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Autore: Adeia Di Elferas    18/02/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'Oliva aveva appena letto il messaggio che il verrettone appena scagliato in sua direzione portava con sé. Era solo una conferma a quello che già aspettavano, ma l'uomo sentì comunque una forte stretta allo stomaco.

Malgrado la rocca potesse ancora mettersi in comunicazione con la città grazie al piccolo ponte di servizio che la Tigre aveva deciso di non distruggere – almeno per il momento – il notaio aveva fatto sapere ai suoi di voler essere informato delle cose importanti solo a quel modo, in modo da non instillare troppo l'idea, né nei cittadini, né in quelli che abitavano a Ravaldino, che fosse facile entrare e uscire dalla fortificazione.

C'era ancora buio e tirava un venticello freddo che puzzava di umidità. Quasi per certo, si disse l'Oliva, mentre lasciava il camminamento e arrancava verso la stanza della Leonessa, entro sera sarebbero stato di nuovo sommersi dalla pioggia.

Arrivato agli alloggi della Contessa, l'uomo bussò un paio di volte e attese pazientemente. I soldati che gli passavano alle spalle non lo calcolavano nemmeno, ma tutta quella gente, al milanese, dava un senso di soffocamento a cui non riusciva ad abituarsi. E la cosa peggiore era che, con l'andare delle ore, la confusione sarebbe solo aumentata, toccando il culmine nelle ore centrali della giornata.

Sentì del movimento, oltre la porta, e poi si vide comparire davanti non la Sforza, ma frate Monsignani che, riconoscendolo, si schiarì la voce e si guardò un momento alle spalle, mormorando qualcosa.

“Fallo entrare.” rispose la voce ferma di Caterina.

L'Oliva ringraziò, facendo un cenno con il capo e, oltrepassando Vangelista, già con addosso i suoi abiti da frate, ma ancora intento a cercare la corda da legarsi in vita, si avvicinò alla Tigre, che era ancora seduta sul letto.

“Cos'è successo di nuovo?” chiese la donna, passandosi una mano sul collo, visibilmente stanca.

Il suo uomo di fiducia, ben lungi dal voler dare l'impressione di essere intento a giudicarla, evitò di guardare Monsignani che si tuffava a lato del letto per recuperarsi la cintola, finita in terra, e rispose, a bassa voce: “I francesi stanno montando il campo appena fuori dalla città. Pare che vogliano cercare un contatto con qualcuno del governo, per poter capire se c'è spazio per un accordo.”

“Noi non diremo nulla.” ribatté aspra la Contessa, alzandosi e afferrando con gesti stizziti i suoi abiti da uomo, lasciati alla rinfusa sull'inginocchiatoio.

Mentre Vangelista si scusava con entrambi e lasciava la stanza, per non dar loro fastidio, l'Oliva cercò ancora una volta di fingersi disinteressato, mentre la donna si lasciava scivolare di dosse la vestaglia da camera e cominciava a rivestirsi.

Il notaio aveva ragione a crederla nervosa. La Sforza aveva passato la notte completamente insonne, e, ora che iniziavano a vedersi i primi stentati bagliori dell'alba, si trovava a pensare che avrebbe fatto meglio a riposare. Una volta andato via Pirovano, la donna aveva cercato di assopirsi, ma tutto quello che era riuscita a fare era stato rigirarsi nel letto per quasi un'ora, finendo per andare a cercare Monsignani.

Passata la frenesia del momento, si era subito vergognata della debolezza della sua carne e si era pentita di aver passato quella strana notte di veglia passando da un amante all'altro senza farsi problemi. Ormai, però, era giorno, ed era inutile rammaricarsi per qualcosa che ormai non si poteva aggiustare.

“Avete un modo sicuro di comunicare con i vostri informatori che stanno là fuori?” domandò la Leonessa, tenendo le spalle al milanese.

Egli annuì e precisò: “Ma messaggi brevi, nulla che sia più lungo di una riga o due.”

Caterina ci ragionò sopra un secondo e, con le brache ancora in parte slacciate, andò subito alla scrivania e si mise a scrivere in fretta, dicendo all'Oliva: “Dovranno mettere in giro questa voce. Mi auguro che lo facciano in fretta. Numai, quando se ne accorgerà, saprà cosa fare.”

