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Autore: _EverAfter_    15/02/2020    1 recensioni
Irlanda, 1855.
A pochi passi da Cork sorge un'antica tenuta di caccia chiamata Sedge Hall, dove abita una giovane ragazza della nobiltà irlandese. A causa delle sue condizioni di salute cagionevoli, fin dalla prima età è costretta a rimanere all'interno della magione, dove passa le sue giornate a dipingere su tela e disegnare col carboncino.
Durante una notte d'estate, un ladruncolo di Belfast s'addentra nella dimora, alla ricerca di qualche famoso quadro da poter rivendere.
E da quel momento la ruota del Destino riprende a girare.
▸ Prima classificata al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di EFP.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Dove cresce la carice



III
Crepuscolo

_______________________________



    Il cocchiere arrestò la corsa al trotto degli Irish draught[¹] dal manto baio. Il ritorno dei coniugi Mór era stato previsto per quella mattina. A giudicare dalle epistole sempre meno frequenti, tutta la servitù s’era allestita e fatta cosciente di dover attendere ancora del tempo prima di veder nuovamente tornare i due proprietari. Tuttavia, un pomeriggio di quelli ch’annunciavano sventura, il fattorino s’accanì sul picchiotto di bronzo, consegnando la missiva che annunciava il ben poco lieto ritorno.
    Tra i corridoi si bisbigliava che, in fondo, non fosse tanto male vivere senza di loro: la signorina Abaigeal non parlava con nessuno e si limitava a lasciar fare loro tutto ciò che Lady Sadhbh disponeva – e Lady Sadhbh non era certo austera e rigida come la contessa Mór. Il clima di Sedge Hall non era mai stato così rilassato e calmo come in quei giorni; la giovane proprietaria passava la maggior parte delle sue giornate nella stanza misteriosa – così tutti erano soliti chiamarla, poiché Abaigeal non aveva mai permesso a nessuno di entrare lì dentro –, la governante si concedeva il lusso di gestire la casa seduta sulla poltrona di fronte al vasto camino della sala principale, sorseggiando un bicchierino di whiskey, e i domestici s’organizzavano per pulire solo quelle parti della casa che la contessa aveva più a cuore, dimentichi della soffitta e della cantinola, luoghi in cui non l’avevano mai vista andare – c’era chi diceva che avesse la fobia dei ragni, altri quella dei topi.
    Abaigeal accolse i due genitori all’entrata del muro di laterizi, con le mani strette alla coperta che le copriva le gambe. Chinò leggermente il capo in gesto di saluto, mormorando un semplice: «Bentornati, padre e madre.»
    «Buongiorno, cara.» La contessa si limitò ad un distratto cenno della mano, mentre con impacciata grazia tentava di togliersi i guanti di raso bianco che s’impigliavano tra le pellicine delle dita – che, a differenza di quelle della figlia, non erano poi così affusolate come voleva far credere. «Hai mangiato adeguatamente?»
    «Sì» rispose, e la mano del padre si portò a carezzarle la testa in un gesto dovuto e privo d’affetto.
    «Bene» le disse il patriarca, sorpassandola per entrare nella tenuta. «Questo è importante.»
    Abaigeal s’affacciò distrattamente con lo sguardo alla finestra del suo studio: con gli occhi puntati sulla penosa riunione, Fearghus osservava e non capiva. S’aspettava un incontro di quelli raccontati nei romanzi che tanto piacevano alla ragazza, quelle storie irte di peripezie e dei finali lieti e favolistici che vedevano il protagonista vivere una vita serena e gioiosa. Abaigeal, però, non le appariva affatto felice: aveva il viso mortificato e le mani che stringevano la coperta di lana bianca sulle gambe immobili, in antitesi con le braccia pallide e tremolanti. Il vetro era troppo opaco perché riuscisse a capire se stesse piangendo, e tuttavia s’accorse facilmente della mascella indurita e degli occhi gonfi, mentre la vedeva sciogliersi con rabbia la sofisticata acconciatura su cui s’era incaponita dalle prime luci dell’alba.
    Aveva un vestito più carino di quelli ch’era solito vederle addosso: era d’un delizioso lampasso d’amamelide
[²], ricamato con lussureggianti fili d’oro che impreziosivano il petto minuto e la vita sottile. S’era coricata la sera prima con in testa una spropositata abbondanza di fiocchetti bislacchi, stranezza che lui aveva commentato con un semplice: «A che ti servono tutti quei nastri?»
    «È per i boccoli» aveva sbuffato infastidita la ragazza, mentre si lasciava avvolgere dalle pesanti coperte che il giovane le aveva messo addosso. «Così i capelli sono più graziosi.»
