Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: Harriet    25/02/2020    1 recensioni
Un ragazzo rimane chiuso in un teatro.
Lui è un ragazzo con qualcosa da nascondere. Beh, anche il teatro ha qualcosa da nascondere.
Potrebbe essere l'inizio di qualcosa.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Masquerade'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Partecipa al COW-T di Landedifandom. Missione 2 "Ideali a cui ispirare". Prompt: Il Diavolo (inteso come uno degli Arcani Maggiori dei tarocchi. Alla fine della storie, due parole di spiegazione sull'interpretazione, e in generale sul personaggio e sul perché sto scrivendo di lui.)

TW: omofobia, linguaggio omofobo, violenze in famiglia


Tra la perduta gente
 
25 gennaio 1997
Firenze
 
            Fu il silenzio seguito al suo incontro con il pollo di gomma a fargli capire che qualcosa non andava.
            L’unica luce ancora funzionante dello stanzone metà magazzino e metà costumeria era semi-coperta dalla scenografia dello spettacolo delle scuole di dieci giorni prima: non erano ancora venuti a riprendersela. Non si vedeva niente, ma lui era sicuro di conoscere il percorso accidentato tra scatoloni, sgabelli, amplificatori, borsoni pieni di cavi, leggii sbilenchi e cumuli di stoffe tempestate di polvere e tarme. E invece non aveva calcolato il pollo. La sua scarpa si era posata sull’oggetto, che aveva diffuso nell’aria il suo acutissimo stridio, spezzando la quiete del teatro in procinto di addormentarsi. All’ululato gommoso erano seguiti il grido del suo scopritore involontario, poi una sua tenue risata. Poi il silenzio.
            Damiano si chinò per raccogliere il pollo. Era un relitto dello spettacolo della compagnia amatoriale valdarnese di un mesetto prima. Perché era in giro? Lo raccolse, irritato da tutte le mani incaute che entravano nel suo teatro e facevano casino, quando era lui, l’incaricato di custodire quel mondo buio, polveroso, umidiccio, forse anche un po’ tossico. In realtà i custodi erano in tre, e lui comunque era solo l’ultimo arrivato, un ragazzino con un part-time, assunto più che altro per compassione (o così a volte gli sembrava.) Ma Damiano sentiva qualcosa di difficilmente spiegabile, per quel posto. C’era qualcosa che si impossessava di lui quando percorreva i corridoi nel retropalco, o scendeva sotto, o restava da solo a pulire il palco, con la sala completamente vuota e la sensazione di non essere poi davvero così solo…
            Prese il pollo, deciso a trovargli un posto sensato, ma il silenzio lo inquietava. Olivia doveva esserci per forza. Trovò la porta che conduceva fuori da quell’area del teatro, che comprendeva magazzino/costumeria e camerini. Posò la mano sulla maniglia con un certo sollievo e spinse, ma gli rispose il frustrante movimento bloccato di una serratura chiusa a chiave. Ci riprovò di nuovo, incredulo, ma la realtà rimase la stessa. Il direttore voleva che le varie zone del teatro venissero tutte ben serrate. Nessuno aveva capito del tutto il motivo di quel rigore ma tutti obbedivano.
            La serietà del problema gli fu chiara a poco a poco. Non c’erano telefoni, in quell’area. Fare uno squillo a Olivia e informarla del fatto che aveva chiuso un idiota nei camerini era impossibile. Un brivido di panico gli rimbalzò tra il petto e lo stomaco. Si appoggiò con le spalle contro la porta e cercò di pensare a come tirarsi fuori da quel casino. Senza pensarci strinse la mano sinistra e gli rispose il pigolio della bestia di plastica. Damiano la scagliò via lontano.
            Si precipitò in uno dei camerini. Accese le luci e fu accolto da uno sfavillio di neon che gli mostrarono la stanza ordinata e linda come l’aveva lasciata una mezz’ora prima. La esplorò, pur conoscendola bene: non c’erano finestre né alcunché di utile per liberarsi.
            Di nuovo quel guizzo di panico. Ma perché, poi? Si trattava solo di passare lì la notte. Un’idea quasi divertente, no?
            Finì di esplorare i camerini, senza ottenere risultati migliori del primo. Così tornò nel magazzino, senza un motivo preciso. Se faceva qualcosa, aveva l’impressione di essere più vicino alla soluzione. La soluzione che non poteva essere passare la notte lì. Se suo padre avesse scoperto che quell’imbecille del suo secondogenito venuto male era stato tanto cretino da farsi chiudere dentro a un teatro, lo avrebbe ucciso. Odiava quel posto, odiava che Damiano ci lavorasse e ci seguisse dei corsi, odiava i teatri in generale perché nella sua testa erano popolati da tutte le tipologie umane che avrebbe volentieri eradicato dalla terra.
