Crossover
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Autore: Registe    17/02/2020    3 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 1- Un nuovo viaggio







Le Case di Guarigione di Minas Tirith







Le tre del pomeriggio erano il suo momento preferito per usare la mensa. A quell’ora, nel vasto stanzone bianco, inondato di luce, le lunghe tavolate erano completamente vuote. Gli altri medici delle Case di Guarigione erano stati più che disponibili a rifilargli tutti i turni tra mezzogiorno e le due, orario in cui non si reggevano in piedi dalla fame e affollavano la mensa come un branco di cavallette inferocite. Mangiare più tardi non era un problema per lui. Vexen era sempre stato resiliente contro fame e sonno, e la tranquillità di un pranzo senza Ribelli vocianti di sottofondo non aveva prezzo.
Doveva ammettere che, sulla Terra II, la cucina non era affatto male. Forse le porzioni erano lievemente abbondanti se uno doveva rimettersi a lavorare subito dopo, ma le lasagne al sugo dal profumo caldo e invitante, che si scioglievano in bocca in un trionfo di mozzarella filante, erano una piacevolissima variazione dopo mesi di insipide sbobbe demoniache.
Quel giorno non erano previste lasagne nel menù, ma Rosy Cotton, la giovane hobbit che cucinava per le Case di Guarigione di Minas Tirith, gli aveva consegnato con un gran sorriso un vassoio colmo fino all’inverosimile delle sue leggendarie patate arrosto, accompagnate da una fetta di manzo sugoso talmente tenero che quasi non c’era bisogno di masticarlo. Prima di ritirarsi nelle cucine gli aveva chiesto se doveva lasciare acceso l’oloschermo appeso alla parete di fondo, al momento sintonizzato su un notiziario imperiale.
“Perché no? Darò un’occhiata.”
Vexen doveva ammettere di ammirare la grazia e la naturalezza con cui il popolo primitivo della Terra II aveva integrato la tecnologia ribelle nei propri palazzi più rappresentativi. Il sottile oloschermo sembrava appartenere da sempre a quella sala dall’architettura semplice e ariosa, con la sua leggera cornice dello stesso bianco delle pareti e delle colonne affusolate ai lati dell’arco d’ingresso. Nella città di Minas Tirith tutti gli edifici erano di pietra o marmo bianco. Gli ricordavano il Castello dell’Oblio.
 

“… conferenza stampa congiunta del Gran Moff Tarkin e dell’Ingegnere Capo Krennic. L’indomito governatore di Coruscant, brillante mente dietro le battaglie spaziali che hanno annientato le letali bestie volanti del Grande Satana, ha rallegrato i cittadini della capitale imperiale con eccellenti notizie riguardo la ricostruzione dei settori del pianeta devastati dall’attacco vile e spregiudicato dei demoni e dei loro mostruosi servitori non-morti. A tre mesi dai tragici eventi, il governatore e gli ingegneri, al lavoro giorno e notte per ripristinare il cuore pulsante del nostro amato Impero alla sua gloria suprema e imperitura, stimano che nel solo Quadrante Beta…”


 
“Come fa la gente a credere a questa spazzatura?”
Rosy Cotton gli aveva lasciato il telecomando, e Vexen si affrettò a sfiorare il pannello per selezionare un qualsiasi altro canale. Finì sull’emittente di una specie aliena sconosciuta che trasmetteva un qualche tipo di spettacolo musicale, molto popolare a giudicare dalle enormi masse di pubblico che affollavano l’anfiteatro in cui si svolgeva la rappresentazione. Non capiva una parola, ma come sottofondo era tutto sommato gradevole. Meglio della propaganda imperiale, senza dubbio.
Il notiziario gli aveva ricordato un’ulteriore circostanza spiacevole. Erano trascorsi tre mesi dalla distruzione del Baan Palace, e lui era ancora bloccato su quel maledetto pianeta, a scontare la sua “sentenza” lavorando come medico presso l’Alleanza Ribelle.
