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Autore: Naco    21/02/2020    1 recensioni
Quando la sua professoressa di tesi propone a Lucia - seria e coscienziosa laureanda in Lettere - di dare ripetizioni di francese al proprio figlio, la ragazza capisce subito che, accettando, rischia di cacciarsi in un mare di guai: Giulio Molinari è il classico figlio di papà che pensa solo alle ragazze e assolutamente disinteressato a costruirsi un futuro Insomma, il tipo di persona che lei detesta.
Ma è davvero così impossibile che due persone così diverse possano avvicinarsi? In una girandola di battibecchi, scontri e incomprensioni, tra parenti ficcanaso e fedeli amici, tesi da preparare e lezioni di francese da seguire, Lucia e Giulio si renderanno presto conto che non sempre l’altro è poi così diverso da noi e che, forse, la nostra anima nasconde un ritratto molto più bello di quello che noi preferiamo mostrare agli altri.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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XVII


Vissi i tre giorni successivi in uno stato di apatia difficile da descrivere: senza soluzione di continuità, passavo da momenti di odio profondo verso Giulio ad altri in cui mi mancava da morire e avrei voluto tornare indietro e ascoltare quello che aveva da dirmi prima di aggredirlo in quel modo. Ogni volta che la mia mente tornava a lui, vedevo l'ultima occhiata che mi aveva lanciato: non arrabbiata, non colpevole, non dispiaciuta. Ferita, ecco come l'avrei definita se fossi stata abbastanza lucida da accorgermene, triste, delusa.
Perché mi aveva guardata così?
«Io penso che avresti dovuto lasciarlo parlare: magari era tutto un equivoco e tu stai soffrendo per nulla.»
«Sciocchezze. Ti avrebbe riempita di bugie e tu gli avresti creduto. Quella ragazza ha ragione: perché tutto a un tratto ha cambiato atteggiamento nei tuoi confronti? Non hai fatto nulla che potesse spingerlo a cambiare idea su di te, tutt'altro. Tra l’altro, c'è la famosa storia del ritratto, di cui solo Giulio era a conoscenza. Gli uomini sono tutti uguali, ormai dovresti averlo imparato bene. Non ti ha insegnato nulla la storia di tua sorella?»
«E tutto quello che ha fatto per te, lo hai già dimenticato? E il regalo di compleanno?»
«Tsè! Faceva tutto parte del suo piano, sciocca. L’ha detto lui stesso che ci andava spesso. Secondo me ci portava le sue ragazze per...»
Le due voci non si stancavano di rimbeccarsi l'un l'altra, difendendo e accusando Giulio.
«Basta!» mi ritrovavo ogni tanto a urlare alle pareti di casa mia, raggomitolandomi nelle lenzuola, senza che nessuno però potesse udirmi.
Ero scappata a casa di Andrea per evitare di mettere piede nel mio appartamento, eppure era quello il mio unico rifugio ormai da tre giorni: avevo staccato il telefono e il mio computer era spento da oltre settantadue ore, la tesi e la presentazione che giacevano dimenticate nel mio hard disk.
«Devi reagire, devi reagire!» mi urlava qualcuno nel dormiveglia nel quale cadevo a intervalli più o meno regolari, ma non ero certa di chi fosse: a volte mi sembrava la voce di mia sorella, altre quella di Andrea oppure la mia, o meglio della me di prima che tutta quella storia avesse inizio.
Sto impazzendo, conclusi ancora una volta. Mi rendevo conto che il non mettere niente sotto i denti non aiutava, ma non avevo forza di volontà a sufficienza per alzarmi e andare in cucina a cercare qualcosa di commestibile nel frigorifero.
All'improvviso, un suono ovattato mi raggiunse nel torpore in cui ero di nuovo caduta. Ci misi un po' a realizzare che qualcuno stava suonando il campanello di casa e, per un attimo, la paura e la speranza che potesse trattarsi di Giulio si mescolarono dentro di me. Con fatica raggiunsi la porta d'ingresso: sentivo le gambe pesanti, la testa mi girava e il cuore mi batteva a mille; nel frattempo, il campanello continuava a suonare con insistenza, cosa che non aiutava il mio mal di testa.
