. Sentivo nuovamente la forza di lottare. Perché questa era la scelta giusta. Lottare per lei, per il suo benessere. Perché solo io la conoscevo davvero. Solo io l’avevo vista crescere e sopportare tutte le angherie ricevute dagli altri. Solo io potevo essere il suo principe.
Hilary si sollevò sulle punte dei piedi, baciandomi a sorpresa. Le sue labbra erano morbide proprio come ricordavo. Ma quel ricordo non bastava mai, ed avevo sempre bisogno di imprimerlo nella mia mente. Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo. La strinsi a me e ci baciammo a lungo. Con passione, con tormento, con amore. Salutarla fu doloroso, ma sapevo che l’avrei vista l’indomani. Sapevo che, dal giorno seguente, sarebbe tornata a sorridermi come sempre.
 
Sulla via del ritorno giurai a me stesso di vincere quella guerra. Sentivo di poterlo fare. Ero più che convinto che l’unico vincitore sarei stato io perché, solo io, potevo davvero farle provare quel profondo amore. Mi sentivo invincibile, ineguagliabile. Avevo acquisito una forza nuova, una convinzione ancora più forte. Credevo davvero di essere l’unico eroe in grado di salvarla. Ragionandoci adesso, mi sento davvero un’idiota a realizzare di aver avuto pensieri così stupidi all’epoca. Perché ogni qualvolta pensavo di essere un passo più vicino alla serenità, invece, ero un passo più vicino alla distruzione più cupa.
   
 
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