All’inizio aveva creduto di riuscire a liberarsi molto più in fretta. Quando i Ribelli avevano parlato di “cento giorni di festa” lo avevano inteso in senso letterale (danze, sagre e fuochi d’artificio si susseguivano ancora giorno dopo giorno, ogni volta in parti diverse della città), e Vexen aveva sperato di confondersi nel marasma di luci, suoni e colori per imbarcarsi clandestinamente sul primo trasporto in procinto di lasciare il pianeta.
Tuttavia, i Ribelli non erano sopravvissuti così a lungo contro un avversario tremendamente superiore per uomini, mezzi e tecnologia senza sviluppare almeno un briciolo di furbizia. Alla fine del processo la principessa Leona aveva affidato a Camus il compito di sorvegliarlo, ma evidentemente non si era fidata di lasciare un prigioniero così importante sotto la responsabilità di una sola persona. Non appena il tribunale si era sciolto, un paio di soldati nerboruti lo avevano costretto a indossare una di quelle cavigliere elettroniche che i mondi civilizzati utilizzano al posto della classica palla al piede, un dispositivo diabolico che monitorava in tempo reale i suoi parametri vitali e ogni suo minimo spostamento. Ovviamente qualsiasi tentativo di manomettere il congegno avrebbe inviato un segnale d’allarme, e Vexen non era sufficientemente esperto di quel tipo di tecnologia per disattivarlo senza che nessuno se ne accorgesse. Pertanto i suoi primi sforzi, tra un’ondata e l’altra di feriti di guerra da curare, si erano concentrati su come aggirare quel problema.
La soluzione si era presentata quasi per caso, sotto forma di un menestrello errante.
Il soggetto in questione diceva di chiamarsi Eldoth ed era arrivato alle Case di Guarigione per un periodo di riabilitazione dopo aver rischiato di perdere una gamba nel mondo del GSB, durante un bombardamento degli Star Destroyer, perché, a suo dire, voleva “vedere le astronavi da vicino”.
Le navi imperiali, tuttavia, non erano la sua unica fonte di interesse.
“Demoni, Impero, Ribelli… non mi importa un accidente di nessuno di loro. Io vado solo a caccia di buone storie. E tu, amico mio, a giudicare da quello che si dice qui in giro, potresti averne di molto interessanti.”
Si era sporto dal bordo del letto, abbassando la voce in tono da cospiratore. “Sai, sto lavorando a un poema sul famoso Castello dell’Oblio di cui si parla tanto su questo pianeta. Sarà l’opera del secolo. Qualche uccellino mi dice che tu potresti offrirmi testimonianze di prima mano. Sono disposto a pagare, ovviamente.”
Non gli piaceva affatto quel tipo. Dietro la voce melodiosa e i sorrisi troppo larghi nascondeva modi da serpente. Ma d’altronde, per ciò di cui aveva bisogno, non poteva contare sull’aiuto di persone oneste.
Si era costretto a ricambiare il sorriso al meglio delle sue abilità. “È il tuo giorno fortunato. Il mio prezzo è assolutamente accessibile. Ma non si tratta di denaro.”
Eldoth aveva ascoltato la sua richiesta senza battere ciglio. Una settimana dopo, quando il bardo era già stato dimesso dalle Case di Guarigione, se lo era ritrovato appoggiato a una colonna del cortile, avvolto in un mantello con cappuccio da viaggiatore e con un bastone nodoso stretto tra le mani nell’imitazione molto convincente di un mendicante. Avvicinandosi e scorgendo tra le pieghe del cappuccio aveva notato che il menestrello si era anche sporcato il viso con della cenere, e cantilenava disperate richieste di cibo e monete nel timbro flebile e spezzato di un ultracentenario.
Vexen aveva finto di impiegare molto tempo ad estrarre il borsellino dalla tunica per porgergli qualche spicciolo come offerta.