«Chi è?» chiesi guardinga; anche la mia voce mi sembrava strana. O forse dipendeva dal fatto che non la sentivo da qualche giorno?
«Sono Emanuele.»
Cosa? Che diavolo ci faceva Emanuele dietro la porta di casa mia? Anche se avrei preferito di gran lunga avere a che fare con le voci nella mia testa che con mio cugino, aprii la porta per farlo accomodare.
Emanuele, però, rimase per qualche secondo sulla soglia, indeciso se entrare oppure scappare via. «Che diavolo hai combinato? Sembri un mostro!»
«Grazie cugino. È riempiendola di simili complimenti che hai conquistato l'amore di Laura?» replicai, riacquistando un po’ della mia solita ironia, ma lui non si lasciò trarre in inganno dal mio tono e mi fissò nervoso.
«Allora, che ti è successo?» indagò.
Era in ansia per me? Mi domandai sorpresa.
«Niente. Studiavo» lui sarebbe stata l'ultima persona a cui avrei raccontato cosa era accaduto con Giulio, visto quel che aveva già combinato.
«E per studiare hai bisogno di spegnere il cellulare?»
«Avrò dimenticato di riaccenderlo. Sai, sono agli sgoccioli e ho bisogno della massima concentrazione. Non pensavo che ci tenessi così tanto a me.» Replicai irritata. Ci mancava pure che mi facesse la paternale!
Emanuele storse la bocca, come se fosse schifato alla sola idea: «Io? Neanche per sogno. È stata la nonna a dirmi di venire a vedere che fine avevi fatto: sono tre giorni che tutti provano a chiamarti, ma nessuno ci riesce. La zia era in lacrime. Temeva che... che ti fosse successo qualcosa. Voleva chiamare gli ospedali, la polizia. Nonna le ha detto di calmarsi e mi ha spedito qui a controllare prima. Allora, lo studio merita così tanto?»
Fu come se qualcuno mi avesse versato un secchio gelata sulla testa e, al contempo, mi avesse presa a schiaffi. Che diavolo mi era saltato in testa? Egoisticamente chiusa nel mio dolore e nella mia rabbia contro Giulio, avevo agito come una bambina piccola e avevo fatto quasi venire un infarto a mia nonna e a mia madre. Eppure dovevo saperlo meglio di chiunque altro cosa avrebbero passato se fossi scomparsa in quel modo. Come avevo potuto far loro una cosa del genere? La vecchia me, quella di neanche due settimane prima, avrebbe deplorato un comportamento del genere con termini tutt’altro che gentili e avrebbe avuto ragione. Io stessa, settimane prima, avevo minacciato di abbattere la porta della stanza di Andrea per scoprire che cosa gli fosse successo, angosciata appunto perché non l’avevo più sentito. Ed ecco che mi ero comportata nello stesso, identico modo che avevo disapprovato in lui. Come avevo potuto ridurmi in quello stato? E tutto per uno stupido ragazzo? Mi sarei presa a schiaffi da sola.
«Mi dispiace. Non... non ci avevo pensato,» ammisi. Oddio, perché mi tremava il labbro in quel modo? Non stavo per scoppiare a piangere davanti a lui, vero?
Non so se Emanuele se ne accorse – anche se ne dubitavo: dopotutto, mio cugino non era mai stato un campione di sensibilità – tuttavia il suo sguardo si addolcì: «Lu', so che il paese non ti piace, ma ricordati che noi siamo la tua famiglia: anche se non la pensiamo nello stesso modo, anche se la nonna e la zia sono fissate con la storia del matrimonio e invece tu pensi che è una sciocchezza da Medioevo e vuoi studiare e viaggiare, noi ti vogliamo bene e ci preoccupiamo per te. Non dimenticarlo mai.»
Stavolta le lacrime bagnarono il mio viso e non feci nulla per arginarle. Da quando Emanuele era maturato così tanto? E da quando io mi comportavo come una bambina viziata? Era solo colpa di quello che era accaduto con Giulio o risaliva a molto prima?
