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Autore: Adeia Di Elferas    13/02/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Tornielli stava ancora aspettando che il Consiglio deliberasse qualcosa. Stava imbrunendo e dal salone del palazzo dei Riario non erano arrivate novità.

Così il Capo dei Magistrati aveva deciso di approfittarne per proseguire con un altro compito che gli spettava e che aveva accantonato fino a quel momento. Fece chiamare al suo cospetto, in una zona differente del palazzo, il rappresentante degli ebrei della città e gli ordinò di far restituire dalla sua gente tutti i pegni dei cittadini.

“O con denaro alla mano – specificò, quando l'ebreo che gli stava davanti iniziò ad assumere un'espressione contrariata – o con una cauzione fino alla raccolta.”

L'altro tentò di aggirare la questione, di promettere tassi agevolati per futuri prestiti, di richiamare al buon cuore della Contessa che 'mai e poi mai' avrebbe permesso un simile sfacelo per gli ebrei di Forlì.

Tornielli, però, era pronto a ribattere a tono: “La vostra Comunità ha firmato degli accordi molto precisi, anni fa, e questo è uno dei casi che rientra in quegli accordi. In caso di guerra e rischio di saccheggio, siete obbligati a restituire ogni pegno, o per suo riacquisto, o anche solo con una cauzione. Senza contare che, almeno così, recupererete qualcosa. Mentre se aspetterete che siano i francesi a svuotare i vostri magazzini, perderete tutto quanto.”

L'uomo che gli stava davanti schiuse un paio di volte le labbra, ma non disse nulla. Avrebbe voluto chiedere che sarebbe successo a tutti loro, nel caso in cui si fossero opposti, ma la risposta era così ovvia, che preferì evitare l'umiliazione di vedersela sbattere in faccia.

“Va bene, va bene... Provvederemo subito.” concluse, incupendosi e andando subito verso la porta.

Il Capo dei Magistrati avrebbe voluto qualche garanzia in più, ma, prima che potesse fare o dire qualcosa, Alessandro Sforza entrò nella saletta.

“Il Consiglio non ha trovato un accordo, e quando mia sorella tornerà, io dovrò darle la risposta della città.” disse il milanese, fissando con rabbia Nicolò, come se ne avesse colpa.

Tornielli sollevò un po' le braccia e si schermì: “Capisco la vostra agitazione, ma...”

“Che diamine!” sbottò lo Sforza, ricordando in modo impressionante la sorella, in quello scatto di rabbia: “Siete il Capo dei Magistrati! Forzate il Consiglio!”

“L'unica cosa che posso fare – fece a voce bassa il forlivese, sperando di non essersi appena infilato in un guaio ancora peggiore – è convocare un Consiglio dei Quaranta, con obbligo di risoluzione.”

“Fate quello che vi pare.” tagliò corto Alessandro: “L'importante è che entro sera io sappia cosa riferire alla Contessa.”

Nicolò abbassò il capo, in segno di sincera prostrazione: “Farò tutto quello che posso.”

“Fatelo, Tornielli.” intimò lo Sforza: “Fatelo in fretta, però.”

 

Alessandro VI stava ancora ripensando all'ultima lettera di suo figlio Cesare, che lo aizzava in modo plateale contro Firenze, spiegandogli con parole molto decise come la Repubblica stesse solo fingendo di contribuire al loro sforzo bellico.

Cesare gli faceva presente che dalla Toscana non erano arrivate né polvere da sparo né munizioni e che quella mancanza non era da imputarsi a un incidente o a un ritardo, ma bensì a un netto e chiarissimo rifiuto.

A mezza conferma di quello, erano arrivate da poco in Vaticano quelle che sembravano delle scuse ufficiali da parte di Firenze, con cui la città si difendeva prima ancora di ricevere un'accusa precisa, rendendosi ancor più colpevole, agli occhi del papa.

Non aveva ancora deciso come ribattere, ma di certo le lettere del figlio lo stavano facendo propendere per un'azione severa nei confronti di quelli che sostenevano a gran voce di essere loro fedelissimi alleati.

