Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: tillmorninghighway    05/08/2009    3 recensioni
Udaya Raj era un pescatore, così come lo era stato suo padre e così come lo era stato il padre di suo padre. Udaya era nato sulle sponde dell’Oceano, e sapeva che sulle sponde dell’Oceano sarebbe morto. [26 Dicembre 2004]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

La Grande Onda

 

Udaya Raj era un pescatore, così come lo era stato suo padre e così come lo era stato il padre di suo padre. Udaya era nato sulle sponde dell’Oceano, e sapeva che sulle sponde dell’Oceano sarebbe morto. Era consapevole che per tutti quelli come lui la possibilità di vedere la vita cambiare in meglio era solo un sogno che andava sbiadendo con il faticoso susseguirsi degli anni. Suo padre, Sekar Raj, lo aveva messo in guardia fin dal primo momento: -Figlio mio- gli aveva detto, quando era solo un bambino che trafficava maldestramente con le reti da pesca -non avere false speranze! La tua vita sarà sempre legata ad una barca. Se non troverai il pesce non avrai il denaro, e se non riuscirai a procurarti il tuo pugno di rupie a fine mese non potrai avere cibo, e se non riuscirai a sfamarti figlio mio, allora sarà la tua fine. Non disperdere le tue forze in sogni illusori o trascinerai la tua vita nella rovina, come il marinaio inesperto trascina la nave negli abissi dell’oceano durante la tempesta-.

 

Udaya si svegliò presto come ogni mattina. Suo padre ancora dormiva, e decise di non svegliarlo. Sekar era ormai vecchio e malato, ed Udaya non amava vederlo zoppicare malamente lungo la spiaggia di Tuticorin. Anzi, in tutta sincerità, odiava vederlo invecchiare ogni giorno di più, odiava vedere i suoi occhi scuri, prima così vivaci, velarsi di stanchezza, e lo sguardo acuto e caloroso che aveva avuto un tempo, diventare fisso e spento. Non riusciva a tollerare l’idea che presto sarebbe rimasto solo.

Uscì all’aperto, camminando a piedi nudi sulla spiaggia. Albeggiava. Il cielo andava rischiarandosi ed il mare si tingeva del rosso aranciato che prelude l’apparizione del disco solare mentre il giovane pescatore si allontanava dalla baracca in cui viveva.

Udaya, come tutti i coolie workers, non aveva troppo tempo per ammirare la bellezza di quel paesaggio: quel privilegio spettava alle decine di turisti che vedeva riversarsi sulla spiaggia ogni mattina, mentre lui si allontanava in barca alla ricerca del pesce buono. Di turisti ne vedeva tutto l’anno, ma in maggioranza arrivavano nei mesi di dicembre o di gennaio, quando in Occidente la temperatura si faceva rigida e gli europei cercavano luoghi in cui l’estate ancora si attardava con il suo calore e con le sue giornate luminose.

Le spiagge di Tuticorin, quindi, in quel periodo, erano parecchio frequentate dai visitatori: arrivavano dalla Germania, dall’Italia, dalla Francia, alcuni anche dagli Stati Uniti. Per la maggior parte non li degnavano di uno sguardo, impegnati com’erano a cospargersi di lozioni abbronzanti o a rigirarsi sui teloni da mare; tuttavia proprio il giorno prima, durante i festeggiamenti della Vigilia di Natale organizzati per i turisti, Udaya aveva avuto il piacere di conoscerne uno estremamente cortese. Era un signorotto inglese di mezza età che diceva di essere stato trascinato da sua moglie in quella vacanza, anche se Udaya aveva la mezza idea che fosse accaduto l’esatto contrario. Il signorotto si chiamava Peter Doyle, ed aveva passato tutta la serata a parlargli della sua ammirazione per il mondo orientale, a chiedergli informazioni sui guru, o a leggergli stralci di un libro intitolato Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda. Ma, come gli aveva detto Sekar quella sera stessa, Peter Doyle era solo un’eccezione su tanti, ed Udaya non poteva negarlo.

