Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |      
Autore: Harriet    20/02/2020    1 recensioni
Quale tragedia è più avvincente: quella del personaggio che finalmente ottiene la sua vendetta o quella di chi vi rinuncia, trionfando su se stesso? Scopritelo stasera, al Teatro Alato. La compagnia metterà in scena per voi questo straordinario dramma, che vede protagonisti due attori, un mostro, un sottopalco, un eroe morto e una vendetta a lungo attesa. Forse.
[Ambientazione steampunk]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Threesome
- Questa storia fa parte della serie 'Dietro le quinte della rivolta'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Partecipa al COW-T di Landedifandom. Missione 3, “Voci che solcano il cielo.”
Prompt:
- Teatro
- “Non è vero che l’oblio non esiste. La testa seleziona, fa archivio continuamente e molto scarta. Fa spazio, compatta. Magari non elimina del tutto ma comprime in un formato illeggibile. Anche se ti sforzi non trovi la chiave, non lo puoi decifrare più.” (Concita De Gregorio)
- Ossessione.

-> Il personaggio protagonista è non binario, ma la nostra lingua è tristemente sessuata, quindi uso il maschile perché penso che lo userebbe anche Yedra, se parlasse italiano.
Il concetto di "dipendere dalla gentilezza degli estranei" è una specie di citazione di Tennessee Williams.


Meccanica della vendetta
 
            «Ebbene, se è questo il destino per me scritto dai Supremi, che sia!»
            I Supremi: aveva sempre trovato estremamente ridicolo quel modo antiquato di appellarsi alle divinità venerate dal culto dei Fratelli del Tempo Perduto, la religione più diffusa nei territori della Baia un secolo prima, al tempo in cui era stata scritta La Tragedia di Mildian il Custode e Damidia della Bandiera In Fiamme. Il teatro di quell’epoca non era proprio fra i preferiti di Yedra: il suo amore andava agli splendidi testi di circa duecento anni prima (il momento in cui erano iniziate delle cronache scritte a documentare l’esistenza di quel precario pezzo di universo). Forse gli autori di allora avevano avuto l’intuizione di quanto tragico e assurdo fosse, il frammento al crocevia di tre mondi su cui vivevano, e per non essere sopraffatti dall’orrore avevano tirato fuori delle opere letterarie di una bellezza travolgente e straziante.
            Ma alla gente quelle tragedie roboanti e piene di paroloni piacevano un sacco. E il Teatro del Vento doveva sopravvivere: la compagnia doveva mangiare, pagarsi abiti e trucco di scena e soprattutto foraggiare la sua attività clandestina di vigilantes sovversivi. Quindi ogni tanto mettevano su quegli spettacoli retorici e stucchevoli. E Yedra accettava di buon grado i ruoli principali. Si riempiva di trucco, annegava nei costumi immensi che doveva indossare, soffocava i suoi capelli neri e mossi sotto strati di prodotti che glieli tenevano raccolti e scolpiti in pettinature che sfidavano ogni logica, modulava la voce per adattarsi al personaggio di turno: una principessa solitaria, un cavaliere perso nella sua superbia, una regina caduta in disgrazia, un poeta esule che lasciava amori e ambizioni nella patria perduta, un giustiziere senza scrupoli, una madre che influiva subdolamente sulle vite dei figli fino a condurli alla rovina…
            Ogni volta Yedra indossava quel personaggio, ringraziando per il suo corpo snello e filiforme, per il viso dai lineamenti dolci, per la voce con un’estensione fuori dal normale, che gli permettevano di essere tutto.
            Quella sera era la delicata Damidia, rassegnata a soccombere al suo fato, un susseguirsi di disgrazie piuttosto inverosimili, fino agli ultimi centoventi versi del quarto atto, nel quale la ragazza mandava a quel paese umiltà, gentilezza e rassegnazione, impugnava una torcia e un pugnale e faceva strage di tutti quelli che le avevano rovinato la vita. Un’evoluzione interessante. Il pedante autore in teoria voleva mostrare Damidia come un esempio negativo, contrapponendola alla virtù di Mildian, il suo amato che però la rinnegava nel finale, non potendone accettare la perdita di ogni morale. Yedra non sopportava il personaggio di Mildian, e a dire il vero non sopportava nemmeno Damidia, ma il momento di delirio finale era divertentissimo da recitare, per cui valeva la pena di sorbirsi tre atti e mezzo di noia per arrivare all’impeto piromane e sanguinario della bella sventurata.