“Dunque, qual è la vostra risposta?” chiese Cervillon, che aspettava davanti a lui.

Il napoletano aveva chiesto un'udienza al papa, quel pomeriggio, per ottenere da lui un permesso formale per tornare a Napoli dalla propria famiglia. Il Borja sapeva che più che la moglie e i figli, quel tracotante armigero desiderava riabbracciare il suo re e mettersi in combutta con lui contro la Francia e il papato.

Tuttavia, come poteva rifiutargli un permesso del genere? Farlo sarebbe equivalso a gettare la maschera e scatenare Napoli contro di lui. Non poteva scordare, tanto per cominciare, che sua figlia era sposata a un Aragona e che, di Aragona, ne aveva anche partorito uno.

“Devo pensarci.” disse il Santo Padre, sbuffando.

Cervillon scosse il capo: “Vi ho già dato molto tempo per pensarci. Ora voglio una risposta. O sì o no.”

“State attento a come parlate!” gridò Rodrigo, sollevando l'indice verso il suo interlocutore: “Vi state dimenticando che state parlando con il vicario di Dio!”

“E voi state parlando con il vicario del re di Napoli.” fu la pronta risposta dell'uomo, che, allargate un po' le spalle, sembrava deciso a non demordere per alcun motivo.

Non vedendo altre soluzioni, il pontefice si sgonfiò e, con fare stanco, concluse: “Vi do il permesso, se davvero volete lasciare Alfonso qui, da solo, in casa mia.” il suo tono insinuante, quasi minaccioso, fece correre un brivido lungo la schiena del napoletano, che, però, non accennò a cambiare idea: “Ma per i documenti ci vorrà qualche giorno. Datemi una settimana o due...”

Cervillon sapeva che si trattava di tempistiche eccessive, ma non volle mettere altra legna sul fuoco: “Se si tratta davvero di due settimane soltanto – accettò, chinando appena il capo – posso sopportarlo. Ma che non sia nemmeno un giorno in più.”

Il Borja ricambiò, in modo ironico, il mezzo inchino e poi gli indicò la porta, senza aggiungere altro.

Non appena Cervillon fu fuori dalla saletta, Alessandro VI borbottò tra sé: “Stai tranquillo, non ti farò aspettare troppo...”

 

Nel momento stesso in cui Caterina arrivò a Ravaldino, da sola e sotto il cielo già scuro della sera, le fu chiaro che le cose al Consiglio non dovessero essere andate bene. Lasciato il suo amato cavallo a uno degli stallieri, intravide Luffo Numai parlare concitatamente con Alessandro e con il castellano.

Si avvicinò a loro a gran velocità, ma, quando fu loro vicina, tacquero.

Irritata da quel comportamento, li esortò: “Che cosa è successo? Ditemelo subito e non pensiamoci più!”

Fu il fratello a parlare: “Il Consiglio è andato a buca e si è convocato un Consiglio dei Quaranta.”

“E?” insistette la donna, impaziente.

Lo Sforza si schiarì la voce e rispose: “E anche il Consiglio dei Quaranta non ha voluto esprimersi.”

La Tigre stava per dar voce a tutta la sua frustrazione esibendosi in una lunga sequela di imprecazioni, ma Alessandro la frenò.

“Però hanno detto testualmente che gli pareva inutile palesarti ciò che hai già conosciuto a sufficienza e che i fatti dimostrano così luminosamente che lo vedrebbe anche un cieco.” spiegò il milanese.

Caterina capì. Il Consiglio non aveva voluto distaccarsi apertamente da lei per paura della sua reazione e nella speranza di tenere aperto uno spiraglio di contatto, nel caso in cui i francesi si fossero dimostrati degli invasori troppo violenti.

Peccato che i forlivesi non avessero calcolato una cosa: lei non era più disposta a essere paziente.

“Alessandro – fece, senza perdersi in esternazioni che avrebbero solo esacerbato il suo cattivo umore – convoca immediatamente i miei Capitani e anche i capimastri. Ho degli ordini da comunicare.”

Lo Sforza annuì e poi, guardando incerto verso Numai, chiese: “Quindi lasceremo la città al suo destino?”