Continuando a passeggiare sulla spiaggia, incrociò un paio di stranieri che scattavano foto al sole sorgente parlottando entusiasticamente fra loro in francese. Li superò guardandoli con scarso interesse. Si chiese chi poteva essere così sciocco da scattare foto al sole che sorgeva, e fu allora che con sommo disappunto notò, poco oltre i due francesi, il signor Doyle, anche lui intento ad armeggiare con una fotocamera. Quando Udaya gli fu abbastanza vicino, il signor Doyle lo notò. Gli rivolse un ampio sorriso e lo salutò con un -Buongiorno Udaya!- che lasciava trasparire le sue intenzioni di fare conversazione.

-Buongiorno mister Doyle- rispose Udaya accostandoglisi.

-Un’alba meravigliosa non trovi?-

-Si, signore. È davvero molto bella- disse incerto Udaya. Si chiese se nelle altre parti del mondo l’alba fosse diversa da quella, ma non ebbe tempo per cercare una risposta perché il signor Doyle riprese a parlare:

-In effetti è un autentico spettacolo. Credo che questa foto potrà rivaleggiare con quella che scattai ai puys francesi, molti anni or sono-

-Immagino che abbiate ragione, signore- ribatté Udaya, deciso a non fargli capire di non aver mai sentito parlare di puys prima di allora.

-Eh si! Naturalmente fu mia moglie a trascinarmi lì, in Francia. Se fosse per me, non mi muoverei mai da Edimburgo!-

-Allora forse dovrebbe ringraziare sua moglie, signore?-

-Beh, si… in effetti mi dà lo sprone necessario…-.

Ma Udaya non lo seguiva più. Si era voltato ed aveva visto suo padre che, uscito dalla baracca, zoppicava mollemente appoggiandosi al suo bastone.

-Mi scusi- disse rapidamente al signor Doyle, e si affrettò ad andare incontro a Sekar.

-Papà!- lo redarguì non appena gli fu accanto -lo sai che non devi affaticarti! Torna a casa!-

-Figliolo- protestò il vecchio -non saranno certo questi quattro passi a portarmi alla tomba-. Ma aveva già il fiato corto.

-Avanti, torniamo a casa- insistette Udaya, posandogli una mano sulla spalla e guidandolo verso la baracca. Il signor Doyle, che intanto si era avvicinato per ascoltare, li seguì all’interno dell’abitazione.

Era un luogo così spoglio e malridotto che risultava difficile credere che vi abitasse qualcuno.

Udaya fece stendere il padre su un mucchio di coperte ammonticchiato in un angolo e, mentre il signor Doyle si guardava intorno sconcertato, gli raccomandò di: -non uscire di casa mentre sono via, hai capito? Cerca di riposare e non preoccuparti se ritardo. Non devi aspettarmi per il solito orario, perché oggi non andiamo a pescare. Vado da Titus a ritirare lo stipendio, e quindi ci vorrà del tempo. E nel frattempo tu non devi muoverti da qui, hai capito?-

-Ma Udaya!- si intromise il signor Doyle, distogliendo lo sguardo da una trave marcia che pendeva dal soffitto -Lasciare tuo padre solo, il giorno di Natale! Che indecenza sarebbe! Non sarebbe meglio se lo portassi con te?-

-Titus abita dall’altra parte della città, c’è un sacco di strada da fare e mio padre ha bisogno di riposo- sillabò Udaya, stizzito per l’intromissione indesiderata del signor Doyle. Che ne voleva sapere quello di ciò che era meglio che lui facesse per suo padre?

L’inglese comunque non demorse: -Posso darvi un passaggio in macchina. Fareste in un attimo e tuo padre non si affaticherebbe minimamente!-

-Grazie dell’interessamento, ma non abbiamo bisogno di niente!- sbottò Udaya, aggressivo.