    Fearghus non riuscì a trattenere la pena. Abaigeal, dalla personalità eccentrica e un po’ svampita, non gli era mai parsa così fragile come in quel momento, riflessa nel vetro della stanza dei quadri, con il suo bel vestito, i suoi bei capelli ed una solitudine che la tormentava, trascinandola nel baratro di quell’incubo che si ostinava a chiamare vita. Se solo avesse potuto sarebbe andato a dirle che era stupenda e che non aveva bisogno del conforto dei genitori per crederlo; tuttavia s’accorse lesto che ciò che lui aveva visto in quelle settimane, lei non l’avrebbe mai potuto apprezzare: riflessa nello specchio, ciò che le sarebbe sempre apparso era l’orrenda immagine d’una ragazza nata per sbaglio, un terrificante aborto della natura, l’anomalia illogica d’un corpo nato con le gambe e incapace di usarle. Un fallimento, progettato da un burattinaio sadico e negligente.
    Ciò che vedeva lui non contava poi molto. Gli era capitato spesso di soffermarsi sui lineamenti sottili della ragazza, sul naso socratico solcato da mille lentiggini e sugli occhi cerulei, persi a fissare un panorama che aveva visto mille volte, ma ch’era in grado di rapirla ogni volta. Forse non era bella davvero, Abaigeal; eppure gli pareva la donna più aggraziata che avesse mai visto, e non sapeva se fosse dovuto all’affetto o al mero giudizio d’un uomo che, lentamente, s’affacciava al sentimento platonico e irraggiungibile: Abaigeal era una giovane aristocratica e lui un povero bastardo che non aveva alcuna ragione d’insozzarla con le sue mani sporche e peccatrici, nonostante la coscienza gl’intimasse subdolamente che, forse, avrebbe potuto renderla felice, portandola via da quel mondo misero e disgraziato.
    Quale presunzione, la sua. Un vagabondo stanco, con le gambe indolenzite dal troppo viaggiare e il cuore sedotto dalla tenerezza d’una fanciulla non ancora donna e tuttavia così amabile e raffinata, dolce e leggiadra come i quadri che dipingeva, come le storie che immaginava. Attese impaziente il ritorno della ragazza, con la devozione d’un cane che avesse visto il proprietario tornare dalla vendemmia. E lui si sentiva proprio in quel modo, una bestia selvaggia sfiorata dal sorriso malinconico di lei, addomesticata dalle sue maniere cortesi e piene di premure.
    La osservò spingersi con la carrozzella dentro la stanza, mentre richiudeva cautamente la porta dietro di sé. Non vi pensò molto Fearghus, prima d’abbracciarla come avrebbe dovuto fare suo padre e sua madre prima di lui. La strinse, impacciato da quel gesto troppo audace, che in sé pareva più la stretta d’un fratello rattristato che d’un amante fedele. «Abby, piccola Abby.»
    Ed Abaigeal pianse, mentre si lasciava cullare dalla voce roca e gentile del suo ospite che le raccontava una storia, in quella debole e opaca speranza di poterla veder tornare a sorridere. Era l’unica cosa che aveva imparato a fare da quando l’aveva conosciuta, e l’unica cosa che l’aveva sempre fatta ridere. Ma più s’ingegnava per intricar la trama, più lei singhiozzava e si faceva piccola contro il suo torace. «Ti hanno fatto del male» le aveva detto poi, incapace di trattener oltre il tormento, «e nonostante questo tu provi ancora affetto per loro.»
    «Perché non mi vogliono?» aveva singhiozzato, come fosse il capriccio d’una bambina viziata. «Perché non possono amarmi?»
    Fearghus non sapeva risponderle, e non provò ad inventare scuse, perché proprio non c’era tagliato – lui – per quelle. «Perché sono due stupidi ciechi.» Prese tra le mani il viso della giovane, lasciando che lo sguardo disperato di lei si rifrangesse nell’ambra del suo. «Sono ciechi perché non ti vedono affatto, Abby. Non vedono quanto tu sia meravigliosa e simpatica e allegra. Non vedono quanto tu sia brava nella pittura, né vedono quanto tu sia eccezionale nel raccontare le storie. Non possono vederti. Ed è per questo che non ti meritano affatto.»
    Abaigeal tirò su col naso, sprofondando ancora una volta nell’abbraccio sicuro e paterno del ragazzo, che le stringeva la piccola vita, le baciava i capelli, cercando di colmare il vuoto insanabile d’una consanguineità distaccata e indifferente al suo dolore. La cullò per tutta la notte, parlandole di tutte le cose a cui pensava, cercando d’allontanar quei pensieri infausti e straziati, mentre sentiva il piccolo cuoricino assopirsi e la testa rossa farsi pesante sul suo petto.
    Lì, persa nel mondo che Fearghus continuava a narrarle, Abaigeal si sentiva un po’ meno fragile.