L'altro prese la striscia che la donna gli stava porgendo e lesse in fretta, poi, guardandola esterrefatto, chiese: “Volete far credere che state per far arrestare Numai? E per quale motivo?”

“Meno gente lo sa, per il momento, e meglio è.” tagliò corto Caterina: “E ora, per favore, fate avere questo messaggio ai vostri. Lasciatemi, ho delle cose da sbrigare...”

 

Cesare aveva accettato molto a malincuore il cambio di programma che gli era stato proposto. Se alla fine aveva ceduto, l'aveva fatto solo perché aveva capito di aver sbagliato a voler affrettare le cose.

Anche se la sua idea di mandare Tiberti a Cesena restava valida, avrebbe dovuto attendere ancora un giorno o due, prima di vederlo partire. Era stato soprattutto l'Aubigny a insistere affinché ripassasse al vaglio le proprie decisioni. Il Valentino, comunque, aveva seriamente capito di essere nel torto solo quando le spie avevano lasciato intendere che Achille, in fondo, era ancora abbastanza stimato dai forlivesi, specie dagli Anziani.

A quel punto, tenerselo vicino per sfruttarlo come punto di contatto con il governo di Forlì pareva indispensabile.

Avrebbe voluto poter attaccare subito, ma si era reso conto che la situazione era più delicata di quanto avesse creduto all'inizio. Prima di tutto, i camminamenti delle mura erano sguarniti, o, almeno, così erano apparsi ai ricognitori.

Per il ventiquattrenne, quella notizia era stata motivo di un repentino giubilo, perché aveva subito pensato che la città si fosse arresa e non avesse intenzione di combattere. Quando gli era stato fatto notare, che, invece, sia dalla rocca di Ravaldino, sia dalla cittadella, si vedevano salire i fumi dei camini, allora aveva compreso che l'esercito si doveva essere ritirato interamente in quelle due fortezze, rendendosi difficile da sbaragliare.

Quella consapevolezza l'aveva spiazzato e, anche se restava convinto che una donna fosse la cosa più semplice da battere al mondo, iniziava a sentirsi molto più teso di quanto non fosse al suo arrivo a Imola, pochissime settimane addietro.

“Voglio che scopriate se Luffo Numai è ancora fedele alla Sforza.” disse piano Cesare, quando Tiberti si presentò al suo cospetto, a metà mattina, per ricevere ordini: “E, se apparirà sufficientemente credibile, allora gli direte che ho intenzione di prendere alloggio in casa sua.”

“Prima dovrò aspettare di mettermi in contatto con gli Anziani.” mise le mani avanti Achille, capendo che la sua posizione era tutt'altro che semplice: “Di certo la Sforza si sarà asserragliata nella sua rocca, ma il resto di Forlì potrebbe accettarmi volentieri. Devo esserne certo. Solo allora riuscirò a entrare facilmente in città...”

“Fate come credete.” lo liquidò il figlio del papa: “Ma sappiate che non aspetterò a lungo. Avete un compito da portare a termine, e mi aspetto che lo facciate in fretta.”

Tiberti lo fissò per un lungo istante, quasi con aria di sfida e poi, non sopportando più di stare nello stesso padiglione in cui stava il Borja, chiese: “Posso andare, ora?”

Il Duca di Valentinois annuì e, passandosi distratto una mano su una delle croste ormai in via di guarigione che gli deturpavano il viso, concesse: “Ma tenetevi a disposizione.”

 

Luffo appoggiò il calice di vino al tavolo e guardò il figlio Pino e poi la moglie. Questa ricambiò l'occhiata con un impercettibile cenno del capo, e così a Numai non restò che schiarirsi la voce e alzarsi.

“Se è questo quel che si dice...” fece, osservando, di sottecchi, i due servi che si stavano ancora affaccendando intorno alla tavole: “Allora sarò più al sicuro in piazza, laddove tutti mi possono vedere.”