Ringraziando una lunga lista divinità con belati squillanti, Eldoth aveva afferrato le monete, facendogli allo stesso tempo scivolare nel palmo della mano un piccolo involto di tela grezza dentro al quale si intuiva un oggetto di forma rettangolare.
“Farà aprire la cavigliera senza disattivare il tracciatore” aveva sussurrato tutto d’un fiato.
“È sicuro?”
I denti bianchissimi del menestrello erano balenati nel ghigno ferale di un predatore. “Assolutamente. C’è una tipetta bruna niente male al reparto tecnico che ha decisamente perso la testa per me.”
Si erano dati appuntamento per la sera successiva in una locanda nella quinta cerchia di mura, dove davanti a un boccale di sidro e al bardo armato di carta e penna, Vexen aveva trascorso un paio d’ore raccontando tutto ciò che gli veniva in mente sul Castello dell’Oblio. Un onesto miscuglio di realtà e fantasia. Più realtà che fantasia, a dire il vero. Inventare era più impegnativo, e arrivato a quel punto Vexen non aveva ormai alcun interesse a proteggere i segreti del Castello.
Tanto più che il Castello dell’Oblio aveva da tempo cessato di esistere.
Rimosso l’ostacolo numero uno, ne rimanevano innumerevoli altri da superare. Procurarsi denaro per il viaggio. Ottenere documenti falsi abbastanza convincenti da superare i controlli imperiali. Trovare un mezzo per raggiungere Coruscant.
I soldi erano la parte più semplice. Innanzitutto aveva venduto al mercato della seconda cerchia un paio di oggettini di modesto valore che alcuni pazienti delle Case di Guarigione gli avevano donato in segno di gratitudine. Poi, utilizzando l’alchimia, aveva convertito quel pugno di monete d’oro della Terra II in altra chincaglieria soprammobile, che aveva a sua volta rivenduto in vari punti della città in cambio di crediti imperiali. Il risultato di queste operazioni era un piccolo capitale di partenza che gli avrebbe permesso almeno di lasciare il pianeta e procurarsi vitto e alloggio per alcuni giorni. Esaurito quello, avrebbe improvvisato.
In tre mesi aveva dedicato ogni istante libero dal lavoro nelle Case di Guarigione per pianificare la sua fuga. Una parte del suo cervello restava sintonizzata giorno e notte sul problema. Ci pensava persino in quel momento, mentre con una fetta di pane ripuliva meticolosamente il piatto dal sugo della carne e mandava giù l’ultimo boccone insieme a un lungo sorso d’acqua. Finalmente, dopo tanti sforzi, la partenza tanto agognata sembrava davvero a portata di mano.
Sazio e soddisfatto, Vexen spinse in avanti il vassoio, reclinò le spalle sullo schienale e socchiuse le palpebre, cullato suo malgrado dalla voce di velluto del tenore alieno nell’oloschermo.
 

“Sing once again with me
Our strange duet…


 
Probabilmente sarebbe scivolato nel sonno se un’altra voce, ugualmente squillante ma proveniente dal mondo reale, non lo avesse salutato con calore dall’ingresso della mensa.
“Padron Vexen! Oggi ho fatto persino più tardi di lei!”
Lo scienziato riaprì gli occhi di scatto, raddrizzando la schiena e salutando il sacerdote con un cenno. Camus, le braccia cariche di un altro vassoio fumante, venne a sedersi nel posto di fronte al suo. La sua faccia, già normalmente distesa e sorridente, irraggiava gioia con l’intensità di una piccola centrale nucleare.
“Qualcosa mi dice che l’operazione è andata bene. Girion sosteneva che il cuore sarebbe collassato in meno di un’ora. Gli ho detto di andare a buttarsi giù da un dirupo.”
Girion era il capo delle Case di Guarigione, un elfo pomposo molto bravo ad abbaiare ordini a destra e manca, ma che in tre mesi Vexen non aveva ancora mai visto mettere le mani su un paziente. Inutile dire che si erano cordialmente detestati sin dal primo momento di collaborazione forzata.