“Come hanno voluto dire loro stessi, perfino un cieco vedrebbe la realtà dei fatti.” fece lei, scrollandosi di dosso il fratello con un'occhiata fredda: “Non sono io, quella che ha voltato loro le spalle.”

Il milanese non volle più ribattere, ma annuì e se ne andò, assieme al castellano, per cercare di radunare il più in fretta possibile tutti gli uomini richiesti dalla Tigre.

“Dicono che gli uomini del Borja siano a meno di mezza giornata da qui.” disse a voce bassa Luffo.

La Leonessa deglutì, a fatica, sentendo la gola così secca che forse nemmeno una brocca intera di vino sarebbe bastato per ammorbidirla: “Me l'aspettavo.”

“Quindi, cosa facciamo?” chiese il Consigliere.

La donna si guardò un momento attorno, circospetta. C'erano molti uomini, nella rocca, ma in quel momento nessuno sembrava far caso a loro.

“Se domani mattina i francesi saranno fuori dalle nostre porte – decise, in fretta – allora faremo come abbiamo deciso.”

L'uomo sospirò e poi aggiunse: “Per il momento stanno tutti bene. Anche il piccolino. Sono ragazzi molto svegli.”

La Sforza apprezzò molto quell'ultima aggiunta e, a mo' di ringraziamento ulteriore, sussurrò: “E voi siete un alleato impagabile.”

Il forlivese accennò un sorriso e poi, con un lieve tentennamento, disse: “Io non ho motivo di essere presente alla riunione che avete appena convocato. Faccio parte del Consiglio Cittadino, tecnicamente sono tra quelli che non vi vuole.”

“Lo so.” annuì lei: “Ci salutiamo qui. Tra poche ore farò chiudere la rocca e la cittadella, e bruciare i ponti della città. Non avremo più contatti diretti, a meno che non sia strettamente necessario.”

Luffo si disse d'accordo e poi, dedicandole uno sguardo che alla milanese parve d'affetto, concluse il loro incontro con un semplice: “Non mi pento di essere rimasto dalla vostra parte.”

 

“Fermiamoci per la notte.” insistette Achille Tiberti.

Cesare Borja guardava ostinatamente verso l'orizzonte, sicuro di poter già scorgere il profilo di Forlì, malgrado il buio ostinato di quella sera che sembrava essere scesa in anticipo solo per fare un dispetto a lui.

“Vi dico – insistette il cesenate – che se arrivassimo di notte a Forlì, per noi sarebbe peggio!”

Il figlio del papa non voleva sentire ragioni, ma avvertiva la contrarietà di tutti quelli che lo accompagnavano. Avrebbe voluto poter aver affianco Michelotto, che, con il suo sguardo impassibile e la sua stazza, avrebbe convinto gli altri comandanti a seguire ciò che il Duca di Valentinois aveva deciso. Ma aveva dovuto lasciare Miguel de Corella a Imola, come luogotenente, e quindi non poteva far affidamento su nessun altro che su se stesso.

“Tiberti conosce bene Forlì – provò a dire Onorio Savelli, mentre i graduati francesi iniziavano a parlottare tra loro con intenti chiaramente bellicosi – se dice che è più sicuro fermarci, dobbiamo farlo.”

“Intendiamoci, Borja – prese la parola Giampaolo Baglioni, che cavalcava proprio al fianco del Valentino – anche io sarei per piombare loro addosso stanotte, ma questi francesi non son gente da usare in questo modo... Se gli ordiniamo di far quello che dite, ci verranno a dire che non hanno mangiato, che non hanno dormito, che non sono stati pagati abbastanza... E invece di mettere in ginocchio la Sforza, finiremmo a passare una settimana a riottenere l'ordine nei nostri ranghi.”

Convinto più da quel breve discorso che da tutti quelli che l'avevano preceduto, Cesare stava per dire che, in effetti, non potendosi fidare dei soldati di re Luigi, era davvero meglio piantare il campo e ripartire alle prime luci dell'alba, senonché l'Aubigny lo precedette, esclamando: “Voi criticate i francesi, ma se aveste polso, i nostri soldati marcerebbero notte e dì senza fiatare. Se c'è qualcuno manchevole, siete voi.”