            Nella parte di Mildian c’era Zenaida, imponente e abile a far volteggiare la spada, con la sua capacità di scurire la voce e indurire i lineamenti, e la sua sempiterna passione per i personaggi cavallereschi. Certo, anche lei non apprezzava lo sviluppo bigotto e lagnoso di Mildian, ma era comunque un personaggio nelle sue corde, quel tipico soggetto carico di armi, paroloni e buoni sentimenti.
            Il teatro era pieno, quella sera, e l’opera procedeva spedita. Dietro le quinte il clima era piuttosto rilassato, e ugualmente tranquillo era il pubblico: quelle storie erano piene di alti e bassi, sì, ma avevano uno schema conosciuto, rassicurante. E nessuno era più rilassato e sereno dell’uomo dai lunghi capelli grigi che se ne stava nei posti centrali della prima fila, smuovendo l’aria con un piccolo ventaglio rosso e parlottando ogni tanto con la sua vicina bionda. Yedra doveva sforzarsi di non guardarlo mai, di dimenticare che fosse lì.
            Yedra e Zenaida non erano tranquilli, invece. La tensione si percepiva ogni volta che si incrociavano sul palco, a ogni scambio acceso, ogni sguardo, ogni bacio. E se il pubblico, quella sera, pensava che i due interpreti fossero particolarmente appassionati, loro avevano tutt’altro, in testa, invece che la storia di Mildian e Damidia.
            Yedra aveva un enorme buco nero e profondissimo, in testa, e tutti i pensieri ci cadevano dentro.
            C’erano momenti in cui la recitazione lo strappava da quella voragine mortale. Poi notava la luce febbrile negli occhi di Zenaida e allora ritornava alla realtà. A quella realtà che prevedeva un’unica cosa: un buco nero senza fine.
            A partire dall’inizio del terzo atto cominciò a contare il tempo. Manca un’ora. Mezz’ora. Dieci minuti. Tra poco, tra pochissimo. Ci siamo.  Quando il sipario si chiuse per l’ultima volta, dopo l’ultimo inchino, Yedra ebbe la consapevolezza che il momento era arrivato, e la voragine nella sua testa si spalancò anche nel suo stomaco.
            «È l’ora. Muoviti» gli sussurrò Zenaida, stringendogli forte un braccio, mentre gli attori abbandonavano il palco alla rinfusa, tutti insieme, e sparivano dietro le quinte. Zenaida non era mai delicata con nessuno (forse lo era stata solo con una persona, in tutta la sua vita), ma in quel momento strinse così forte da fargli male, e Yedra si domandò se, come al solito, non fosse stata in grado di misurare la sua forza o se avesse stretto apposta, per ricordargli quello che dovevano fare, per dare una sferzata al coraggio di Yedra.
            Coraggio. Lo era davvero o era qualcos’altro? Quello di Zenaida era più una fissazione, che coraggio autentico. Un pensiero immobile che abitava la sua mente da due anni, da quella mattina senza sole che aveva portato la notizia della morte di Mireille. Zenaida aveva deciso di seguire il destino di tanti dei personaggi che aveva interpretato e devolvere la sua intera esistenza alla vendetta. Un pensiero fisso, ossessivo, costante.
            Anche Yedra aveva pensato molto alla vendetta, ma poi la sua vita aveva preso altre strade, tutte molto oscure, e per un po’ era stato sul punto di annegare nel suo dolore. E poi? Poi… Poi aveva deciso di fare una cosa senza buonsenso, senza logica e senza mezzi, e per caso gli era riuscita. E gli era piaciuta un sacco. E così si era trovato al posto di Mireille, dimenticando i buoni propositi di vendetta.
            C’era Zenaida a ricordarglieli, però.