Camus era talmente emozionato che dimenticò persino di riprenderlo per l’insulto. Si protese sul tavolo con gli occhi azzurri che scintillavano, raggianti di orgoglio e commozione.
“Il ragazzo camminerà di nuovo, padron Vexen. La mia prima operazione senza nessun aiuto da parte sua. Io… non so davvero come dimostrarle quanto le sono riconoscente per tutto ciò che mi ha insegnato.”
“Potresti cominciare con metà delle tue patate arrosto.”
“Sono tutte sue!”
Vexen partì subito all’attacco della nuova porzione di patate appena sfornate. La fame era saziata da un pezzo, adesso rimaneva soltanto la gola a farla da padrone. A volte si domandava se i Ribelli drogassero il loro cibo con stimolanti o altre sostanze di natura magica, perché non aveva mai amato così tanto mangiare come da quando era sulla Terra II. Se continuava così, su Coruscant ci sarebbe arrivato rotolando.
“Accidenti” commentò tra un boccone e l’altro. “Mi sono perso la faccia dell’elfo di fronte alla tua performance.”
“Era un po’ simile alla sua quando finiscono le bustine di tè.”
Vexen sollevò lo sguardo per trafiggerlo con un’occhiataccia, ma l’effetto truce fu platealmente rovinato dalla risatina che gli sfuggì involontariamente tra le labbra. Camus non riuscì a trattenersi a sua volta, riempendo la mensa vuota della sua risata cristallina.
L’assistente impacciato che non sapeva distinguere un batterio da un parassita era cresciuto. Vexen provò un moto di orgoglio al pensiero di essere stato capace di trasformare un sacerdote, una creatura per sua natura ottenebrata dalla religione, in un medico vero.
Rimase per un attimo con la forchetta a mezz’aria, colpito dalla portata di quella riflessione. Da quando considerava Camus… non un suo pari, forse, ma uno scienziato degno di rispetto?
Non avrebbe saputo dirlo.
“Ho… un’altra notizia per lei, padron Vexen.”
Il sacerdote era tornato serio, e Vexen colse le sue occhiate furtive in direzione dell’ingresso e delle cucine. Capì subito cosa stava per dirgli. Si sorprese a stringere la forchetta in modo spasmodico, mentre cambiava posizione sulla sedia per dissimulare la tensione crescente. Improvvisamente nella mensa faceva molto caldo.
La voce di Camus si ridusse a un sussurro, nascondendosi dietro i gorgheggi cristallini della cantante che ora dominava l’oloschermo.
“I documenti saranno pronti in tre giorni.”
Vexen sentì il respiro che aveva involontariamente trattenuto liberarsi di colpo, i muscoli delle spalle rilassarsi lentamente sullo schienale.
Tre giorni.
Soltanto tre giorni lo separavano dalla libertà.
“Come… come hai fatto?”
Durante le prime settimane sulla Terra II, Vexen aveva dibattuto a lungo con se stesso se coinvolgere o meno Camus nel suo piano. Ormai conosceva abbastanza il sacerdote da essere certo che avrebbe smosso il cielo e la terra per venirgli in aiuto, ma allo stesso tempo non si faceva illusioni: sin dal primo momento in cui aveva messo piede a Minas Tirith, il suo giovane apprendista aveva abbracciato la causa della Ribellione in maniera totale e incondizionata.
Era uno di loro, ormai. Un membro dell’Alleanza in tutto e per tutto.
“Ho semplicemente chiesto” sorrise Camus.
“Mi prendi in giro?”
Alla fine, tuttavia, non c’era stato bisogno di dirgli nulla. Camus, semplicemente, sapeva. Probabilmente lo aveva saputo ancora prima che Vexen formulasse il primo abbozzo di piano nella sua mente. E una sera, nel piccolo alloggio che condividevano al terzo piano delle Case di Guarigione, dopo una giornata di lavoro massacrante, gli aveva semplicemente chiesto con il suo consueto candore a che punto fosse con i preparativi. Il resto era venuto da sé.