Pino si disse d'accordo e, come il padre, controllò la reazione della servitù, mentre insisteva: “Si dice che la Contessa l'abbia a male con voi e che voglia ridurvi in cella. Dicono che sia convinta che voi abbiate preso accordi con il Valentino e che la vogliate vendere ai francesi. Dicono che siate ormai così freddo verso Sua Signoria da essere pronto a entrare in modo pieno nel partito del Duca.”

Siccome i due servi, del tutto estranei ai reali maneggi del padrone di casa, sembravano spaventati da quell'ipotesi e quindi del tutto convinti della sua veridicità, Luffo prese coraggio e borbottò: “Se la Tigre ripaga così la mia fedeltà, ebbene, voglio stare laddove tutti possano vedermi, quando sarò arrestato!”

Il figlio si scansò platealmente, lasciandolo passare e poi, rivolgendosi ai due domestici, intimò: “E voi dite a tutti quelli che conoscete quel che sta succedendo! Perché la Contessa si è messa contro il suo Consigliere più fidato e tutti devono sapere che donna sia!”

La madre, Caterina Paolucci, guardò il figlio in modo significativo e poi, rinforzando le parole del giovane, convenne: “Anni passati nella sua ombra e ora ci ripaga così! Che si sappia che non c'è casa più nemica di questa, in Forlì, alla Sforza!”

 

“E per il momento non sono ancora entrati in città, allora?” chiese Caterina, una mano a sorreggersi il capo, mentre fronteggiava, seduta alla scrivania dello studiolo, il castellano e il Capitano Mongardini.

“No, ma pare che Numai sia in piazza, da mezzogiorno, più o meno, davanti a casa sua, per protestare contro di voi, dicendo che lo volete fare prigioniero...” fu il commento stranito del soldato: “L'Oliva mi ha pregato di farvelo sapere, anche se non vedo come possa interessarvi... La trovo solo una deludente scenata di paura.”

Nel sentire di Luffo, la Sforza si rinfrancò. Era ormai quasi sera, e probabilmente il piano che lei e il Consigliere avevano messo a punto si sarebbe concretizzato solo il giorno seguente. Comunque era felice di vedere che, malgrado ci fossero i francesi alle porte, il suo amico non aveva intenzione di deluderla.

“Probabilmente il Borja cercherà presto un contatto con gli Anziani della città. Non possiamo fare nulla per evitarlo...” la Contessa aveva sollevato il sopracciglio e fatto un lungo sospiro: “E a questo punto, dato che ormai li ho lasciati soli, i cittadini comuni rimasti fuori dalla rocca e dalla cittadella farebbero davvero meglio a cercare un accordo col figlio del papa.”

Sia Bernardino da Cremona, sia Mongardini parvero colti di sorpresa da quella considerazione.

“Finché non ci saranno novità – tagliò corto Caterina, lasciando la scrivania – non voglio essere disturbata.”

La Leonessa lasciò lo studiolo senza che nessuno dei due uomini provasse a seguirla. Attraversò in fretta buona parte della rocca e poi puntò verso le cucine, dove era quasi sicura di trovare Dianora, la moglie di Naldi.

Da quello che lei e gli altri due si erano detti poco prima, aveva capito che le ostilità sarebbero cominciate nell'arco di un giorno o due. Non sapeva nemmeno se i suoi figli sarebbero riusciti a lasciare indisturbati la casa di Numai. Prima della Messa della sera, avrebbe radunato i soldati nel cortile e alle balconate, e avrebbe lanciato loro un ultimo appello: doveva essere sicura, anzi, sicurissima, che chi era rimasto l'aveva fatto perché ne era convinto. Non aveva tempo né modo di gestire dei ripensamenti dell'ultimo minuto.

La Valgimigli era un caso particolare. Caterina temeva che decidesse di restare solo perché si sentisse obbligata o perché avesse paura di incappare in qualche punizione. Voleva dirle chiaramente che Dionigi si era arreso con il suo benestare e che lei non si sarebbe in alcun modo rivalsa su di lei per quanto accaduto a Imola.

Siccome sapeva che ultimamente, come tante altre donne presenti a Ravaldino, Dianora aveva iniziato a dare una mano alle cuoche, sperava di trovarla intenta a dare il suo apporto per la cena.