            «Hanno ucciso tua sorella e tu permetti che continuino a vivere in pace?»
            Quante volte gli aveva gettato in faccia quella frase, forte come uno schiaffo, tra una rappresentazione e l’altra, tra un ripasso della parte e una prova dei nuovi costumi.
            «Porto avanti quello che faceva mia sorella» le rispondeva ogni volta, tra i denti. «Ed è il meglio che posso fare, per non lasciarli vivere in pace.»
            Zenaida sbuffava, scuoteva la testa, sputava qualche parola tetra oppure rispondeva con un silenzio sprezzante. Poi non ne parlava più e i due tornavano a essere quasi amici. Fino alla volta successiva in cui Zenaida posava la spada di scena e faceva un affondo ben più doloroso.
            «Dovremmo cancellarli dall’esistenza» diceva. «È quello che Mireille avrebbe fatto, se a morire fossi stato tu.»
            C’era quasi del biasimo, in quelle parole. Come se gli desse la colpa di non essere morto lui. Yedra avrebbe anche fatto a cambio con Mireille, ma la storia era andata diversamente. Mireille fingeva di essere una brava nobildonna, e poi conduceva la sua seconda vita come attrice e la sua terza vita come vigilante. Non era un’esistenza molto equilibrata. Lo aveva sempre messo in conto, che c’era la possibilità concreta di morire. E infatti era andata così.
            Lui aveva raccolto i pezzi di ciò che faceva Mireille e aveva cercato di ricostruire qualcosa. Era il meglio che potesse fare. La cosa più simile a una vendetta che avrebbe mai potuto organizzare contro un branco di potenti corrotti, quelli che sua sorella voleva annientare e dai quali era stata annientata.
            Ma per Zenaida non bastava. Erano passati quasi tre anni dalla morte di Mireille, ma per lei il tempo si era fermato.
            «La verità è che tu l’hai dimenticata.»
            Quello era il colpo peggiore. Quello più feroce e più profondo. Quello più ingiusto, soprattutto.
            «Io non la dimenticherò mai.»
            «Hai trovato altre cose con cui riempire la tua vita e l’hai dimenticata.»
            «La mia vita intera è costruita sulle cose che mi ha insegnato lei!»
            Ma Zenaida non ci credeva e gli faceva venire dei dubbi. Era vero, aveva riempito la sua vita di altro. E a volte, la sera, quando tornva al suo rifugio e si nascondeva tra le braccia dei suoi amanti, gli capitava di domandarsi se davvero ricordasse tutto, di lei. Se non avesse perso qualche pezzo. La memoria era strana: non potevi obbligarla a conservare ogni cosa, e per quanto uno si affannasse, c’era sempre qualcosa che se ne andava. Aveva ancora tutto, di Mireille, dentro di sé? Cosa ricordava, cosa tratteneva?
            Soprattutto, ricordava ancora la rabbia che aveva provato alla sua morte? O aveva ragione Zenaida e aveva finito per scordarla?
            Mi ricordo bene il dolore, si diceva, e si aggrappava a quello. L’assenza di Mireille, la monomentale ingiustizia della sua morte, quelli li aveva ben presenti, sì.
            Ma la rabbia contro chi l’aveva uccisa? Forse Zenaida non aveva tutti i torti, a cercare di fargli male, rovesciandogli addosso il suo disprezzo.
            «Forza, muoviti.» Zenaida si cambiò in un lampo e gli si presentò con ancora i resti del trucco di scena sulla faccia pallida e un ciuffo di capelli azzurri che sbucava dal cappello marrone che portava sempre. Yedra era quasi pronto: non doveva fare altro che scegliere un abito più semplice e vicino ai dettami della moda. Il trucco e la pettinatura gli sarebbero serviti per tenere viva l’illusione di eleganza e femminilità di cui aveva bisogno.
            «Zenaida, ascolta.»
            «No, non adesso. Andiamo, prima che esca.»
            «Sei sicura?»
            «Io sì, lo sono, come sempre. Sei tu, che hai paura.»
            «Non ho paura. Mi chiedo se sia la cosa giusta.