__________________________________________________________
If you want to I can save you
I can take you away from here
So lonely inside
So busy out there
And all you wanted was somebody who cares.





    Le campane distanti di Shandon Church scoccarono allo zenit di quella calda giornata di fine agosto; il suono, benché lontano, si propagò in tutta Sedge Hall, facendo sobbalzare l’accidioso custode nel suo piccolo studiolo e cadere il bicchiere di whiskey di Lady Sadhbh.
    Fearghus sgattaiolò furtivo nella stanza d’Abaigeal, sorprendendosi di trovarla ancora addormentata tra le ingombranti coperte di lana – ancora non si spiegava il perché avesse sempre così tanto freddo nonostante il caldo vento di quei giorni. Le si sedette accanto, scostandole i capelli dalla fronte sudata e pallida. Le carezzò la testa e si stupì di quanto fosse terribilmente accalorata.
    «Abby» la chiamò preoccupato, «tu scotti.»
    La intravide schiudere una palpebra, mentre tentava di mettersi seduta con la schiena contro la spalliera d’ottone del letto. «Non preoccuparti» s’affrettò a dire, strofinandosi gli occhi, «ho sempre la febbre, io.»
    «Che significa?» Fearghus, per grazia ricevuta, non aveva la benché minima idea di cosa significasse essere ammalati, poiché il Signore l’aveva dotato d’un corpo sano e robusto, immune alle influenze stagionali.
    «Io non sono molto forte» gli rispose, con una scrollata di spalle, «per cui è come se fossi sempre malata.»
    Il ragazzo si concesse al silenzio, rinunciando a continuare quella conversazione. Il tempo scorreva superfluo, divorando implacabile i giorni più beati, portandosi via la gioia e la spensieratezza degli attimi più preziosi. Fearghus s’era accorto in fretta di quanto le condizioni d’Abaigeal fossero peggiorate: un giorno aveva spiato il dottore che, nel grande salone assieme ai coniugi Mór, s’era subito spiegato sull’aggravamento della malattia congenita, associata ad un’affezione definita melancolia
[³], che si stava portando via la ragazza e, con lei, ogni cosa che le appartenesse. Dapprima sconvolto, s’era rifugiato nella stanza dei quadri, chiedendole disperato se lei ne fosse a conoscenza.
    «Ma certo» gli aveva risposto, non distogliendo lo sguardo dalla tela, «per questo non posso uscire da qui.»
    Le chiese il perché non gli avesse detto niente, più in pena per la giovane che per se stesso.
   «Non avresti potuto fare nulla comunque» aveva continuato Abaigeal, con insolita risoluzione, «arriverà il giorno in cui io non riuscirò più ad alzarmi dal letto. E non riuscirò a muovere le braccia, né a girare la testa verso la finestra per vedere gli uccelli posarsi sui rami del pino. So che quel momento arriverà presto, per cui non voglio parlarne, poiché significherebbe ammettere ch’è già qui.»
    Fearghus, al sentir quelle parole così spaventose e reali, si sorprese dello strano dolore allo sterno; non aveva mai passato abbastanza tempo con qualcuno per abituarsi alla sua presenza, tantomeno affezionarvisi. Con Abaigeal, tuttavia, era diverso: s’era così assuefatto alla presenza della bizzarra ragazza che non aveva mai pensato all’eventualità che lei potesse lasciarlo da solo.
    «Significa che morirai?» Glielo aveva domandato senza pensarci troppo, vittima del panico e dell’incertezza che trasparivano come specchi sul viso contratto e lo sguardo atterrito.
    La giovane interruppe il certosino lavoro di pittura, posando il pennello e lasciando trasparire un velo di rassegnata sconfitta. «Già.» All’espressione inebetita del ragazzo, Abaigeal rise, stemperando la tensione ch’imperversava furiosa all’interno della stanza. «Non crucciarti in quel modo. Non siamo poi tutti destinati alla stessa fine?»
    , avrebbe tanto voluto risponderle, se ne avesse avuto il coraggio. Sì, ma tu morirai senz’aver mai vissuto.