 

Quel pomeriggio, dopo aver aspettato per ore che Sekar si addormentasse, il giovane indiano si preparò per andare a Tuticorin. Il signor Doyle, che non perdeva occasione per parlare di Buddha o di Babaji, si offrì comunque di accompagnarlo, e quando Udaya gli chiese perché si fosse tanto preoccupato di non fargli lasciare Sekar a casa da solo mentre lui non aveva esitato a lasciare la moglie ed i due figli in albergo, quello, facendo finta di non averlo sentito, si limitò ad esclamare con passione: -E poi c’è India segreta che è un libro fantastico!-.

 

Titus lo stava aspettando. Probabilmente tutti gli altri braccianti si erano già presentati.

-Ah, Udaya, buonasera! Come sta tuo padre?- gli chiese, alzandosi goffamente dalla sedia e stringendogli con forza la mano.

-Invecchia, signore- si limitò a rispondere lui.

-Eh, si, naturalmente… oramai anche lui ha la sua età- disse Titus, avvicinandosi ad un mobile ed aprendone un cassetto. -Ci passiamo tutti prima o poi- soggiunse, alzando un po’la voce, mentre porgeva al giovane un piccolo, tintinnante sacchetto di pelle. -Gli esseri umani nascono, crescono, se la spassano finché possono, si riproducono e… muoiono-.

Udaya serrò la mano destra intorno al saccoccio. -Arrivederci- disse lapidario, si girò e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle quando ancora Titus lo stava salutando con un -Arrivederci Udaya, e buon Natale-.

Il signor Doyle lo stava aspettando di fuori, in macchina.

-Tutto a posto?- gli chiese non appena ebbe chiuso lo sportello.

-Si- borbottò Udaya.

Il signor Doyle mise in moto.

-Quindi ti riporto a casa?- domandò.

-Si, grazie- rispose in tono piatto.

Il signor Doyle lo squadrò.

-Questa sera in albergo organizzano una festa- disse, tornando a guardare la strada.

-Una festa?- chiese esitante Udaya.

-Si, sai… una festa di Natale-

-Ah…-

-Mi chiedevo se non ti farebbe piacere venirci-

-Venirci?- ripeté dubbioso.

-Si, beh…- cominciò, muovendo la mano in ampi gesti -Sai… è una di quelle feste in cui si balla… si mangia… si beve; insomma- concluse, con una smorfia -una noia mortale! Se tu venissi almeno potremmo scambiare quattro chiacchiere…-

-E mio padre?- chiese incerto Udaya.

-Beh… non starà dormendo a quell’ora? Forse neanche si accorgerà della tua assenza…-.

Udaya lo guardò totalmente spiazzato. Non era quella la persona che, poche ore prima, si stava offrendo di scarrozzarlo per la città insieme a suo padre così che non lo lasciasse solo?

-Oh, comunque se non vuoi non importa! Nessuno ti costringe! Al limite passerò la serata ad ascoltare mia moglie che parla del suo club di cricket!- esclamò in fretta Doyle, notando il silenzio prolungato del pescatore.

Udaya si morse le labbra. Se la spassano finché possono. Una folle sensazione si impadronì di lui. Quando gli sarebbe capitata di nuovo un’occasione del genere? E…muoiono. Se fosse successo qualcosa a suo padre comunque non se lo sarebbe mai perdonato.

-No, va bene, vengo-.