Nel momento stesso in cui entrò in cucina, la Tigre venne pervasa da una profonda nostalgia. Le sembrava di poter quasi vedere sua figlia Bianca, seduta al tavolone centrale, a chiacchierare con le sue amiche e a tagliare verdure. Al posto della diciottenne, però, in quel momento erano impegnate con la preparazione degli ortaggi le serve e qualche ospite della rocca che Caterina conosceva appena di vista.

“Mia signora.” una delle serve le si era avvicinata e la stava fissando: “Vi serve qualcosa?”

La Contessa riconobbe in lei l'amica di sua figlia. Le aveva viste insieme molte volte e, da come la ragazza la osservava, era abbastanza certa che sapesse tutto di Bianca e che, probabilmente, la conoscesse più di quanto non la conoscesse lei.

“Sto cercando Dianora Valgimigli.” le disse, a voce bassa: “Sai dirmi dove posso trovarla?”

La giovane annuì e le chiese di seguirla. Uscirono dalla cucina, e presero la via più breve per gli alloggi della servitù.

“So che sta rammendando degli abiti...” spiegò la ragazza, tenendosi mezzo passo davanti alla Tigre, per guidarla.

La Sforza avrebbe voluto farle molte domande. Aveva voglia di parlare di Bianca. Anche se era partita da poco, ne sentiva già la mancanza. Quella sensazione sarebbe stata attutita dalla speranza di poterla un giorno riabbracciare, ma, certa che quel momento non sarebbe mai arrivato, Caterina poteva solo crogiolarsi nei ricordi.

Malgrado ciò, non disse nulla, tranne un secco 'grazie' nel momento in cui arrivarono da Dianora.

Stava ricucendo un paio di brache strappate e, come lei, anche altre donne si stavano dando da fare con ago e filo. Benché fossero almeno una dozzina, però, regnava un silenzio pressoché perfetto.

La serva le lasciò, e così la Leonessa poté rivolgersi alla moglie di Naldi: “Venite un attimo...”

La convinse a uscire un momento, in modo che nessuno potesse origliare le loro parole e, non appena furono in un punto abbastanza riparato del corridoio, la Contessa le spiegò quel che stava accadendo.

“Decidete voi che fare: restare o andarvene.” concluse.

“Ma mio marito...” disse piano la Valgimigli, tormentandosi le mani l'una nell'altra.

“Non è un traditore. Voi non correte nessun rischio, da parte mia.” le assicurò la Sforza.

Dianora annuì e poi diede voce al suo vero tormento: “Lui non ha provato a venire a prenderci, né me, né le nostre figlie... Ha lasciato Imola e se n'è andato...”

“Non pensate che l'abbia fatto per tradirvi.” fu la difesa sincera della Tigre: “Credo vi ritenga più al sicuro qui che con lui, in questo momento.”

La donna annuì e poi, tirando su con il naso, ribatté: “Allora dovrei restare qui.”

“Potreste cercare ospitalità in un convento. O provare a raggiungerlo... Non mi avevate detto che ha ancora delle terre a Cotignola?” tentò la Contessa, che, utilitaristicamente, non si sarebbe opposta al vedere partire dalla rocca tre bocche, militarmente abbastanza inutili, da sfamare.

La Valgimigli ci pensò sopra qualche istante e poi decise: “No, non posso esporre le mie figlie al rischio di uscire di qui. Se moriremo durante l'assedio, ben venga. Portare fuori due ragazzine con tutta la gentaglia che ha invaso la nostra bella Romagna equivarrebbe a metterle in vendita per il miglior offerente. Meglio morte, che schiave di qualche barbaro francese.”

La Leonessa capiva, e condivideva la sua idea. Anche se lei, per Bianca, aveva preso una scelta diametralmente opposta, accettando di correre il rischio che venisse presa e usata come una preda di guerra, ma sperando di poterle almeno salvare la vita.