    Quel giorno Fearghus comprese che la promessa che le aveva fatto – quella di portarla via da Sedge Hall per farle vedere il mondo –, non si sarebbe mai avverata. Il tempo, che di certo era più sagace e vispo di lui, s’era già appropriato del piccolo corpo che in quell’istante riposava quieto sul letto, mentre il ragazzo si lasciava cogliere da un improvviso attacco di panico, stringendo la mano minuta tra le sue.
    «Non è da te» lo sgridò la voce flebile della giovane. «Non è proprio da te piangere.»
    Fearghus non s’era affatto accorto delle gocce che scendevano copiose a bagnare la coperta sotto la quale era stesa Abaigeal. Colto dagli spasmi d’un dolore lancinante e dall’inatteso singhiozzo, si limitò a risponderle: «Senti male?»
    La ragazza scosse il capo, tranquillizzandolo con una lieve smorfia, così dissimile dai sorrisi ch’era solita rivolgergli. «No.» Strinse leggermente la presa sulle dita dell’ospite. «E non ho paura.»
    Era una bella consolazione, sapere che lei fosse abbastanza forte da comprendere la situazione e d’accettarla senza batter ciglio. Peccato che lui, al contrario, non fosse affatto sicuro, né pronto. Si sentiva come in una bolla, Fearghus: una grande, immensa bolla dalla quale non era in grado di raggiungerla.
    «Io sì, invece» ammise, asciugandosi il contorno arrossato degli occhi. «Credimi, ho molta più paura io di perderti che tu di andartene.»
    Andartene. Non era in grado d’usare l’altra parola, quella insidiosa e terrificante, che non era capace di pronunciare perché troppo dolorosa – almeno per lui. Per un ignaro passante che si fosse trovato per caso ad osservare oltre la finestra di Sedge Hall, sarebbe stato difficile comprendere chi tra le due persone presenti in quella stanza fosse il più adulto. Fearghus appariva come un ragazzino spaventato e insicuro, mentre Abaigeal recava in sé l’immagine eterea d’una vera signora, seppur col pallore mortale a imbiancarle il viso sempre più emaciato e gli occhi che del ceruleo d’un tempo avevano conservato solo la sfocata ombra di ciò ch’erano stati.
    Fu in quel momento che il ragazzo apprese l’ennesima, estenuante verità: il tempo non gliela stava solo portando via, ma s’era viziato al punto da costringerlo a guardare l’amata fanciulla sfocarsi, mentre l’iconica visione di lei nel cariceto mutava in quell’orribile scena che aveva davanti agli occhi. Abaigeal stava lentamente scomparendo, e lui non poteva far altro che sperare in quell’ingenuo miracolo che Dio avrebbe potuto concedergli, se solo fosse stato una persona migliore.
    Si chiese se il vederla spegnersi non fosse la sua lex talionis
[⁴] per esser stato un ladro e un borseggiatore, l’inaffidabile e disonesto vagabondo che aveva passato la vita cercando d’imbrogliare il prossimo. Strinse i denti, vietandosi di piangere ancora davanti a lei, mentre le cullava l’udito stornellandole Molly Malone[⁵]. Abaigeal, che sentiva la debolezza permearle le viscere e irretirle ogni senso, s’assopì al suono della ballata, chiedendosi per quanto ancora le sarebbe stato concesso di poter ascoltare la voce di Fearghus raccontarle storie o cantarle poesie. Nonostante ciò che s’era lesta premurata di dirgli, era atterrita dall’idea della morte: non sapeva cosa ci fosse dopo la parola fine, non l’aveva mai visto. E si consolò solo al pensiero che, forse, essa sarebbe stata il primo posto, dopo il cariceto, ch’avrebbe finalmente potuto vedere.
«And that was the end of sweet Molly Malone.
Now her ghost wheels her barrow,
Through streets broad and narrow,
Crying, "Cockles and mussels, alive, alive oh![⁶]»
    S’addormentò serenamente, con l’immagine della pescivendola che trasportava il suo carrello per le strade trafficate di Dublino.