«Noi? Anche tu?» Cercai di ridere anche solo all’idea, mentre con una mano tentavo di asciugare le lacrime dalle mie guance «Anche se ho cercato di ucciderti con una pesca?»
Emanuele fissò interessato il soffitto. «Beh, se non era per te, magari avrei scoperto di essere allergico a quelle dannate pesche in un modo ben peggiore e magari adesso non eravamo qui a parlarne. Almeno ho qualcuno con cui prendermela, no?»
«E anche se ti ho dato del “porco maiale” quando Susanna raccontò a tutti che ti eri fatto la sua migliore amica?»
Stavolta incrociò le braccia al petto. «In fondo me lo meritai. E poi, grazie a quello che successe ho conosciuto Laura.»
Scoppiai a ridere e, in un impeto di affetto nei suoi confronti, lo abbracciai. Emanuele fu spiazzato da quel gesto decisamente non da me e si scostò imbarazzato, brontolando qualcosa a proposito di un favore che mi doveva per averlo ospitato. «Adesso però sbrigati a telefonare a tua madre, prima che chiami davvero la polizia.»
Mio cugino rimase giusto per un caffè, ma quel lasso di tempo bastò a svegliarmi dal torpore in cui ero caduta. Chiamai casa, mia nonna e persino Laura e accettai di buon grado tutti i rimproveri che mi fecero; anzi, mi sembrava quasi che ogni loro parola fosse un balsamo per le mie ferite. La mia famiglia mi voleva bene e si preoccupava per me, e io dovevo ricambiare quella fiducia dando il meglio in quell'unica cosa che ero in grado di far bene: studiare.
Quando Emanuele andò via dopo un'ultima occhiata silenziosa al mio computer chiuso sul tavolo della cucina, aprii le finestre per arieggiare l'ambiente chiuso da tre giorni – sebbene, a conti fatti, in casa entrassero soltanto folate di vento bollente – cambiai le lenzuola, mi feci una doccia che durò mezz’ora, per eliminare anche il più piccolo residuo di quelle giornate buie e, dopo tre giorni di quasi totale digiuno, mi preparai un pasto decente.
Era ormai sera ma, dopo tutto quel tempo a letto, ero vigile e piena di voglia di fare, perciò accesi il portatile per continuare a lavorare; prima di dedicarmi alla mia tesi, decisi di dare uno sguardo alle mail e con mia grande sorpresa vi trovai una della Gallo.
Per un attimo, il cuore iniziò a battermi all'impazzata, perché temetti che volesse parlarmi del figlio; successivamente, mi resi conto che sarebbe stato alquanto improbabile che Giulio le avesse raccontato quello che era accaduto tra noi e lessi il messaggio. Come avevo immaginato, il testo non c'entrava nulla con lui: la professoressa mi pregava di andare da lei il giorno successivo, perché aveva questioni urgenti di cui parlarmi; aveva anche cercato di raggiungermi tramite cellulare, ma non era riuscita a contattarmi.
Invece di spaventarmi, questa missiva mi spinse ancora di più a lavorare di buona lena per riprendere in mano la mia vita.


La prima cosa che feci quando mi ritrovai di fronte la professoressa Gallo fu dirle che mi dispiaceva, ma non potevo più fare lezione a suo figlio.
Ero sicura che la donna mi avrebbe riempito di domande o, comunque, avrebbe cercato di carpire cosa mi avesse portata a una simile decisione, magari indagando se la causa fosse da imputarsi a qualche scontro con suo figlio, perciò mi ero preparata un discorso sul fatto che Giulio avesse fatto molti progressi e che, quindi, non aveva senso continuare insieme, ma che avrebbe potuto proseguire da solo.
Con mia grande sorpresa, però, lei mi guardò un attimo, come se avesse voluto chiedermi qualcosa, ma non mi disse nulla. Per una frazione di secondo mi domandai se, in realtà, già non ne fosse a conoscenza: magari Giulio si era confidato con Margherita e la donna le aveva riferito qualcosa – dubitavo che il figlio avesse parlato direttamente con la madre – oppure Andrea aveva raccontato qualcosa ad Antonio e lui ne aveva discusso con la mia docente; tuttavia, qualunque fosse la verità, non mi importava: ero decisa a lasciarmi indietro quella storia e il fatto che la professoressa non fosse interessata ai motivi che mi spingevano in quella direzione mi faceva solo piacere.