Guardò a lungo Dianora e in un certo senso capì il perché delle loro scelte differenti. La donna che aveva dinnanzi, malgrado tutto, aveva sposato un uomo che le piaceva e che la rispettava. Aveva imparato fin da piccola che era meglio morire, piuttosto che scendere a certi compromessi. Lei, invece, era stata usata e venduta, ma era sopravvissuta, ferita, dilaniata, colma di rabbia, ma respirava ancora. Se per la prima restava più importante di ogni altra cosa non soccombere nell'animo, per la seconda aveva maggior valenza il restare in vita e così le loro figlie si erano viste assegnare sorti diverse in virtù dell'idea di salvezza della rispettiva madre.

“Dunque farete restare anche le vostre figlie?” chiese, in via definitiva, Caterina.

Dianora annuì: “Restermo tutte e tre, se a voi sta bene.” deglutì e, per la prima volta, parve temere concretamente una reazione violenta della sua signora.

“Ho promesso a vostro marito di tenervi il più al sicuro possibile – si arrese la Contessa – dunque lo farò, per quanto la vostra scelta mi renda difficile farlo.”

La Valgimigli la ringraziò e poi, volendolesi sottrarre prima che cambiasse idea, si scusò: “Ho ancora molti rammendi da fare...” e se ne andò.

 

Stava sorgendo il sole. Luffo Numai sentiva il freddo entrargli nelle ossa assieme all'umidità, trasformandolo in un blocco di ghiaccio.

Era rimasto in piedi, come una sentinella, tutta la notte. Quei pochi che gli si erano avvicinati gli avevano chiesto che ci facesse lì e lui aveva risposto chiaramente che non aveva voluto restare in casa propria per paura di essere arrestato davanti alla sua famiglia.

In molti, dopo quell'incontro, erano passati dal suo palazzo e, trovandolo tranquillo, avevano creduto o che il vecchio Consigliere stesse impazzendo, o che la Sforza ci avesse ripensato, volendo dare peso agli anni di fedele servizio del Numai. Qualcuno, addirittura, era poi tornato da lui dicendogli che non era il caso di congelarsi in mezzo a una piazza, e di tornarsene pura a casa tranquillo.

Luffo cominciava a temere che il piano non sarebbe funzionato. Si era dato come termine ultimo le otto del mattino. Quando, allo scoccare di otto colpi, fosse stato certo che nessuno aveva interesse nella sua protesta, allora sarebbe tornato al suo palazzo e avrebbe pensato a un altro modo per distogliere l'attenzione da casa sua e dalle porte della città.

Chiuse un solo istante gli occhi, per riordinare le idee, e, quando li riaprii, finalmente vide qualcuno correre verso di lui con manifesto interesse.

Si trattava di Simone Ambruni, Guglielmo Lambertelli, Giovanni Moratini e alcuni altri membri del Consiglio. Davano l'idea di essere stati, come lui, svegli tutta notte e un paio di loro avevano i capelli arruffati, come se la lunga veglia avesse portato con sé annosi grattacapi.

“Ma che ci fate qui?” chiese Lambertelli: “Ci hanno detto che avete passato qui l'intera notte..!”

“Mi sono fermato qui – rispose con gravità Numai, giocandosi il tutto e per tutto – perché preferisco spargere il mio sangue in piazza, che starmene nascosto in casa ad aspettare di esser preso a tradimento e cadere nelle mani d'una donna furiosa ormai e disperata.”

I Consiglieri, che non aspettavano altro che un pretesto del genere, cominciarono a vociare tra loro e, alla fine, Ambruni esclamò: “Chiamiamo a raccolta l'intera città! Che tutti sappiano che ingrata è, la Contessa Sforza! Che tutti sentano le parole di messer Numai! Si indica un Consiglio Generale! E si decida una volta e per tutte di schierarci contro di lei!”

Luffo trattenne a stento un sorriso. A breve, si disse, l'intera Forlì sarebbe accorsa in piazza. Aveva dato precise disposizioni a sua moglie e sapeva che avrebbe fatto partire i figli della Sforza non appena fosse stata certa di passare completamente inosservata.

Con il cuore che si alleggeriva, pensando che, presto, sarebbe finito tutto, in un modo o nell'altro, Numai diede man forte ad Ambruni e rincarò: “Voglio parlare all'intera popolazione! Fatela accorrere!”