    Nella stanza dei quadri, sul cavalletto di rovere, v’era un quadro dipinto a metà. Fearghus riuscì a scorgervi il bel gregge di nuvole bianche che attraversavano il cielo azzurro e le carici ondulate nel vento che l’osservatore poteva solo dedurre dalla surreale curvatura dei loro steli. Mancava parte dello sfondo, lì dove i colori si diradavano a mostrar l’intreccio della tela. Rimase a fissarlo per tutto il giorno, in attesa di poter finalmente andare da Abaigeal, ch’era sotto stretto controllo del dottore e dei domestici sempre più ansiosi. I coniugi Mór s’erano affannati alla ricerca d’un erborista che fosse in grado d’alleviare i sintomi della figlia, ma si ritrovarono di fronte all’ineluttabilità del destino ch’era già in moto dal giorno della sua nascita infausta, e che certo non avrebbe arrestato la sua corsa per colpa di qualche mero infuso di belladonna o d’echinacea.
    Attese paziente l’ultimo sbattere della porta, prima d’entrare come di consueto dalla finestra.
    «Abby.» Le prese una mano, poiché la vista della giovane s’era fatta meno acuta e non voleva spaventarla. «Sono io.»
    «Lo so» rispose lei, ridendo, «sei l’unico che entra dalla finestra, Fearghus.»
    Vi fu silenzio, prima che il ragazzo potesse sentire nuovamente la voce della ragazza. «Dove sto andando, Fearghus?»
    Non sapeva cosa risponderle. S’era trovato molte volte a mentirle, quando le raccontava le storie, oppure quando si trattava d’aggiunger romanzo ad una vicenda altrimenti noiosa, eppure in quel momento l’unica cosa che avrebbe voluto dirle era che non voleva rimanere di nuovo solo. Voleva infonderle speranza, coraggio e forza, ma non sapeva farlo. Non c’era portato, lui, per quelle cose. E così, per non impensierirla, s’affidò ad una mezza verità, dolorosa e tuttavia l’unica che fosse in grado di replicare degnamente al suo quesito.
    «In un posto molto, molto lontano da qui, Abby.»
    «Ci sei mai stato?»
    Fearghus deglutì a stento, mostrandosi impassibile. «Non ancora, no. Però me ne hanno parlato in tanti.»
    «E com’è?»
    «È un posto bellissimo» continuò, stringendo le palpebre per evitare di lasciarsi andare all’isterismo del pianto, «è pieno di luce, suoni, colori; e, pensa, potrai camminare lì, Abby. Potrai viaggiare e andare in tutti i posti che vorrai.»
    «Fearghus?»
    «Sì?»
    «Cresce anche lì, la carice?»
    Il ragazzo si concesse alla debolezza delle lacrime silenziose, persuaso che lei non fosse più capace di poterlo vedere com’era solita fare al bel tempo. «Ma certo» rispose poi, per paura che potesse accorgersi dei suoi pietosi vagiti, «non sei stata tu a dirmi che cresce ovunque?»
    «Sì, l’ho detto.» Sentì la mano della giovane tastare il bordo del letto, cercando a tentoni la sua, più fredda e tremolante rispetto al solito. «Spero di poterla vedere ancora.»
    «La vedrai, Abby.» Le scivolò accanto, abbracciandola e portandosela contro il petto, ignaro di quanto tempo gli fosse rimasto prima di dirle addio. «E vedrai il Selciato del Gigante e Belfast, anche. Vedrai tutto ciò che vorrai, e non avrai più limiti. Vivrai davvero questa volta, non patirai la solitudine né il dolore. Sarai felice, serena e potrai dipingere ogni cosa nuova che vedrai, senza doverla immaginare. Non è fantastico?»
    Si fermò all’improvviso, accortosi di non sentire più il suo respiro premerglisi contro il collo. Chinò lo sguardo, ma non vide quello della ragazza: aveva le palpebre chiuse ed un meraviglioso sorriso dipinto sul volto, d’un tratto meno emaciato. Sembrava che fosse sereno.
    Abaigeal non c’era più.
    «Potevi almeno dirmi dove saresti andata» singhiozzò Fearghus, stringendola e lasciandosi andare a quel dolore che nessuno gli aveva mai detto che potesse esistere.
    Ché la donna che amava così tanto era morta, e non sarebbe mai stata sua. Pianse, per quella promessa di portarla via da Sedge Hall. Le accarezzò il volto sottile con la mano intirizzita, e in quella carezza v’erano tutte le anime di coloro che avrebbero potuto conoscerla, se solo fosse stata altrove. Sfiorò con le dita le labbra rubate dal freddo, e in quell’affettuoso contatto v’erano tutte le storie che non le avrebbe mai più raccontato. Poggiò la sua fronte su quella della ragazza, mentre le lacrime scendevano silenziose a inumidirgli le guance per cadere goccia a goccia sul volto pallido di colei che gli aprì le porte del cuore.
    «Grazie, Abby» mormorò.
    C’era una cosa che Fearghus non aveva mai saputo e che comprese solo in quell’istante. Una verità sciocca e irrilevante ai più, ma che lui sentiva d’aver raggiunto solo per merito della sua piccola donna: la morte faceva paura a tutti. Terrorizzava l’uomo fin dai tempi antichi, imponendosi con la sua austera fatalità a ghermire le anime che più le confacevano, gridando e mostrandosi ai loro sguardi spaventati e penosi.
    Ma c’era una cosa che non poteva prendersi. Un’emozione che sbocciava ovunque, come la carice; e ch’era fiorita persino nel cuore d’un misero ladro di Belfast.
    Quel sentimento si chiamava amore.
    E la morte non era in grado d’ucciderlo.