 

Non avrebbe saputo dire che ore fossero. Era incapace di ricordare quanto tempo fosse rimasto in quella sala piena di gente che ballava al ritmo martellante di canzoni d’oltreoceano, ad ascoltare il signor Doyle che, sempre più brillo, tentava di parlargli di Lahiri Mahasaya e di farlo ubriacare nello stesso tempo. Quando aveva sentito parlare del Natale si era sempre immaginato tutt’altra cosa. Forse era lui che si sbagliava… forse il Natale non era, come sempre aveva creduto, la festa che commemorava la nascita di Cristo… perché insomma! Se era così allora non aveva senso! Non trovava alcun nesso tra la nascita di uno che, almeno in India, veniva considerato un grande maestro e tutta quella baldoria. Si… evidentemente si sbagliava…

-Signor Doyle, per favore…- disse in tono lamentoso, alzandosi traballante e liberando il braccio dalla stretta alcolica dell’inglese. -Vado… vado aprendere… una bocata daria-. Si allontanò da quel tavolo, lasciando l’ometto a ridere inebetito, assistito dalla moglie che sembrava l’unica della famiglia ad aver mantenuto un minimo di dignità: i due figli, Josh e Ronald, se ne erano andati da tempo, in compagnia di due ragazze incontrate poco prima per caso, a passeggiare per la spiaggia al chiaro di luna.

Udaya attraversò la sala. La testa gli girava. Guardava a terra, seguendo i suoi stessi passi per non perdere l’equilibrio. Intorno ai suoi piedi vedeva quelli di molti altri che si muovevano rapidi. Si sentì urtare più volte. Non capì bene come fece infine a trovarsi sulla veranda esterna. Batté ripetutamente le palpebre. Respirò profondamente.

“Cielo!” pensò, appoggiandosi al balcone.

Il cielo nero sopra di lui era trapuntato da stelle luminosissime.

Era piuttosto confuso. Si sentiva instabile. Avvertiva quasi il terreno tremare sotto i suoi piedi. Quando lasciò il balcone per tornare da Doyle, crollò a terra. Gli parve che ogni singola cosa stesse oscillando. Chiuse gli occhi, nauseato. La teste gli vorticava. Rimase lì, rannicchiato al suolo, gli occhi serrati, piagnucolando -Mai più… neanche un goccio…- fino a quando non si sentì meglio. La testa continuava a girargli ed era ancora malfermo sulle gambe, ma almeno la sgradevole sensazione della terra che tremava sotto i suoi piedi era passata. Dopo qualche minuto si rialzò e tornò dentro.

Si sedette accanto al signor Doyle e rimase zitto per molto tempo.

La musica era ormai scemata e molti si erano seduti vagamente frastornati quando dalla veranda giunse un gridolino eccitato: -Ehi, guardate! È…bellissimo!-.

Udaya fu tra i primi ad andare a vedere. Il suo sguardo cadde immediatamente sul punto giusto: la spiaggia di Tuticorin. La si poteva vedere benissimo da là, non era troppo lontana.

Udaya guardò ammutolito.

-Deve essere uno dei fenomeni naturali del posto! Proprio come a Mont Saint- Michel!- sentì dire al suo fianco dal signor Doyle -A cos’è dovuto? Alta e bassa marea?-.

Udaya non sapeva cos’era Mont Saint- Michel, e in quel momento era l’ultima cosa che gli interessava sapere. Si sentiva malissimo.

-Non c’è mai stato un fenomeno naturale del genere qui- disse atterrito, e continuò a guardare il mare che avanzava, in un’unica, grande onda. Sulla veranda tutti guardavano emozionati. Molti cercavano macchine fotografiche e videocamere.

Quando le acque attraversarono tutta la spiaggia senza accennare a fermarsi e cominciarono a travolgere le prime abitazioni, scoppiò improvvisamente il panico.

Molti urlarono. La maggior parte cominciò a spingere freneticamente per rientrare nella sala. Udaya finì addosso alla signora Doyle che gridava -My sons! My sons are there!-.

Mentre cadeva a terra spintonato dalla gente che abbandonava orripilata la veranda Udaya ebbe appena il tempo di meravigliarsi dell’indiano perfetto che parlava il signor Doyle – non aveva mai pensato prima che visto che era un britannico avrebbe dovuto parlare in inglese! – prima di ricordarsi di suo padre. Quel pensiero lo lasciò per qualche secondo impietrito a terra. Attorno a lui voci gridavano in lingue diverse le stesse parole di terrore.