Il Borja, ovviamente, non poteva dargli ragione. Tuttavia, per non dargli torto, fece un'espressione che poteva essere interpretata in tanti modi, e poi si disse favorevole a fermarsi per la notte.

“Non sappiamo quanto sarà protetta la cinta muraria di Forlì – si affrettò a dire, per sottolineare come la sua scelta non fosse stata minimamente influenzata dalle sottili minacce degli altri comandanti – e dunque preferisco vedere alla luce del sole quel che troveremo.”

 

La riunione ordinata da Caterina era stata brevissima e molto sbrigativa. Gli ordini erano semplici, e andavano eseguiti prima del sorgere del sole.

Aveva decretato che tutta la paglia e la legna che ci fossero in città venissero prese e portate alla rocca e alla cittadella e che, parimenti, si facessero entrare nelle due fortificazioni tutti gli uomini e i ragazzi che ancora avessero intenzione di unirsi alla causa, mentre, di contro, ne venissero fatti uscire – assieme alle donne troppo spaventate e ai bambini troppo piccoli, purché accompagnati da almeno un parente – quelli che si erano ricreduti e non volevano più combattere.

Il giorno dopo, aveva annunciato, quelli rimasti a Ravaldino e alla cittadella, sarebbero stati inquadrati o come soldati o come manovali, in modo che entrambe le strutture fossero perfettamente autosufficienti.

Aveva dato ordine che venissero bruciati tutti i ponti di collegamento della città, compresi i ponti maggiori della rocca e della cittadella, lasciandone in uso solo uno dei minori, in modo da poter entrare e uscire in vista di eventuali scontri esterni.

Infine, sicura di aver sistemato tutto quello che andasse ancora sistemato, aveva lasciato detto che si sarebbe assentata per un po'.

Era uscita dalla rocca, avvolta da buio e da un mantello spesso che la riparava dal vento freddo che si era alzato da poco. Aveva percorso in fretta la strada che dalla rocca portava a San Girolamo e, arrivata alla chiesa, tentennò un minuto e poi entrò.

Quasi tutti i religiosi di quella congregazione erano ormai di stanza a Ravaldino, quindi il silenzio che permeava le navate era più profondo del solito. C'era anche meno luce del consueto, perché erano state accese pochissime candele.

Caterina avanzò con lentezza fino alla tomba di Manfredi. La fissò per qualche istante, ricordandosi dei capelli d'oro del faentino, del suo sorriso insinuante e del suo corpo giovane e segnato da anni di vita in esilio, tra baruffe nelle locande e battaglie che non avevano portato mai a nulla.

Senza nemmeno avvicinarsi, la donna gli dedicò un silenzioso saluto e poi, con il cuore che batteva più veloce, andò verso la cappella dei Feo.

Era completamente buia. Quella visione le diede un tuffo al cuore. Con le mani che tremavano un po', andò all'altarino più vicino e staccò con violenza un lume dal portacandela. Lo portò nella cappella e lo posizionò sulla piantana di ferro che stava proprio davanti alla tomba di Giacomo.

Il riflesso liquido che la fiammella proiettava sulla pietra distorceva le lettere del suo nome. La Tigre, come per rendersi conto che dietro quella lapide c'era davvero il suo grande amore, seguì il profilo di ogni incisione con la punta dell'indice.

“Probabilmente non riuscirò più a venire qui.” sussurrò, con l'illusione che quella penombra l'avvicinasse ancora di più al regno dei morti, dove ormai il suo Giacomo era relegato da oltre cinque anni.

Tenendo la mano aperta e appoggiata sulla pietra gelida, la donna pregò, riuscendo, per la prima volta da tantissimo tempo, a trovare la serenità di spirito necessaria per farlo. All'improvviso, pensare che non sarebbe sopravvissuta alla tempesta che si stava per scatenare, le stava dando un senso di pace che non ricordava di aver provato mai.