    Abaigeal Mór morì il 28 agosto del 1855, senza poter vedere i suoi diciassette anni.
    Non fu mai celebrato alcun funerale, poiché i coniugi Mór si scoprirono restii all’invito degli altri capisaldi degli Ó Súilleabháin, gente che non avrebbe fatto altro ch’insozzare il nome della figlia con le romanzate più variopinte. Per quanto addolorati, non si pentirono mai della loro indole sciatta e superficiale nei riguardi d’Abaigeal, giustificando i loro comportamenti con scuse ben più patetiche di quelle che i domestici s’erano attesi.
    Venne seppellita nel cimitero di Cork, e fu surreale pensare che avesse dovuto aspettare la sua morte per poter visitare un luogo che aveva sempre desiderato vedere. Non poté salutare Sedge Hall, e la stanza dei quadri venne dimenticata, sigillata con delle pesanti sbarre di legno: nessuno prestò attenzione al vetro rotto che affacciava sul giardino, né dell’ospite che continuava a far visita ai dipinti ormai scordati. Ci andò solo un’altra volta per contemplare l’ultimo quadro che aveva pitturato, l’incompiuto. Quella tela, al cui centro vi era un immenso vuoto, gli ricordava un po’ lui. Se avesse potuto, avrebbe sanguinato anch’essa, ne era certo.
    L’afferrò saldamente, portandosela sotto al braccio: sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe mai rubato, mentre diceva silenziosamente addio a Sedge Hall e a tutto quello che per lui aveva significato. Non vi avrebbe più fatto ritorno.
    Si recò a Belfast per un breve periodo e affidò la tela alle sapienti mani d’un artista locale, facendogli dipingere in quel buco al centro una ragazza dai folti capelli rossi che sorrideva, stesa sul pratone. In fondo quella non era una bugia. Era un ricordo. E dei più preziosi.
    Tornò a Cork solo dopo aver lavoricchiato come garzone da un fabbro, venendo poi assunto da un giovane imprenditore agricolo a cui serviva un bracciante per i campi. Fearghus accettò, trasferendosi nella città poco dopo; visitò molte case, affittando l’unica che fosse abbastanza vicina al cimitero. Per andarla a trovare non avrebbe dovuto impiegarci poi molto. Doveva solo percorrere parte del lungofiume: prima di recarsi al St. Oliver
[⁷], impiegava qualche minuto per raccogliere la carice che cresceva rigogliosa sulle sponde del corso d’acqua, e gliela portava ogni giorno. Quello era per lui il momento più bello della giornata, l’istante in cui s’accostava alla piccola lapide di marmo bianco, le cui nervature di lapislazzuli gli ricordavano quegli occhi che tanto aveva amato. Che tanto amava ancora.
    E se ne stava seduto davanti al nome di Abaigeal Mór degli Ó Súilleabháin, posando la pianta estirpata accanto alla data di nascita, così spietatamente vicina a quella di morte.