 

Perfino dalla rocca si poteva capire che nella piazza che un tempo aveva ospitato la Guardia Cittadina si stava accalcando un sacco di gente.

Caterina sollevò gli occhi verso il cielo plumbeo, sperando che non si mettesse a piovere: con la pioggia, la folla si sarebbe in parte dispersa, mentre per lei era fondamentale che restasse in piazza.

Quel 14 dicembre era iniziato in modo strano, per lei. Era stata svegliata da un incubo che non faceva da un po' di tempo e poi una strana frenesia l'aveva attanagliata fin dal momento stesso in cui aveva messo un piede per terra, alzandosi dal letto.

Aveva aiutato gli armaioli a fare il filo alle spade, aveva portato di persona nella dispensa molti sacchi di grano che ancora non erano stati sistemati, aveva tirato di spada e si era perfino fatta carico della strigliatura di alcuni cavalli. E non era ancora mezzogiorno.

Più per non mettersi eccessivamente in mostra che non perché le forze le fossero venute meno, aveva deciso di fare un giro sui camminamenti, evitando per una mezzora di fare sforzi fisici.

Era nervosa, per tutto quanto. Aveva finito una volta per tutta la pozione che prendeva per evitare gravidanze indesiderate, e non aveva ingredienti sufficienti per prepararsene di nuova. Aveva sentito i tamburi dell'esercito francese battere qualche colpo, a metà mattina, e si chiedeva quando avrebbero capito che le mura erano sguarnite e che quindi entrare in città sarebbe stato per loro facilissimo. E, infine, non riusciva nemmeno per un istante a smettere di pensare ai suoi figli, perfino a Livio, morto ormai da qualche anno, ma legato al ricordo della sua prima vera battaglia.

“Credete che siano pentiti di essere stati abbandonati?” la voce di Baccino da Cremona ridestò la Sforza dai suoi pensieri, ma ebbe solo il potere di farla agitare ancora di più.

Il giovane le si era avvicinato con una baldanza che poco si sposava alla gravità del momento e anche il suo sorrisetto stonava con il clima cupo di quel giorno.

“La cosa migliore, a questo punto, è che siano loro ad abbandonare me.” rispose la Contessa, appoggiandosi coi gomiti alla pietra della merlatura.

Il soldato parve confuso, tanto che poi chiese: “Che intendete?”

La Sforza fece un lungo soffio. Non le piaceva dover spiegare le cose, specie a un uomo. Tuttavia, leggeva negli occhi impertinenti di Baccino qualcosa che la spinse a dargli soddisfazione.

“Io mi sono lavata le mani del loro destino, ma sono convinta che credano ancora che interverrei, nel caos in cui i francesi si dimostrassero con loro ospiti troppo violenti.” scelse le parole con cura, sperando che il cremonese capisse al primo colpo, senza necessità di approfondire ulteriormente il discorso: “E quindi l'unico modo che hanno per cercare davvero un contatto coi francesi e ottenere un patto che sia per loro vantaggioso e che non li condanni alla morte e alla violenza è quello di mettersi apertamente contro di me. Dichiarando il loro odio nei miei confronti, potrebbero convincere il figlio del papa della loro innocuità.”

“Parlate come se aveste già previsto tutto da tempo...” il tono di Baccino non era ammirato, ma, anzi, quasi d'accusa.

La Sforza apprezzò comunque il suo intuito e, non avendo più voglia di parlare, lo salutò con un sibillino: “Chi ti dice che non sia proprio così?”

Non se ne andò, si limitò a guardare altrove e così il ragazzo comprese che la donna aveva semplicemente deciso di chiudere il loro discorso.

Non senza una punta di irritazione, Baccino chinò appena il capo e poi, rigido, ritornò a fare il suo giro di ronda come nulla fosse.

 

“I forlivesi, dunque, onoratamente e in buona coscienza possono – stava gridando Numai, rivolgendosi alla folla che lo fissava in silenzio – anzi, devono abbandonare Caterina! Ottaviano è, sì, il nostro legittimo sovrano, e tutti hanno giurato fedeltà a Caterina, sua madre e tutrice.”