            «No, non lo è. Sai benissimo cosa avrei voluto fare. Ma tu sei un vigliacco, quindi ho dovuto accettare il compromesso. Ora vai là fuori e portalo dove devi.»
            Era il momento. Non aveva più nessuna scusa per rimandare.
            «Ma dove state andando?»
            Si voltò di scatto e si trovò davanti Ilran. Era sudata e con la pelle sporca della polvere azzurrina sputata fuori dal suo infernale macchinario per la finta nebbia e gli occhiali le pendevano verso sinistra sul naso. Le treccine erano raccolte alla meglio con un pezzo di corda appartenente a qualche altra macchina di scena. Però sorrideva ed era bellissima. Yedra sospirò e pensò a come sarebbe stato liberatorio, trascinarla in un angolo, baciarla e confessarle ciò che aveva deciso di fare.
            No, non lo aveva deciso. Lo stava facendo per Zenaida.
            No, lo stava facendo per Mireille.
            «Andate pure a casa, stanotte. Arrivo tardi.»
            Lei gli si avvicinò e gli posò una mano sulla guancia, mentre con le dita ripassava alcune linee sul suo viso: i solchi ai lati della bocca, la piega tra le sopracciglia. Torreggiava su di lui e lo faceva sentire piccolo e al sicuro. Le macchie di polvere bianca spiccavano sulla pelle nerissima. Sulle sue labbra c’erano ancora tracce di un rossetto viola scuro.
            «Hai quella faccia, sai» gli disse.
            «Che faccia?»
            «La faccia di quando vuoi che ti fermi prima di fare una cazzata.»
            «Va tutto bene.»
            «No, non credo. Comunque ti aspettiamo a casa.» Gli voltò le spalle, poi si fermò e tornò a guardarlo. «Stanotte gli abitanti di là sotto si sono fatti sentire, eh?»
            «Sei tu, l’unica che li sente.»
            «Basta sapere cosa ascoltare. Deve esserci un po’ di caos, nell’altra città. Non vorrei doverci scendere.»
            «Un giorno capirò perché sei così ossessionata da questa cosa.»
            «Mi affascina. Adesso vado. Vedi di non fare tardi.»
            La guardò allontanarsi. Per tre volte fu sul punto di chiamarla e dirle quello che le diceva sempre. Fermami. Ma la lasciò andare via.
            Passò tra i membri della compagnia, sfuggendo ai complimenti e ai gesti fraterni e complici, e sgusciò via dai loro spazi privati per tuffarsi in una saletta di fianco alla platea. Lì gli spettatori più in vista del Teatro Alato venivano spesso premiati con una piccola festa dopo le rappresentazioni. Quel posto stava in piedi per miracolo e non aveva un pubblico molto elevato. I proprietari erano molto servili nei confronti dei pochi personaggi in vista di Adraen che ogni tanto arrivavano fin lì, per assistere a qualche opera poco edificante o considerata volgare spazzatura nei teatri maggiori della città.
            Yedra cercò Zenaida nella folla e la vide che incantava la giovane donna bionda che aveva accompagnato lui. Gli aveva lasciato la strada aperta con il loro obiettivo. Yedra si fece forza e avanzò verso l’uomo, intento a farsi servire da bere.
            Ne conosceva desideri e debolezze. Sarebbe stato semplice.
            Eppure non lo era. Per uno abituato a combattere, a progettare strategie, a guidare un gruppo di vigilantes fuorilegge, a fregare i potenti e ridersela di nascosto, brindando ai loro progetti falliti e ai loro tesori trafugati, in quel momento non c’era niente di semplice.
            Si avvicinò all’uomo e lo urtò, fingendo di volersi avvicinare ai bicchieri. Lui si voltò, notò Yedra, lo riconobbe e gli fece un sorriso. Poi gli offrì il proprio calice, che Yedra si premurò di prendere sfiorando la mano dell’uomo.
            «Il nostro primo attore» lo salutò lui.
            «Il Ministro Endradi.»
            «Sono molto felice di vederti. I membri del Teatro del Vento raramente ci deliziano con la loro presenza in mezzo al pubblico.»