Si alzò, piangendo. Attraversò in senso contrario la veranda, impedito dalle persone che ancora tentavano di rientrare.

-Udaya!- sentì il signor Doyle chiamarlo con voce angosciata, ma non si fermò. Scavalcò il balcone, cadde a terra. Si fece male. Riprese a correre follemente verso l’onda che avanzava, verso la spiaggia ormai sommersa dove Sekar avrebbe dovuto dormire tra le pareti di una baracca.

-UDAYA!-

Ignorò il richiamo di Doyle, continuò a correre, ma non riusciva ad andare in fretta: la strada era invasa da decine di uomini, di donne, di bambini. Tutti scappavano, solo lui andava incontro a quell’immensa onda omicida. Tutti lo urtavano, tutti lo spingevano nel tentativo di mettersi in salvo. Finì di nuovo a terra. Si sentì calpestare. Sentì gente inciampare su di lui. Si rialzò, i vestiti sporchi di fango, il volto rigato dalle lacrime. Stava per riprendere a correre, ma una mano lo trattenne.

-Udaya, no!-

-C’E’MIO PADRE LAGGIU’!- ruggì Udaya, tentando di divincolarsi.

-Ci sono anche i miei figli!- gridò il signor Doyle.

Udaya smise di dibattersi. Si girò a guardare l’uomo che lo stava fermando: piangeva; soffriva quanto lui.

-Non c’è più nulla da fare per loro- gli disse, con quel suo indiano impeccabile, nonostante la voce incrinata.

Udaya lo guardò come se fosse un pazzo, ma in cuor suo seppe che aveva ragione. -Nulla… per loro… nulla…-.

E mentre stavano lì a guardarsi, la corrente di uomini in fuga li trascinò con sé.

 

Era Natale. Un nuovo Natale. Era passato un anno da quell’alba del 26 Dicembre 2004.

Udaya Raj poteva ritenersi estremamente fortunato ad essere lì, su quella barchetta che si allontanava dalla spiaggia di Tuticorin carica di reti da pesca, in quel momento.

Anche Peter Doyle poteva ritenersi fortunato di aver rimesso piede ad Edimburgo.

Un anno prima si erano salvati per pura fortuna. Avevano visto una porta aperta, ed erano entrati. Avevano salito le rampe di scale, e l’acqua non li aveva raggiunti. Erano rimasti isolati e senza cibo per tre giorni, e un elicottero infine li aveva portati via.

Mentre lentamente immergeva i remi nella limpida acqua dell’Oceano Indiano, Udaya ricordò il volto distrutto del signor Doyle il giorno del riconoscimento dei corpi. Sua moglie era stata estratta dalle macerie dell’albergo insieme a molti altri poveri disgraziati.

I corpi di Josh e Ronald Doyle, così come quello di Sekar, non furono mai ritrovati.

-Buttate le reti!- venne ordinato, e mentre quelle venivano calate fra grandi sciabordii, Udaya ricordò il signor Doyle all’aeroporto.

-Addio- gli aveva detto semplicemente.

Non lo vide né sentì di lui mai più.

Udaya lasciò che l’acqua gli bagnasse il dorso della mano. Com’era pulita, com’era calma! La stessa acqua che aveva seminato distruzione e morte in interi paesi ora stava lì, placida, sotto di loro, unica fonte di sostentamento che avessero mai conosciuto. La detestava.

 

Udaya Raj aveva sempre saputo che la sua vita sarebbe stata legata al mare, nel bene e nel male. Aveva amato quelle onde, e le aveva odiate con tutto se stesso; ma in quel momento, guardando il sole che sorgeva su un nuovo giorno, un giorno che avrebbe anche potuto essere migliore, sentì di essere finalmente pronto a riprendere nuovamente il largo.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: tillmorninghighway