«Mi dispiace, Lucia» dichiarò «Mio figlio ha tratto molto giovamento dalla sua compagnia e non parlo solo dal punto di vista accademico, ma anche umano. Ed è quello che speravo quando le ho proposto di dargli lezioni, in effetti. Lo sa che negli ultimi giorni si è messo a studiare per la prova? Me l'ha detto Margherita. E io stessa l’altro giorno l’ho sentito persino parlare con suo padre senza che scoppiasse una lite. Perciò la ringrazio dal profondo del cuore per quello che ha fatto per lui finora.»
«Ah. Sono contenta.» Ero sincera: malgrado tutto quello che era accaduto tra noi, ero felice che avesse preso sul serio il proprio impegno e che la situazione in casa Molinari fosse migliorata. Se possibile, questa notizia mi diede ancora più determinazione a proseguire per la mia strada: adesso toccava a me dare una svolta alla mia vita, laureandomi e cercando di costruirmi il futuro che sognavo.
Ma non era per parlare di suo figlio che la professoressa mi aveva convocata e ci mise pochi minuti ad arrivare alla questione che più le premeva: la professoressa Galanti era rimasta entusiasta dalla sinossi della mia tesi e voleva leggere tutto l'elaborato, una volta che mi fossi laureata.
«Le sue argomentazioni l'hanno colpita molto e vorrebbe discuterne con lei il prima possibile. Perciò, sono del parere che dopo la laurea riceverà un invito ufficiale da Carlotta. E, ma questo glielo dico in confidenza, se il lavoro le interesserà come penso accadrà, anche una borsa di studio per un dottorato alla Sorbonne.»
Se non fossi stata già seduta davanti a lei, ero più che sicura che mi sarei accasciata da qualche parte. Durante quei giorni, a causa di Giulio, avevo rimosso dalla mia mente il fatto che Carlotta Galanti avesse tra le mani l'abstract della mia tesi di laurea e, quindi, non avevo compreso appieno quali sarebbero state le conseguenze qualora il mio lavoro avesse incontrato il suo interesse.
Davvero i farfugliamenti – motivati da citazioni e collazioni, ovvio – di una ragazzina che aveva avuto questa strana idea fin dal liceo, quando si era imbattuta nelle tragedie di Seneca, durante una normalissima lezione di latino che i più avevano trovato noiosa, mi avrebbero condotta a studiare a Parigi? Non potevo crederci.
Certo, la professoressa poteva anche leggere la tesi completa e rendersi conto che, in realtà, le mie considerazioni erano meno interessanti di quanto avesse pensato in un primo momento, ma il punto non era quello: la professoressa Galanti, una latinista di fama internazionale, avrebbe letto la mia tesi di laurea, avrebbe potuto confutare tutte le mie teorie o dirmi che avevo aperto una nuova strada mai battuta. E questo, per un aspirante ricercatore, vale più di qualsiasi altra cosa.
Non avevo ancora intenzione di comunicare a nessuno la novità, neanche alla mia famiglia, proprio perché non c'era nulla di certo, ma a quanto pareva in quella biblioteca non erano solo le notizie sulla mia vita privata a viaggiare alla velocità della luce perché, quando uscii dalla stanza della professoressa, trovai Andrea e Claudia che mi stavano aspettando raggianti.
«Allora, doc, possiamo averla tutta per noi per qualche ora oppure è troppo occupata a diventare famosa per perdere tempo con due ignoti compagni di corso?» mi prese in giro Andrea.
«Non è ancora... ma voi, come fate a saperlo?» fu l'unica cosa che riuscii a chiedere. A quanto ricordavo non avevo raccontato a nessuno dei due neanche il fatto che la professoressa si fosse messa in contatto con Carlotta Galanti.