    «Mi scusi» venne chiamato un giorno dalla voce di un’anziana signora che incrociava spesso a quell’ora del mattino. «Posso chiederle una cosa?»
    «Ma certo, signora» rispose il ragazzo, senza scomporsi.
    «È da un po’ che me lo domando. Ma perché le porta sempre questa erbaccia?»
    Fearghus sorrise tra sé e sé, immaginandosi la reazione che avrebbe potuto avere la sua Abby al sentir pronunciare quella parola. Erbaccia.
    «Perché le piaceva» si limitò a rispondere.
    «Ah sì?» La signora sembrò perplessa. «E perché?»
    Una risposta concreta, Abaigeal, non gliel’aveva mai data. Non sapeva il perché le piacesse tanto, così azzardò ciò che aveva potuto dedurre nel poco, prezioso tempo che aveva passato a Sedge Hall.
    «Credo dipendesse dal fatto ch’era in grado di crescere ovunque.» S’interruppe, consapevole che il ricordo di lei fosse ancora troppo doloroso per parlarne come se nulla fosse. «È una pianta davvero insignificante e senza valore, diceva. Ma può fiorire in tutti i luoghi dove lei non è mai potuta andare. Una volta mi disse ch’era un po’ invidiosa, a dirla tutta.»
    La signora non rispose, mentre osservava il giovane di fronte a lei: lo vedeva ad ogni alba, lì seduto a parlar da solo. Cosa raccontasse, questo non lo sapeva. Ma v’era qualcosa in quello sguardo ambrato, una nostalgia tremenda e malinconica, che le incuteva un’insolita tenerezza. «Doveva amarla molto.»
    Non capì se si stesse riferendo all’amore che Abaigeal aveva per la carice o a quello che lui provava per la ragazza, e tuttavia Fearghus annuì, portando le dita a massaggiarsi delicatamente le palpebre stanche e pizzicate dall’imminente pianto.
    «Da morire.» In entrambi i casi la risposta sarebbe comunque stata quella.
    «Crede che un giorno la ritroverà?»
    Fearghus vi pensò per qualche istante. Aveva condotto una vita miserevole e gretta, concedendosi ai peccati molto più sovente di quanto non avesse fatto qualcun altro.
    «Non mi ha detto dove sarebbe andata» disse infine, sospirando come chi fosse consapevole del lungo cammino d’espiazione da compiere prima di raggiungerla. «Ma la conosco abbastanza bene da sapere dove sia.»
    Non gli sarebbe importato il tempo che avrebbe impiegato per assolvere ogni sua colpa. E qualora il reverendo Padre avesse deciso di confinarlo alla settima bolgia
[⁸], legandolo con serpi e sfigurandogli il volto, lui avrebbe accettato, poiché nulla sarebbe mai riuscito ad addolorarlo come il giorno in cui la sua Abby smise di respirare, concedendosi all’agognato oblio. Avrebbe sopportato ogni cosa, Fearghus.
    E se mai vi fosse stato un Paradiso, lui avrebbe dovuto mostrarsi d’esser degno.
    Perché era certo che, dovunque fosse, Abaigeal si trovasse lì.