Quando smise di invocare la protezione di Dio sull'anima del suo amato, si asciugò con calma gli occhi con il dorso della mano e poi, sporgendosi in avanti, baciò la lapide, nel punto in cui poteva scorgere il nome del suo secondo marito.

“Ci vediamo presto, amore mio.” sussurrò, la voce che tremava.

Faticava a trattenere il pianto e, quando infine si decise ad andarsene, sentì una stretta al petto che le fece fisicamente male. Anche se, negli anni, si era recata di rado su quella tomba, salvo certi periodi, sapere che era giunto il momento di separarsi in modo definitivo dalle ultime spoglie del suo grande amore, l'annientava.

Non riuscendo più a nascondere il tremore che la scuoteva, la donna si abbandonò alle lacrime per qualche minuto. Era felice che non ci fossero più preti o quasi, a San Girolamo. Non voleva che nessuno la sentisse e la vedesse mentre si disperava a quel modo. Era quasi come dover accettare per la seconda volta la morte del suo Giacomo.

Quando tornò, con grande sforzo, padrona di se stessa, fece un respiro profondo e, con gli occhi ancora appannati, fece un gesto che lei stessa comprese solo fino a un certo punto. Con un soffio, spense la candela che aveva messo davanti alla tomba.

Osservò il buio per qualche minuto e poi, stringendosi nelle spalle, si voltò e camminò a passo cadenzato fino alla porta della chiesa.

Una volta fuori, nell'aria pungente della sera tarda di quel 12 dicembre, Caterina si sentì addosso una nuova forza. Si era tolta di dosso tutto ciò che per lei era importante, dai suoi figli, a suo fratello, finanche al suo amatissimo secondo marito. Non aveva più nulla perdere, assolutamente nulla. Questo le avrebbe dato la forza di non risparmiarsi.

Tornando a Ravaldino, non sollevò nemmeno lo sguardo verso la statua di bronzo che campeggiava davanti alla rocca. Dato che il ponte principale era già stato messo fuori uso, attraversò il ponte di servizio, quello che di norma non veniva mai calato.

Capì senza difficoltà che nella rocca si erano ammassate ancora più persone di prima: il suo ultimo appello, quindi, non era caduto nel vuoto.

Le faceva piacere vedere che, comunque, molti forlivesi avevano risposto al suo appello. Si rese conto che molti di loro erano giovani e capì all'istante che sarebbe stato fondamentale fare la giusta cernita tra i destinati alla battaglia e quelli che avrebbero dovuto occuparsi di tutti gli altri aspetti relativi al resistere a un assedio.

Perciò, prima di ritirarsi per la notte, andò dal castellano, per fargli presente che, la mattina seguente, lui e il Capitano Mongardini avrebbero dovuto smistare i nuovi arrivati.

“E riassegnate le stanze dei miei figli.” aggiunse, quasi soprappensiero: “Mi tengo per me solo quella in cui dormo e il mio laboratorio.”

Bernardino da Cremona annuì, e provò a chiedere: “I vostri figli non..?”

“Sapete che non sono più qui a Ravaldino.” lo bloccò lei: “Siete abbastanza sveglio da esservene accorto. Ma non ditelo troppo in giro. Meno gente se ne accorge, meglio è.”

L'uomo non aggiunse altro e lasciò che la sua signora uscisse dallo studiolo senza dire altro.

Caterina era irrequieta. Benché fosse sicura di aver sistemato a dovere la maggior parte delle questioni lasciate in sospeso, si rendeva conto che ce n'era una che non aveva preso in considerazione fino a quel momento.

Non poteva non vedere più Giovanni da Casale e basta. Poteva essere, in vista di eventuali movimenti strategici, che le capitasse di recarsi almeno una volta alla cittadella, ma non poteva lasciare al caso la possibilità di incontrarlo un'ultima volta.

Così, virando bruscamente mentre era a metà corridoio, invertì il senso della marcia e andò al piano di sotto, verso i baraccamenti. Quando trovò il Capitano Rossetti gli chiese di andare a cercare Pirovano e di portarlo alla rocca.