Luffo attese un momento, per sondare le reazioni del pubblico. Era stranissimo vedere come in Forlì fossero rimaste pochissime persone e come quelle pochissime fossero comunque accorse in massa non appena si era saputo che lui stava inveendo pubblicamente contro la Tigre.

Sperando che sua moglie stesse già facendo partire i figli della Sforza, Numai riprese, con maggior vigore, sentendosi quasi come uno di quei predicatori che ormai non si trovavano più da nessuna parte: “Ma Caterina stessa, savia, accorta, previdente e penetrante com'è, non ci ha forse sciolti tutti dal giuramento dicendo che lascia i cittadini liberi di prendere quella risoluzione che avessero creduta migliore?”

Mentre il consenso del popolo saliva, l'uomo si trovò a ricordare di quando Ottaviano stesso era stato definito decaduto dal papa, e di come tutti i Riario fossero stati formalmente deposti. Dunque, se ne concludeva, dove stava il tradimento, se si tornava docilmente tra le braccia di Santa Madre Chiesa?

Inoltre, si premurò di ricordare, benché non ce ne fosse alcun bisogno, un esercito di oltre quattordicimila uomini era pronto a entrare in città. Dove avrebbero trovato le forze per resistere?

“Dunque è proprio un dovere, per i cittadini, farsi macellare insieme a tutte le loro famiglie e rimanere sepolti sotto le rovine della loro città? Basta che i forlivesi soldati di Caterina, chiusi con lei nella rocca, le rimangano fedeli!” il tono di Numai non ammetteva repliche e anche gli altri Consiglieri che stavano sul palchetto improvvisato assieme a lui non riuscivano a smettere di puntargli gli occhi addosso: “Il danno sarà di lei e di loro, poiché l'hanno voluto, e non di un'intera popolazione!”

Ricordò con massima attenzione come, di fatto, quello Stato fosse del papa, malgrado negli anni si fossero avvicendate molte famiglie al comando, e non sempre con grandi risultati.

“Finalmente è venuto papa Sisto – ricordò a tutti, sollevando un dito ammonitore verso il cielo, quasi a incolpare personalmente il defunto pontefice – che ha investito il nipote della Signoria, ma poi, per l'imbecillità del figliolo, Caterina ha sempre governato e spadroneggiato, e ora, grazie a lei, i forlivesi si trovano sull'orlo del precipizio! Cosa è venuto, sotto il governo di questa donna? Esilii, bandi, confische, supplizi, sangue, sempre sangue!”

Poiché molti dei presenti avevano toccato con mano almeno una delle tragedie di cui Luffo stava parlando, l'aria parve farsi immobile. Numai avvertiva la crescente aspettativa, come se tutti stessero attendendo l'affondo finale, quell'invettiva che avrebbe convinto anche il più scettico a rompere gli indugi e arrendersi al figlio del papa senza più sperare in nient'altro se non nel ritorno del controllo diretto dello Stato da parte del pontefice.

“Benedetto il governo dei papi! Sotto il quale non c'è pericolo possibile di minorità, né di cadere nelle mani di una donna! Ditemi! Ditemi di grazia qual uomo evvi tra voi che possa dire di avere avuto almeno la libertà di maritare a chi voleva le proprie figliole? Fra il governo della Caterina e quello della Chiesa ogni dubbio è impossibile!”

Numai volle concludere la sua filippica ribadendo che lei aveva i soldati a difenderla, ma che loro, poveri cittadini, sarebbero stati uccisi tutti e basta, se non si fossero arresi immediatamente.

Nessuno, però, poté sentire distintamente le sue ultime parole, perché la piazza era stata riempita da un unico assordante grido: “Popolo! Popolo! Popolo!”

Quell'urlo era tanto forte, ritmato e nitido che arrivò netto e intelligibile perfino alla rocca di Ravaldino, sulle cui merlature ancora stava la Tigre che, nell'udirlo, sorprendendo tutte le guardie che le camminavano vicine, scoppiò in una risata liberatoria.

 

 

 
   
 
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