Andrea parve offeso: «Ehi, credi che avere una relazione, per quanto ancora parecchio complicata, con qualcuno così addentro non abbia i suoi risvolti positivi?»
«Non urlare!» mi guardai intorno circospetta «E se qualcuno dovesse sentirti?»
«E chi se ne frega? Non ho mica fatto nomi! Su, dài, andiamo a festeggiare!»
«Ma non è sicuro niente!» obiettai «E poi abbiamo una tesi da terminare e...»
«Avanti, piantala!» mi zittì prendendomi per un braccio, mentre Claudia, che non aveva ancora pronunciato una parola, si portò dall'altro lato e non mi mollarono finché non arrivammo al bar.
Con mio grande sollievo, mi resi conto che, per fortuna, non eravamo nello stesso posto in cui io e Giulio avevamo avuto la nostra prima, vera conversazione, quando in seguito fummo raggiunti dai suoi genitori.
«Cosa prendete?» ci chiese Andrea dopo che ci sedemmo sotto il gazebo esterno del locale, protetto dalle intemperie da un soffitto di plastica e sorretto da una struttura di legno.
Guardai verso l’interno del locale, che dalla nostra postazione si riusciva comunque a intravedere, e diedi una rapida occhiata al bancone su cui era disposta una quantità enorme di dolci. «Non saprei. Qualcosa al cioccolato.»
«La tua passione per la cioccolata a volte mi lascia senza parole: persino a luglio, quando tutti preferiscono un dolce alla frutta, tu, imperterrita, vuoi il cioccolato.»
Storsi la bocca: «Di frutta a casa ne ho anche troppa, grazie» ricordai il cassetto del frigorifero ancora pieno e mi sentii male «Anzi, se ne volete un po', da me ce n'è quanta ne volete.»
«Anche pesche?» mi prese in giro Andrea.
«Soprattutto pesche» ricambiai e scelsi una mousse al cioccolato che, almeno da quanto riuscivo a vedere, mi sembrava molto allettante; Claudia, invece, preferì una granita alla menta e Andrea, con un inchino divertito, entrò nel locale per ordinare, senza aspettare l’arrivo del cameriere.
«Che idiota» non riuscii a non commentare, ridendo; poi, spostai la mia attenzione su Claudia che da quando ci eravamo incontrate non aveva parlato quasi per niente.
«Come stai?» provai, cercando di essere il più delicata possibile: dopotutto, anche lei non stava passando un bel periodo e non volevo forzarla a parlare, se non avesse voluto.
«Bene,» mi rispose senza guardarmi, intenta a giocherellare con la scatoletta che conteneva le bustine dello zucchero. «Molto bene, a dire il vero.»
«Davvero?» Ero sinceramente contenta per lei.
«Sì. L'altro giorno... io e Massimo ci siamo visti e mi ha raccontato un po' di cose. Non pensavo che avesse vissuto una simile esperienza. Sai, la storia di suo padre» annuii per dimostrarle che sapevo di cosa stesse parlando. «e mi ha spiegato che cosa significhi per lui quel tirocinio. Oh, Lu', mi sono sentita così egoista: non avevo capito quanto stesse soffrendo, avevo pensato solo a me!»
Gli occhi le si riempirono di lacrime. Oh, cavolo. Dov'era Andrea quando serviva? Era lui che riusciva a gestire l'ipersensibilità di Claudia, non io; tuttavia, in quel momento, il nostro comune amico era intento a cercare qualcosa per sé e ci stava ignorando.
«Non dire sciocchezze. Tu sei la persona più buona e gentile che io conosca. È solo che Massimo è un uomo e come tale tende a non parlare molto di sé. Credimi, mio padre è identico. Gli uomini dicono che noi donne siamo complicate, ma non è vero: è che non possiamo leggere nella mente di nessuno, e quindi tendiamo a farci un sacco di film per interpretare la realtà che, spesso, è molto più semplice di quel che pensiamo.»
Claudia adesso era a disagio e pensai subito di aver detto qualcosa di sbagliato. Lanciai un'occhiata ad Andrea: era ancora in coda alla cassa.
«Sai... Giulio l'altra sera mi ha detto le stesse cose.»