“L’Alleanza sta preparando una missione sotto copertura, di cui farò parte anch’io. Mi sono semplicemente limitato a chiedere un documento in più.”
“Con le mie specifiche.”
“Ho fatto presente che alla spedizione potrebbe fare comodo un secondo medico di supporto. E che il mio compito è sempre quello di sorvegliarla, padron Vexen.”
“E le loro altezze reali si sono bevute questa scusa?“
A quella domanda il sacerdote arrossì leggermente. Quasi non aveva toccato la porzione rimasta nel suo piatto dopo l’incursione dello scienziato.
“Diciamo… che non ho esattamente chiesto il permesso ai capi. Ho soltanto inoltrato la richiesta alla squadra che si occupa dei documenti. L’Alleanza… non ha le complicazioni burocratiche dell’Impero. Né la gerarchia rigida dei demoni.”
“Non posso crederci… “
Vexen bevve un altro sorso d’acqua e si rigirò distrattamente il bicchiere vuoto tra le dita. Era pronto a scommettere che la stessa richiesta avrebbe suscitato molte più domande se posta da una persona diversa, un tipo dall’aria truce come Auron, ad esempio. Ma Camus emanava luce ovunque andasse, e i suoi grandi occhi da bambino alla scoperta del mondo spalancavano davanti a lui qualsiasi porta.
“Posso farla salire sul nostro trasporto, padron Vexen. Nasconderla da qualche parte e farla scendere alla prima sosta in territorio imperiale. Da lì potrà prendere un qualsiasi volo civile diretto a Coruscant.”
Aveva pensato a tutto. Vexen si sorprese a gettare occhiate tutto intorno con la consapevolezza di chi sa di vedere un luogo per l’ultima volta, cercando di mandare a mente i piccoli particolari che lo rendevano unico. Le corsie ariose tra le tavolate, le macchie di luce tra le morbide geometrie azzurrine delle maioliche sul pavimento. Il bianco gentile delle pareti, diverso da quello alieno e asettico del Castello dell’Oblio, un bianco che rivelava amore per la cura e la meditazione. E, naturalmente, la scia di profumi paradisiaci che serpeggiava pigramente in direzione delle cucine.
Non poteva certo dire che gli sarebbe mancato quel posto… eppure, cavigliere elettroniche e sguardi assassini di Auron a parte, la vita sulla Terra II non era affatto spiacevole. La prima parentesi quieta della sua esistenza in non ricordava più quanti anni.
Si versò altra acqua dalla caraffa di ceramica sul tavolo.
“Spero soltanto che tutto questo non ti causi dei problemi.”
“Padron Vexen, è davvero gentile a preoccuparsi per me. Ma non deve avere timore. Saprò cavarmela.”
“Sai com’è, non vorrei vedere anni di sforzi per infilarti in testa un po’ di scienza e medicina finire davanti al plotone di esecuzione.”
A Camus sfuggì una risatina. “I Ribelli non sono quel tipo di persone, padron Vexen.”
“No?” Lo scienziato sollevò un sopracciglio con aria scettica, tamburellando sul tavolo con le dita. “A me pare di ricordare un certo processo in cui si è votato su dei fogliettini se fare fuori o meno una persona… c’era già chi si offriva per fare il boia, se non erro.”
“Ma ha vinto la parte moderata. E di molto.”
Il sacerdote finalmente si era deciso ad impugnare forchetta e coltello e iniziare a tagliare la sua carne. Vexen pensò che, se esisteva un crimine degno di essere processato, era lasciare quella prelibatezza raffreddarsi così tanto prima di mangiarla.
Nell’oloschermo, adesso, almeno cinque voci diverse si inseguivano e si sovrapponevano in un botta e risposta concitato, dando prova di notevole virtuosismo canoro. In particolare l’unica voce femminile raggiungeva altezze che sarebbero state impossibili per delle corde vocali umane, e Vexen quasi si aspettava di veder tremare e incrinarsi il suo bicchiere e quello di Camus.