__________________________________________________________
Please can you tell me
So I can finally see
Where you go when you're gone.





Fine

NOTE:

[¹] Cavalli originari dell’Eire, Connemara.
[²] Una gradazione di giallo.
[³] La melancolia, a quei tempi, era considerata una forma molto grave di depressione, che sui soggetti immunodepressi portava a perdita di peso, inappetenza, allucinazioni e, nei casi più gravi, anche alla morte. In questa storia è chiaramente da intendersi nella sua accezione antica, non in quella moderna.
[⁴] Pena del taglione, è un principio di diritto consistente nella possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto intenzionalmente un danno causato da un'altra persona, di infliggere a quest'ultima un danno, anche uguale all'offesa ricevuta (Wikipedia).
[⁵] L’inno di Dublino, risale al XVIII secolo.
[⁶] «Quella fu la fine della dolce Molly Malone
ma il suo fantasma spinge ancora il carretto
per strade strette e larghe
gridando "vongole e cozze vive!»
[⁷] Cimitero di Cork.
[⁸] Le bolge sono i gironi dell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco. La settima è quella riservata ai ladri, che hanno le mani legate dietro la schiena da serpenti e subiscono orribili metamorfosi.


Lo sclero di
ver


Immagino che la domanda che un po' tutti vi stiate ponendo è: "Ma carissima Ever, come diavolo è che le tue storie non hanno mai un cappero di lieto fine?"
La colpa non è mia, ci tengo a specificarlo. Ho una passione incommensurabile per il dramma, che ritengo molto più bello e coinvolgente delle storie a lieto fine. Ho anche cercato di trovare razionalmente una spiegazione, ma l'unica abbastanza valida è che mi reputo una persona dalla discutibile sensibilità. Non piango mai, per il lavoro che faccio devo sempre mostrarmi una specie di bestia di satana, per cui quando posso dare sfogo alla mia piccola anima piagnona lo faccio e basta, senza pensarci troppo.
Oltretutto diciamolo, non trovate che i lieto fine siano un pochettino superati? Realisticamente parlando, quante volte potrebbe davvero essersi risolta con uno scontatissimo "e vissero per sempre felici e contenti"?
E qui ci starebbe un bel commento sarastico sul mio nickname, ma vi prego di risparmiarvi xD.
Spero che la storia vi sia piaciuta, a presto.

_EverAfter_

  
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