            «È che non siamo degni di un pubblico così elevato.»
            Endradi rise. Evidentemente la pensava così, e gli piaceva che il primo attore fosse lì a piegarsi ai suoi desideri.
            Era la storia più vecchia del mondo. Endradi era membro del Clan degli Scarlatti, i mecenati degli artisti e dei costruttori. Peccato che fossero tutti dediti alla Filosofia della Natura Sovrana, una serie di credenze tra l’ideologico e il religioso che prevedevano una rigida suddivisione di ruoli tra maschi e femmine – e ovviamente prevedeva l’esistenza solo di maschi e femmine. In pubblico erano tutti osservanti, in privato cercavano ciò che non potevano avere. Come mostravano le antiche tragedie, era sempre così: gli uomini facevano delle regole senza senso, vi si incatenavano e poi rischiavano tutto per infrangerle. A Endradi piacevano i ragazzi e le persone particolarmente androgine. Yedra – che per lui era il rinomato (anche se pezzente) attore Anthar Eils Nimdarial – incarnava perfettamente i suoi desideri. Era risaputo che Endradi andava al Teatro Alato apposta per concupire giovani attori dalle sembianze femminee. Quanto ci sarebbe voluto, per convincerlo ad appartarsi con lui in uno dei camerini?
            Niente, non ci volle niente. Eppure ci volle tutto. Ci volle il sacrificio dei principi morali di Mireille sull’altare dell’ossessione di Zenaida.
            Perché fosse così importante, poi, non lo sapeva. Però fece ciò che doveva, e venti minuti dopo aver abbordato il Ministro, si stava lasciando baciare sul ripiano della specchiera di un camerino.
            «Non qui» gli disse, cercando di allontanarne le mani voraci, quando l’uomo iniziò ad attentare alle chiusure del suo abito. «Vieni. Da un’altra parte.»
            Era evidente che Endradi non fu entusiasta dell’interruzione, ma lo seguì comunque. Giù, giù, giù per la scala che lo avrebbe condotto nel sottopalco. Lì dove lo aspettava Zenaida, con una dolce e pietosa siringa. Era quello, il compromesso: l’avrebbero ucciso, ma in maniera umana. Zenaida avrebbe voluto farlo a pezzi. Yedra le aveva posto il veto su qualunque atto violento.
            «Ho promesso a Mireille che avrei sempre portato avanti i suoi ideali!»
            «Io le avevo promesso di sposarla. Beato te, che potrai mantenere la tua promessa.»
            Di tutti coloro che avevano contribuito alla morte di Mireille mentre era in azione come vigilante di Adraen, tre erano irraggiungibili, troppo in alto per loro, e uno era morto poco dopo Mireille. Restava Endradi, colui che aveva insistito per ucciderla subito, senza un processo, senza il clamore della folla che aveva simpatia per lei. Era l’unico abbordabile e Zenaida aveva giurato che lo avrebbe distrutto, perché era l’unica cosa che poteva fare.
            No, non era l’unica cosa. Ma ormai erano troppo avanti con il loro piano, per tornare indietro.
            Non c’era Ilran, quella che sapeva sempre fermarlo al momento giusto. Non c’era Enit con la sua gentilezza a ricordargli quanto piacesse anche a lui essere gentile. Non c’era l’affetto rude di Deireth, che gli sbarrava la strada e gli impediva persino di pensarle, le cazzate. E non c’erano le braccia di Ayld, con quella stretta protettiva capace di annullare ogni idea stupida. Era solo, solo con il dolore di Zenaida e con l’uomo colpevole della morte di sua sorella. Cosa doveva fare?
            Aprì la porta del sottopalco e spinse dentro il Ministro. C’era Zenaida, lì sotto, con un sorriso e una lanterna.
            «Pensavo saremmo stati soli» disse Endradi.
            «Ho un’idea un po’ diversa.»
            «Non è molto il mio tipo.» Indicò Zenaida.
            «Per quello che ho in mente io andrà benissimo.»