“Non stia in pensiero per me” ripeté il sacerdote, più piano adesso. “Si concentri solo sulla sua ricerca. È la cosa più importante.”
Stavolta Vexen non controbatté, perché quello che Camus diceva era vero. E, per quanto potesse sembrare incredibile, non si stava riferendo alla ricerca nel senso scientifico del termine.
In realtà nemmeno Vexen aveva idea di cosa avrebbe fatto una volta raggiunto l’oggetto del suo cercare. Non era neanche troppo sicuro di come lui avrebbe reagito vedendoselo comparire all’improvviso davanti. C’era la possibilità concreta che non volesse nemmeno parlargli. Ma erano domande a cui non sapeva e non poteva rispondere in quel momento, perciò aveva deciso di concentrarsi sui problemi a portata di mano, di proseguire a piccoli passi. Un ostacolo alla volta.
Il sacerdote aveva di nuovo smesso di mangiare, e adesso lo fissava con un sorriso un po’ mesto.
“Però, padron Vexen… sono egoista se le dico che sentirò molto la sua mancanza?”
“No. Sei solo patetico.”
“Se ci pensa, sono più di quattro anni che viaggiamo insieme. Ne abbiamo passate così tante… “
Vexen ritenne prudente stroncare sul nascere quella malinconica passeggiata sul viale del ricordo. Tanto più che cominciava a sentire un certo peso all’altezza dello stomaco, e non era sicurissimo che si trattasse della doppia porzione di patate.
“Non sto andando in guerra, Camus. E abbiamo sempre gli olopad che i tuoi simpatici amici dell’Alleanza ci hanno gentilmente regalato, no? Basta che non usi il tuo per inviarmi chili di preghiere.” Emise un sospiro volutamente profondo e teatrale.
“Lo farò soltanto se lei eviterà di proposito di rispondermi, padron Vexen.”
Un secondo sospiro, ancora più enfatico, e Vexen si lasciò scivolare lungo lo schienale, appoggiando la nuca al bordo della sedia.
“Che ignobile ricatto. Adesso però fammi un favore e finisci quel cibo. Altrimenti mi toccherà mangiare anche quello.”






Dall’acqua si alzava un odore particolare. Per un attimo le ricordò lo zolfo della Terra I, ma era più profondo, più pesante. Forse somigliava al gas tibanna prima della raffinazione.
Abbandonò qualsiasi tentativo di paragone quando immerse i piedi nella pozza ed il calore dell’acqua la chiamò a sé; le gambe erano ancora intorpidite, ma la trascinarono in avanti senza alcuno sforzo finché non si immerse fino al petto, osservando con una pigrizia che non le era mai appartenuta le bolle che risalivano dal fondo e borbottavano lungo la superficie con un tenue rumore di sottofondo. Si accorse di avere difficoltà a mantenere l’equilibrio sulle rocce e si costrinse ad appoggiare almeno una mano sui sassi che affioravano lungo il bordo: quella debolezza era umiliante, ma non era nulla rispetto all’idea di svenire nell’acqua come una donnicciola e costringere il suo accompagnatore a soccorrerla.
E lei aveva davvero bisogno di un bagno.
“Tutto bene?”
Il fastidioso tempismo della figura che le dava le spalle, in piedi oltre la pozza di acqua calda, le rubò un suono di stizza che per fortuna venne coperto dal rumore delle bolle. Per riflesso si immerse fino alle spalle prima di mormorare un semplice “Tutto a posto. La ringrazio, Generale”.
Una precauzione inutile, ovviamente: Baran, il Generale del Drago Diabolico, non si sarebbe voltato se non fosse stato necessario. Avrebbe fatto volentieri a meno della sua presenza, ma il suo corpo ancora non si era ripreso come avrebbe voluto e le scale scavate nella pietra che conducevano alla pozza sarebbero state proibitive per il suo precario equilibrio ancora per diversi giorni. Sarebbe stato meno imbarazzante farsi accompagnare da qualcuno dei suoi rumorosi servitori, ma il Cavaliere del Drago era stato irremovibile.