“Devo dare delle disposizioni urgenti al comandante della cittadella, prima che chiuda il portone del Paradiso.” spiegò lei, evasiva, senza guardarlo.

Il soldato, che, come quasi tutti, conosceva la vera natura del legame che univa la Sforza e Giovanni da Casale, strinse appena le labbra, colto da un moto di umana solidarietà e sussurrò: “Va bene, vado subito.”

 

“Appena arriveremo vicino alla città – decretò Cesare, finendo di spolpare la coscia del polletto che si era fatto arrostire quella sera – voglio che quel Bernardi di cui parlate tanto venga portato al mio cospetto.”

Achille Tiberti non disse nulla, continuando a mangiare il pezzetto di carne che aveva abbrustolito sul fuoco.

Era stato il Borja a chiedergli notizie su Forlì, e lui, forse con troppa leggerezza, dopo le prime reticenze, si era trovato a parlare a lungo del Novacula e della sua voglia imperitura di mettere nero su bianco tutto quello che capitava in città e non solo. Il Valentino ne era rimasto ben impressionato e, capendo che quel barbiere era non solo uno storiografo che avrebbe potuto erudirlo sui trascorsi della terra che stava per conquistare, ma anche un interessante mezzo di propaganda per lei sue future imprese, si era subito messo in testa di farlo passare al suo servizio.

“E se quel Numai ha davvero un palazzo tanto grande da tenere una strada intera – continuò il figlio del papa, prendendo il vino e bevendone un lungo sorso – allora sarà lì che alloggerò, non appena avremo aperto le porte di Forlì.”

Il cesenate fece un'espressione un po' contrariata e poi, guardando di sottecchi gli altri comandanti che stavano cenando con loro, ma trovandoli tutti molto più interessati al cibo che non ai loro discorsi, provò a dire, guardingo: “Bernardi è stato per tanti anni amico della Tigre... E Numai è uno dei Consiglieri della città...”

“Sì, ma voi stesso mi avete detto allo sfinimento che quella donna ha finito per essere presa in odio dal barbiere – lo corresse il Borja, il volto smangiato dal mal francese che assomigliava a una maschera, illuminato com'era dalle fiamme del fuoco su cui stavano cuocendo la carne – e che Numai prima era fedelissimo agli Ordelaffi, poi al Riario e ora a lei. Dunque, il primo sarà ben felice di mettersi contro di lei e a mio favore, mentre l'altro seguirà il suo animo servile e riconoscerà in me il suo nuovo padrone.”

“Voi non...” prese a dire Achille, cercando di evitare, a suo modo di vedere, un errore al Duca di Valentinois.

“Non sta a voi darmi certi consigli.” lo frenò Cesare, anticipando le parole del Tiberti proprio mentre anche gli altri presenti iniziavano a interessarsi a quel che stavano dicendo: “Anzi, stavo giusto pensando oggi che sarebbe il caso di darvi una guarnigione e mandarvi a Cesena. Conoscete quella città ancor meglio di quanto conosciate Forlì. Da lì mi servirete per prendere a tenaglia Forlimpopoli, non appena cadrà Forlì.”

Achille trattenne il fiato. Non si era aspettato un simile ordine – perché tale era – specie in quel momento.

Avrebbe voluto far presente che sarebbe stato più saggio concentrare tutti i loro sforzi su Forlì, o meglio, sulla rocca di Ravaldino, e pensare a Cesena e Forlimpopoli in un secondo momento, ma, invece, quando ritrovò la voce, riuscì a dire solo: “Fatemi sapere quando dovrò partire.”

“Vedo che cominciate a capire chi comanda.” sbuffò il Borja, attaccando anche la seconda coscia del polletto: “Domani vi assegnerò uno squadrone e poi partirete.”

 

“Quindi ci siamo.” disse piano Pirovano, appena entrato nella stanza della Tigre.

La donna annuì appena: “Mi raccomando. Mantieni l'ordine e fai lavare i soldati. Non è il momento di favorire le epidemie. Ah, e sappi che ho fatto consegnare ai vostri cerusici qualche dose della mia pozione per far dormire, così se...”