            Eccola che avanzava. Yedra sapeva cosa nascondeva in tasca. Era questione di pochi secondi, e poi…
            Gli sembrò di sentire la voce di Ilran, ma era nella sua testa, insieme all’immagine di lei china su uno dei suoi progetti, sul pavimento disseminato di molle, viti, bulloni, giunti e ingranaggi. Il Teatro Alato è uno dei posti più infestati di Adraen, ma non perché ci sono i fantasmi.
            Guardò il pavimento. La botola era sotto i piedi di Zenaida. Ricordò la storia di Ilran e le frasi che gli aveva detto poco prima.
            Deve esserci un po’ di caos, nell’altra città.
            In quel momento capì perché aveva insistito con Zenaida per farlo proprio lì nel sottopalco. Ilran non c’era, ma era riuscita a fermarlo lo stesso.
            Mise una mano attorno alla vita del Ministro e fece cenno a Zenaida di fare un passo indietro. Lei lo guardò con sospetto ma obbedì.
            «Ministro Endradi, stiamo per offrirle un’opportunità straordinaria. Dubito che le ricapiterà un’altra volta. È l’opportunità di redimersi. Guardi che non tocca a tutti, una cosa così.»
            «Ma che stai dicendo?»
            «Già, che stai dicendo?» domandò Zenaida, la rabbia che le tremava nella voce.
            «Le daremo tre oggetti. Ne avrà bisogno» riprese lui. «Una lanterna, un cacciavite e una mela.» Tirò fuori il cacciavite che si era portato dietro fin dal camerino e il frutto che aveva intascato durante la festa. «Soldi ne ha, immagino. Le serviranno per comprarsi qualche alleanza. Se sarà bravo, se la caverà, e magari tornerà fuori nel giro di un paio d’anni. Se invece non sarà scaltro o sarà troppo avido o superbo, temo che potrebbe rivedere la luce dopo un bel po’ di tempo.»
            «I patti erano diversi» sibilò Zenaida.
            «Credimi, sarebbe stato più caritatevole a modo tuo.»
            «Che succede? Cosa volete da me?» piagnucolò Endradi, scrollandosi di dosso Yedra. Lui si lasciò spintonare e tornò a offrire mela e cacciavite all’uomo, che gli allontanò la mano con uno schiaffo. Il frutto rotolò per terra nella polvere del sottopalco.
            «Inqualificabile come sempre» commentò Yedra, serio. Prese il cacciavite e lo infilò nella tasca dell’uomo. «Dove ti stiamo per mandare ne avrai bisogno. È un posto un po’ speciale. Si dice che per sopravvivere si debba combattere contro una meccanica impazzita. Chi ha uno di questi parte in vantaggio. Mi ringrazierai.» Fece un cenno con la testa a Zenaida. «Dagli la lanterna.»
            Lei obbedì. Era seria e probabilmente furiosa ma non tentò di uccidere Endradi comunque. Yedra aveva temuto che lo facesse, ma evidentemente non ci riusciva, da sola.
            «E ora?» gli chiese lei.
            «E ora, fai un passo indietro.»
            Zenaida si spostò dalla botola. Yedra si inginocchiò, tastò il suolo con le dita fino a incontrare il meccanismo che la bloccava e la fece scattare, rivelando un’oscurità densa, al di sotto.
            «Vieni, Ministro Endradi. Guarda giù con la tua lanterna. C’è una scala.»
            «Se credi che mi infilerò là sotto…»
            «Sì, lo credo.» Yedra sfoderò una piccola pistola. Zenaida fece balenare la siringa. L’uomo emise un lamento strozzato e strinse la lanterna, sollevandola sulle tenebre.
            «Cosa c’è, laggiù?»
            «È l’ingresso per il Serbatoio. Da qualche parte lo chiamano anche lo Stomaco della città.»
            «Stai scherzando?»
            «Per niente. Ne hai sentito parlare?»
            «Sì, ma non credevo…»
            «Sotto il teatro ci sono le viscere della più grande macchina mai costruita da queste parti, circa centocinquant’anni fa. Avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi di Adraen. Un esperimento fallito, e in maniera spettacolare. Ma ancora raggiungibile. Ora è terra di nessuno e rifugio di esiliati e reietti. Meriteresti la morte per molti motivi. Sei una delle maggiori cause di sofferenza per la gente comune di Adraen. Invece ti offriamo la possibilità di sopravvivere là sotto e diventare un uomo migliore.»