Le mani trovarono uno sperone di roccia posto un po’ più in basso. Vi si appoggiò e, con cautela, si immerse fino alla testa. Strofinò i capelli abbastanza a lungo da sentire i grumi ed i nodi accumulati negli ultimi mesi sciogliersi sotto le dita e, quando riemerse per riprendere fiato, si accorse di sentirsi davvero molto meglio.
A conti fatti, l’ultima volta che Zam Wesell si era concessa un bagno era stato oltre tre mesi addietro, ed in quell’arco di tempo le erano accadute diverse cose. Tra cui, ad esempio, essere morta.
Chiuse gli occhi, assaporando il calore contro la pelle, ed immediatamente il ricordo del ghigno di Kaspar venne a farle visita. Un dolore acuto le partì dalla schiena proprio nel punto in cui l’incantesimo del mago l’aveva colpita e con fatica cercò di raggiungere il punto con le proprie dita; torcere il braccio in quella posizione le richiese uno sforzo superiore al previsto, ma si sforzò di non emettere nemmeno un suono che potesse allarmare il Generale. I polpastrelli esplorarono la pelle, spingendo contro le costole per silenziare il dolore, ma non trovarono nessun ispessimento, nessuna cicatrice. Ricordava solo l’immagine di Kaspar che si teleportava lontano da lei, le Pietre della Sapienza in mano, e la sensazione della pioggia di Kamino lungo tutto il viso. Era morta, e se non fosse stato per il Cavaliere del Drago e per i suoi compagni il suo corpo sarebbe probabilmente stato trascinato via dalle acque nere di quel dannato pianeta.
Era morta, ed il sangue dell’uomo che aspettava oltre la pozza, avvolto dai vapori densi di quel posto, le aveva restituito la vita. Lui non glielo aveva mai detto in maniera esplicita, ma i suoi attendenti parlavano molto, anche quando credevano che lei fosse svenuta o addormentata; e da quando si era risvegliata, nemmeno quattro giorni prima, tra il sonno e la veglia si alternava l’immagine della figura dagli enormi baffi scuri che si chinava su di lei per accertarsi della sua salute. Ricordava di essersi alzata e di aver visto la sua immensa schiera di draghi, ma doveva essere svenuta per lo sforzo e quell’acqua bollente, dal profumo acre, sembrò fissare ogni cosa nella sua testa. “Perché lo ha fatto?”
“Fatto cosa?”
Non c’era ironia in quella voce. Non un leggero acuto, un tremito, qualcosa che facesse pensare ad una velata forma di cortesia: Zam Wesell aveva appreso sin dalle prime battaglie contro la famiglia demoniaca che suoi avversari non fossero assolutamente in grado di fingere, e senza dubbio il Cavaliere del Drago non faceva eccezione. Parlare la affaticava, ma non poteva rimandare quella discussione un istante più del necessario. “Salvarmi la vita. Ridarmela, addirittura. Non so nemmeno bene come, se è per questo” sussurrò. Non aveva mai sentito la propria voce così fioca. “Siamo nemici, giusto?”
“Il mio nemico è l’Imperatore Palpatine”.
Anche il mio, pensò tra sé, ma impedì al pensiero di trasformarsi in un suono che l’altro potesse sentire. La figura era ancora immobile, le braccia incrociate contro il petto, ed anche in quel loro patetico scambio di battute non aveva mosso un solo muscolo, non aveva spostato il peso da una gamba all’altra, non aveva abbassato le braccia per recuperare la circolazione. Se non fosse stato per la voce avrebbe potuto scambiarlo per la statua di una divinità. L’elsa della Spada del Drago, che spuntava da sotto il mantello del Generale, sembrava più espressiva e viva del suo stesso padrone. Attese qualche istante, ma la figura non sembrava intenzionata ad offrirle spiegazioni; non che gliene dovesse, certo.