            I teatri sono posti da debosciati. I teatri sono pieni di snob merdosi. I teatri sono pieni da parassiti senza soldi che non fanno una sega tutto il giorno. I teatri sono pieni di froci. Che cazzo ci vai a fare?
            Che cazzo ci andava a fare era chiaro: a prepararsi il futuro. Mancavano sei mesi all'esame di maturità. Passato quello, avrebbe dovuto spiegare ai suoi che erano proprio i teatri, il posto dove intendeva passare il resto della sua vita. Aveva trovato una scuola di recitazione che gli piaceva lì a Firenze, e in contemporanea avrebbe frequentato Lettere Moderne. Non era certo l’università che suo padre avrebbe voluto per lui (Lettere è un posto di merda e quando uscirai da lì sarai un cazzo di disoccupato!), ma sperava che dedicarsi allo studio avrebbe un po’ ammascato il suo piano segreto di dedicarsi seriamente alla recitazione.
            Restava il problema dei soldi, perché col cazzo che gli avrebbero pagato università e corso di teatro. Intanto aveva quel part time e se lo teneva stretto. Qualcos'altro avrebbe trovato. Se la sarebbe cavata.
            Ecco, forse quello non era il momento migliore per perdersi in quel genere di pensieri. La sola idea della sua famiglia gli dava la claustrofobia. Pensare alla sua famiglia mentre eri chiuso dentro un teatro senza possibilità di uscita era veramente da deficienti.
            Si sbottonò la giacca, improvvisamente conscio di un altro problema. Aveva rubato una maglia a sua madre. Un indumento sottilissimo, quasi trasparente, rosa antico, con una cascata di brillantini. Non aveva mai preso una cosa che non fosse sua in diciannove anni di vita, ma quella sera si era sentito particolarmente coraggioso (o almeno, gli era parso coraggio) e aveva azzardato quel prestito senza chiedere. Non poteva presentarsi dai suoi la mattina seguente, avendo saltato la scuola per essere rimasto intrappolato in teatro, e vestito in quel modo.
            Non poteva succedere.
            Non poteva succedere, non doveva succedere, non doveva pensarci, non...
            Ma da dove cazzo gli veniva, quella straordinaria capacità di farsi dei film dettagliatissimi ispirati all'ipotesi peggiore? Ah, quanto gli piaceva, immaginare le disgrazie che potevano capitargli, e figurarsele in tutto il loro catastrofico splendore! Forse era un modo per addomesticarle, per smettere di avere paura del peggio. Oppure lui era solo molto stupido, con una spiccatissima vena di masochismo.
            Se avessero scoperto cos'aveva combinato e com'era vestito...
            (No, ti prego, non ci pensare, non lo fare, serve solo a farsi del male)
            Suo padre sarebbe esploso. Letteralmente. Non c'era un'altra parola per definirlo. Non era mai stato particolarmente delicato con i figli (specialmente con il secondogenito venuto male) ed era sempre stato dell'idea che due schiaffi e qualche urlo sconclusionato, punteggiato di parolacce, fossero un ottimo metodo educativo. Ma c'erano cose di Damiano che non sapeva, ed era bene che continuasse a non saperle, perché altrimenti...
            (Perché devi andare lungo questa strada? Non puoi pensare a qualcos'altro? Vuoi davvero trascorrere tutta la notte con questa roba in testa? Davvero? Tutta la notte a immaginare cosa succederà, quando finalmente tuo padre scoprirà che sei parte della sua categoria preferita - i froci di merda, e tra l'altro quelli a cui piace pure vestirsi da donna?)
            Ma l'immagine era già lì piantata nella sua testa. C'erano tutti - suo padre, sua madre, Sergio e Simone, ed erano nell'atrio di casa, e lo guardavano, con la sua maglia rosa, e...
            E allora? Cosa poteva succedere di tanto più brutto del solito? Suo padre aveva la consapevolezza di avere un figlio sbagliato (d'accordo, non sapeva ancora quanto, ma...) Per sua madre, il suo secondogenito era praticamente il diavolo. Sergio ormai da anni non gli si rivolgeva senza aggiungere un po' di scherno o ironia a quel che gli diceva. Restava solo Simone, ma quanto ci sarebbe voluto, per tirarlo dalla loro parte e metterlo contro Damiano?