            «Voi non… Non potete… Mi troveranno!» urlò l’uomo, agitando la lanterna in faccia a Yedra. «Credete davvero che un uomo come me possa sparire e basta, così?»
            «Ci sono anche delle brave persone, laggiù» disse Yedra. «Beh, alcune ci sono finite grazie alle porcate fatte da te e dai tuoi amici, ma se hai la fortuna di non essere riconosciuto, forse troverai chi ti aiuterà. A volte affidarsi alla gentilezza degli sconosciuti è l’unica cosa da fare. Buon viaggio, Ministro.»
            Lo guardarono scendere, con una scarica di imprecazioni miste a preghiere sulle labbra e la lanterna che gli tremava tra le mani. Quando fu sparito nel buio, Yedra richiuse la botola. Erano completamente immersi nel buio e nel silenzio. Si sentivano dei rumori: oscuri ticchettii e scatti meccanici risalivano dalle profondità della terra, mentre sulle loro teste c’erano i suoni rassicuranti del palco che veniva sgombrato dalle scenografie.
            «Che cosa credi di aver fatto?» gli chiese Zenaida, gelida.
            «Non lo so.»
            «Hai risparmiato la vita di uno degli assassini di tua sorella.»
            «Non sono nessuno per decidere di portare via la vita di qualcun altro a sangue freddo. Ho ucciso per difendermi, ma questa è un’altra cosa. Mireille non lo faceva e non avrebbe mai approvato un assassinio.»
            «Smetti di parlare di lei! Tu l’hai dimenticata!»
            «Non è vero!» urlò. «Non la dimenticherò mai, ma io ho ancora voglia di vivere, e non sarei mai potuto vivere con il peso di aver ucciso una persona in questo modo!»
            Zenaida cominciò a muoversi. Yedra si alzò e la raggiunse. Cercò un contatto con lei, ma quando la sfiorò, lei lo respinse: sentì le sue unghie contro la pelle.
            «Ti prego» provò a dirle.
            «Verrò a patti con quello che hai fatto. Ma ora non parlarmi.»
            La lasciò andare e rimase indietro, nel buio. Si appoggiò con la schiena contro una parete e pianse.
            Più tardi si rimise in cammino ed emerse dal buio. Nel teatro non c’era più nessuno. Uscì nella notte gelida con indosso solo l’abito succinto che aveva indossato per irretire Endradi. Sentiva la faccia pesante per il trucco e i capelli troppo stretti, ancora pieni di forcine e fermagli.
            «Ce ne hai messo, di tempo.»
            Sotto un lampione c’erano Ilran e Ayld. Il fumo della pipa di lei si levava in nuvolette che restavano sospese nel buio. Lei indossava un lungo cappotto, lui la sua solita cappa agganciata male.
            «Vi avevo detto di andare a casa.»
            «Non mi sembrava il caso» rispose lei. «Volevano aspettarti anche gli altri, ma Enit si è addormentata per terra e Deireth l’ha portata a casa in braccio.»
            Yedra si infilò tra i due e cominciarono a camminare. La sua strana famiglia arrangiata e senza definizioni. L’amava così tanto. E aveva ancora voglia di vivere insieme a loro. Se avesse ucciso un uomo, quella notte, Ayld non lo avrebbe più guardato in faccia. Invece adesso Ayld gli stava drappeggiando la sua cappa scura sulle spalle nude. Era egoismo? Era un peccato? Era sbagliato, avere voglia di vivere, e di vivere bene, nonostante la mancanza di Mireille, che avrebbe sentito per sempre?
            «Allora, ti sei fermato in tempo prima di fare cazzate?» gli domandò Ilran.
            «Sì. Mi hai fermato tu.»
            «Come, scusa?»
            «Raccontandomi la storia del mondo sotto il teatro.»
 
 
 
 
 





Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.  
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Harriet