Quando uscì dall’acqua si accorse di non avere affatto freddo, ma sapeva che il beneficio del bagno rovente non sarebbe durato più di qualche minuto e si affrettò ad asciugarsi. Piegarsi era fuori discussione, dunque si costrinse a sedersi.
Una debolezza temporanea, mormorò tra sé. Una stupida debolezza temporanea.
Aprì una sacca che il Generale del Drago le aveva portato e vi trovò una tunica di tessuto bianco, piuttosto pesante al tocco. Aveva dormito tra la vita e la morte per mesi con lo stesso abito addosso, eppure adesso l’uomo a cui doveva il proprio ritorno le suggeriva in silenzio di indossare qualcosa di pulito. Probabilmente, pensò mentre osservava la tunica, nessuno dei membri della famiglia demoniaca avrebbe sfiorato il corpo di una donna inconscia nemmeno per errore; il pensiero la fece quasi sorridere.
“Cosa ci fa una come te al servizio dell’Imperatore? È da quando ci siamo scontrati per la prima volta che me lo sto domandando”.
Sapeva che quella domanda sarebbe arrivata. Lo aveva immaginato sin da quando aveva capito che era sopravvissuta allo scontro su Kamino per un atto di pietà dei suoi nemici, non per la premura dei propri alleati. Osservò la figura che le dava le spalle, immaginando la sua espressione immobile sotto i baffi scuri ed il diadema che gli adornava metà del volto. Un viso che sembrava scolpito nella pietra anche durante lo scontro più infiammato. “Sei una donna d’onore. A Coruscant avresti potuto prendere la vita di Hadler, ed hai deciso di non farlo. Ci hai avvisati della trappola dell’Imperatore sulla nave in partenza da Canastra IV. Combatti contro di noi, ma saboti gli attacchi dei tuoi stessi alleati” disse “Qualcuno potrebbe pensare che tu sia più demone che umana”.
Qualcuno … chi, Generale?”
L’abito che le aveva portato era senza dubbio appartenuto a qualcun altro. Una tunica stretta come quelle che si portavano su pianeti come Jakku, con un paio di maniche corte che faticò più del previsto ad indossare ed una cintura che strinse a fatica fino all’ultimo buco. Nonostante questo la sentì larga e cadente, ben diversa dai suoi abiti pensati per sopportare tutte le trasformazioni del proprio corpo. I sandali enormi, con dei legacci di cuoio che estese quasi fino al ginocchio, le confermarono che quegli abiti dovevano essere appartenuti ad un uomo. O un demone. “E comunque non sono un’umana. Non lo sarò mai”.
“Questo è un bene”.
Si voltò con incredibile lentezza. “Ma ciò non risponde alla mia domanda”.
“È una storia lunga, Generale. E non credo che la maggior parte dei punti possano interessare ad una persona come lei”.
“Questo lo valuterò io”.
Un solo movimento, molto veloce. Abbassò il ginocchio destro e si chinò a terra, al suo fianco, e Zam sentì il braccio di lui, coperto da un pesante bracciale da guerra, appoggiarsi al di sotto della propria spalla. Si preparò ad essere strattonata di peso, ma il Cavaliere del Drago non fece nulla di simile; impiegò alcuni secondi a capire che il Generale le stava dando modo di sollevarsi da sola, senza alcuna spinta da parte sua.
Curioso.
Puntò i piedi a terra, appoggiandosi con una mano alla parete e con l’altro braccio a quello di lui. Si sentì la testa pesante, ma solo per qualche istante. Lui mosse il primo passo verso le scale “Negli ultimi giorni ho molto tempo a disposizione”.
Sarebbe stata la salita più lunga della sua vita. Ma, nonostante la situazione, Zam si ritrovò a sogghignare come non faceva da tempo. “Si pentirà di avermelo chiesto, Generale. Se ne pentirà”.
  
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