«Ah.»
«È stato così gentile, mi ha dato un sacco di consigli... un punto di vista maschile, diciamo, e questo mi ha permesso di vedere il problema da un'angolazione diversa.»
Non avevo idea di cosa dire e perciò preferii tacere. Claudia tuttavia dovette interpretare male il mio silenzio, perché mi allungò la mano sul tavolo e «Mi dispiace, non volevo toccare un argomento così delicato per te.» si scusò.
Scossi la testa, stringendole la sua mano nella mia: «No, Claudia. Sono felice che le parole di Giulio ti siano state d'aiuto. Sul serio. Solo perché tra noi le cose sono finite in questo modo, non significa che quel che c'è stato di buono debba essere cancellato.»
«Lo so. È che... a me è sembrato così innamorato di te, perciò... mi dispiace così tanto.» Adesso Claudia sembrava quasi più giù di me per quella questione, ma per fortuna Andrea tornò con le nostre ordinazioni e dirottai in fretta la sua attenzione su come fosse possibile che un essere umano potesse mangiare una coppa di gelato tanto grande.
«Ha parlato la donna che vive di cioccolato!» mi punzecchiò «Diventerai una balena.»
Gli feci una linguaccia e, per tutta risposta, mi protrassi nella sua direzione per immergere il mio cucchiaino nella panna che ricopriva il caramello.
Andrea allontanò la coppa dalla mia portata quasi schifato: «Ehi, è mia!»
«Beh, che c'è? Visto che diventerò una balena, volevo evitare anche a te questo triste destino, aiutandoti con quella panna.»
Claudia scoppiò a ridere, ma Andrea non parve gradire il mio aiuto. «Non posso lasciarti da sola ad affrontare tutto ciò, quindi mi sacrifico volentieri.»
«E Antonio è d'accordo?»
«Oh, credimi,» Andrea mi lanciò un’occhiata maliziosa «Ad Antonio un po’ di grasso nei punti giusti non dispiace per niente; tutt’altro
Claudia si coprì il volto con le mani, arrossendo; io scoppiai a ridere con una tale forza che iniziai a lacrimare.
«Perciò,» sogghignò soddisfatto dalla mia reazione. «gradirei se lasciassi la mia panna in...» le parole gli morirono in gola e il sorriso scomparve dal suo volto.
Io e Claudia seguimmo il suo sguardo e il sangue mi si gelò nelle vene: sulla soglia del bar c’era Giulio con una ragazza mai vista prima: aveva una chioma rosa con le punte bianche e un abbigliamento piuttosto sgargiante. Per un attimo temetti che ci vedesse ma, per fortuna, il cameriere li condusse subito verso l’interno; del resto, Giulio era troppo intento a comportarsi da cavaliere, invitando la dolce pulzella a entrare per prima, per accorgersi di noi.
«Pare che si sia ripreso subito,» commentai più acida di quanto avessi voluto.
«Mi dispiace, Lu'. Ho scelto questo bar proprio perché pensavo che...»
Scossi la testa: non aveva motivo di agitarsi così, gli dissi; del resto, anche se non ci fossimo più incrociati all'università, prima o poi avrei finito per incontrarlo, visto che la movida barese si concentrava più o meno sempre negli stessi luoghi, era solo questione di tempo; anzi, ero contenta che questo momento fosse giunto mentre ero con i miei migliori amici, mangiavo cioccolato e facevamo battute cretine.
«Se vuoi andiamo via,» propose Claudia con cautela.
«Vuoi scherzare? E devo abbandonare questa mousse spettacolare per un idiota? Neanche per sogno!» e assunsi l'espressione più contrariata che potessi.
Claudia rise rincuorata, ma da sotto il tavolo sentii il ginocchio di Andrea toccare il mio. Ricambiai il movimento, decisa a ignorare quel dolore sordo che sentivo nel petto e mi convinsi che andava tutto a meraviglia: avevo degli amici fantastici, la mia famiglia mi voleva bene e Carlotta Galanti avrebbe letto la mia tesi di laurea. Cosa potevo volere di più dalla vita?
   
 
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