“Caterina...” il milanese sembrava trovare fastidiosi quei discorsi, come se il solo pensare alla cittadella gli desse la nausea: “Per favore, parliamo dopo.”

“Dobbiamo parlarne adesso, invece.” lo rimise in riga lei, pur capendo che cosa intendesse.

Malgrado la sua buona volontà, però, la Sforza dovette cedere al suo stesso istinto, quando vide il suo amante avvicinarlesi con decisione e stringerla a sé. Lasciò che la baciasse e poi, dicendosi che, in fondo, si erano già spiegati a vicenda tutto quello che era necessario, fosse il caso di lasciare che le cose andassero per il loro verso. Dopotutto, aveva chiamato Giovanni alla rocca solo per un motivo.

Sciogliendosi tra le sue braccia, quindi, evitò di alimentare il discorso, e alla parole preferì i gesti. I loro corpi si cercarono fin da subito come se sapessero che il tempo a loro disposizione stringeva.

C'era un'urgenza, nel loro modo di stringersi e assaltarsi a vicenda, che di rado avevano conosciuto l'uno per l'altra.

Mentre affondava le unghie nella pelle liscia della schiena del milanese, Caterina poteva sentirlo respirare veloce contro il suo collo.

Mentre si perdeva nel suo calore e cercava le curve morbide dei suoi fianchi con le mani, Giovanni avvertiva la fame della sua amante divorarlo, come se non potesse lasciarlo vivere, dopo quella notte.

Persero la cognizione del tempo, inseguendosi più volte, senza dirsi nulla. Non avevano bisogno di parlarsi per sapere che non era abbastanza per nessuno dei due.

Alla fine, ancora aggrovigliati sul letto disfatto, furono costretti a fermarsi solo perché non avevano più fiato in gola, e i loro cuori non sarebbero riusciti a reggere un'altra corsa del genere.

Tenendola stretta contro di sé, le labbra che le sfioravano la fronte e il petto che si alzava e abbassava rapido, contro il suo seno, Pirovano sussurrò: “Non ho mai amato nessuno donna come amo te.”

La Leonessa non disse nulla. Era lusingata dal tono dolce con cui le parlava, che era quasi in contrasto con la rapacità con cui l'aveva presa fino a pochi istanti prima, però non sapeva come rispondere.

Pur vergognandosi dei propri pensieri, mentre il suo amante cominciava a baciarla ovunque, passandola in rassegna come un trofeo, Caterina arrivò a trovarlo quasi patetico.

Con una mano che le afferrava una coscia e la chiara intenzione di tornare alla carica, a un certo punto Pirovano dichiarò: “Sei tutto il mio mondo, adesso.”

Quella volta, pur accettandolo all'istante, felice di quel nuovo slancio di passione, la Contessa non riuscì a trattenersi, e commentò, con la voce che iniziava a spezzarsi di nuovo: “Ti accontenti di poco.”

Giovanni finse di non sentire e si lasciò portare lontano ancora una volta, angosciato dall'idea che quella sarebbe stata davvero l'ultima.

Deposte le armi, alla fine entrambi restarono in silenzio, l'uno accanto all'altra, sfiorandosi appena.

Il tepore, sotto alle lenzuola un po' umide di sudore, era tutto ciò che serviva loro. Il camino era ancora acceso e la sua luce malferma li circondava, proiettando ovunque ombre lunghe e danzanti.

Fuori – la Tigre se ne accorse solo in quel momento – aveva ricominciato a piovere.

“Adesso devi tornare alla cittadella.” decretò la Sforza, con un filo di voce: “Quando sorgerà il sole, dovrai essere lì, a guidare i soldati.”

“Al Paradiso possono cavarsela anche senza di me.” disse l'uomo.

La Contessa, sconcertata da quell'inciso, scattò a sedere sul letto: “Tu mi hai fatto una promessa molto chiara.”

Pirovano sospirò e poi, allungando una mano verso di lei, per toccarla di nuovo, affermò: “E non me la rimangio. La mia era solo... Non so nemmeno perché l'ho detto.”

Voltandogli appena le spalle, la Leonessa borbottò: “Avanti, alzati... Abbiamo fatto anche troppo tardi. Devi far chiudere le porte e...”

“Ti rendi conto che non ci rivedremo mai più?” chiese lui, angosciato dall'apparente distacco della sua amante.

“Non è detto – si schermì lei – se facessimo delle offensive nel campo dei francesi, potrebbe essere che sia necessario sostare alla cittadella, prima di tornare qui e in quel caso ci vedremmo.”

Giovanni, che non aveva preso in considerazione quell'ipotesi, si aggrappò a quella labile speranza, ma ciò non bastò a fargli digerire l'atteggiamento della donna che amava.

“E in ogni caso – proseguì la Sforza, ruvida, mentre lasciava il letto e cercava una vestaglia da camera – sei un bell'uomo, ti consolerai presto.”

“Non voglio conoscere nessun'altra donna.” si ostinò lui, lasciando a sua volta il loro giaciglio: “Tu sarai l'ultima. Non mi interessano più, le altre.”

“Non dire cose che sai che non manterrai.” lo rimproverò lei, trovando finalmente qualcosa da mettersi addosso.

Visibilmente arrabbiato per la piega che stava prendendo quell'incontro, il milanese cominciò a vestirsi, con movimenti stizzosi: “Per quei pochi giorni che mi restano da vivere, credi davvero che non riuscirò a starmene da solo? Non sono mica una bestia...”

“Dico solo che non è necessario che tu ti imponga una vita monastica, a maggior ragione se pensi che ti restino pochi giorni.” lo corresse lei, mettendosi ad aiutarlo a vestirsi, dato che l'uomo, alterato, stava facendo un po' fatica coi lacci: “Lo sai che ho destinato qualche donna anche alla cittadella. Hanno accettato loro di restare per voi. Farete i turni, e tu, come comandante, sarai anche il primo della lista.”

“Ma ti senti, quando parli?” il tono di Pirovano era esterrefatto, era come se non conoscesse la donna che lo stava rivestendo con precisione e velocità.

La Sforza avrebbe voluto continuare a quel modo, convinta che il distacco sarebbe stato meno drammatico, se si fosse fatta anche odiare dall'uomo che sosteneva di amarla come mai aveva amato in vita sua.

E invece, nell'incrociare i suoi occhi scuri e pieni di paura, non riuscì più a recitare. Cambiando espressione, si sentì quasi sull'orlo delle lacrime.

“Non credere che per me sia facile.” gli disse, tutto d'un fiato: “Ma tu non sei la cosa più importante per me, al momento.”

“E se la fossi?” chiese lui, prendendole le mani, per fermargliele, inducendola così a fissarlo in viso: “Se la fossi, che avresti fatto?”

Caterina ripensò a quello che, anni addietro, aveva pensato di fare con Giacomo. Era stata un'idea subitanea e a suo modo esaltante, ma impossibile da mettere in pratica, a quei tempi.

“Ti avrei chiesto di scappare con me, lasciando tutti gli altri al loro destino.” soffiò la donna.

Pirovano lasciò la presa sulle sue mani e, mosso da un eccesso di ottimismo, propose: “Facciamolo, andiamocene, partiamo adesso.”

“Ti ho detto che, per me, ci sono cose più importanti.” ribadì la donna.

Giovanni deglutì. Non aveva altro da dire. Guardò, malinconico, il letto che li aveva accolti, inspirò a fondo l'aria che aveva il loro odore, e poi, rendendosi conto che non c'era più nient'altro da fare, baciò la sua amante, l'abbracciò per un istante e poi andò alla porta.

“Per quello che vale – le disse, appena prima di andarsene – io ti amato davvero, e combatterò fino alla morte per te, perché te l'ho giurato, perché sono un soldato fedele e perché ti amo.”

Ancora una volta, la Sforza ricambiò il suo sguardo, ma non espresse ad alta voce quello che pensava, lasciandolo nel dubbio.

Con un sorriso rassegnato, l'uomo sollevò una mano e, aprendo la porta, se ne andò senza dirle più nulla.

 
   
 
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