            E allora, se proprio dovevano venire a scoprire quando Damiano fosse stupido e sbagliato, tanto valeva far avverare quella visione e andare a casa, bello tranquillo, il giorno dopo, vestito in quel modo, confermando tutti i loro sospetti ed eliminando una volta per tutte l'angoscia di dover vivere di nascosto.
            (Cosa stai dicendo? La claustrofobia ti sta fottendo il cervello. Sempre che ci fosse rimasto qualcosa da fottere, in quel casino di merda che hai in testa. Ora trova un modo per uscire da qui!)
            Ma non c'era, un modo. C'era solo il magazzino e la prospettiva di passarci la notte.
            Se non ci fosse stata tutta l'angoscia per quello che lo aspettava a casa, si sarebbe divertito. Quello era il suo posto, di tutto il teatro. Soprattutto il reparto costumeria.
            Un brivido gli carezzò gentilmente la schiena. Cos'era stato?
            Forse solo un ricordo. I suoi occhi trovarono lo specchio, quello da cui era cominciato tutto, e si fermò a guardare. Per un attimo non vide il se stesso di adesso - capelli lunghi, maglia rosa carica di glitter, matita nera intorno agli occhi, un ultimo accenno di rossetto che ormai si era quasi del tutto mangiato. No: vide il se stesso di tre settimane prima.
            Si ricordava ogni singolo istante. Il suo turno pomeridiano doveva essere dedicato alla pulizia della costumeria, e lui aveva svolto il suo lavoro con la sua abituale cura. Aveva finito presto. Mancava una mezz'ora al momento di uscire e aveva deciso di dedicarla a curiosare tra i vestiti conservati in quattro grandi armadi e una decina di espositori coperti con il nylon.
            Le sue mani che passavano tra i capi e toccavano cotone, seta, raso, tela grezza, busti steccati, rigide gorgiere, tulle ruvido, taffetà morbidissimo, organza sfuggente... Sapeva i nomi delle stoffe, glieli aveva insegnati Anna, la costumista della compagnia legata a quel teatro. Era affamato di tutto ciò che la donna gli poteva insegnare al riguardo.
            A un certo punto aveva toccato un abito viola di una stoffa sintetica che scivolava via dalle dita. Lo aveva tirato fuori dall'espositore per guardarlo meglio. Era un abito da sera vintage, ispirato allo stile degli anni Venti. Era bellissimo.
            L'idea era folle, sì, però quando un'idea ormai ti è venuta, è difficile cacciarla via.
            Era sempre stato magrissimo e l'abito gli andava perfino un po' grande, ma questo non aveva cambiato l'effetto.
            Si era vestito.
            Si era guardato allo specchio.
            Si era riconosciuto.
            Chiuse gli occhi per staccarsi da ricordo. Solo che ormai non c'era niente da fare: era successo, lui si era guardato e aveva capito, e ora niente sarebbe mai più stato come prima.
            Con gli occhi ancora chiusi, fece un passo indietro e il piede gli si incagliò nella maledetta scenografia abbandonata dalla cazzo di scuola, quell’enorme coso che occupava praticamente metò stanza. Non riuscì a liberarsi e crollò all’indietro, in un tripudio di carta e cartoncino sfasciati. Finì col sedere per terra e a quel punto si lasciò andare fino a toccare il pavimento con la testa, disteso su quel letto cartaceo, a fissare la scena danneggiata. Era il rimasuglio della recita di una scuola media, una riscrittura della Divina Commedia. Quella era la porta dell’Inferno, come se la immaginava un branco di dodici-tredicenni dalla fantasia ipertrofica: tutta rossa e fiammeggiante. Falde di carta velina scarlatta gli lambivano la faccia.
            Respirò a fondo. Cercò di ridere. Stranamente appropriato, l’Inferno. Chissà come sarebbe stato, rimanere chiuso proprio nell’Inferno, nella sua versione dantesca, ovviamente, con fiamme e tormenti. Chissà se sarebbe stato claustrofobico anche lì dentro. Doveva chiederlo a sua madre, che era la religiosa di casa. Una religiosa molto particolare, certo, una religiosa adeguata allo stile aggressivo della famiglia e, secondo Damiano, con un'idea molto confusa della fede che sosteneva di professare. Sarebbe stato interessante, però, chiederglielo. Come pensi che sarà, l'inferno?
            Sei convinta che ci finirò per davvero?
            Perché mi faccio queste cazzo di domande?
            Sarà che, in fondo, ho paura che abbiate ragione voi?
            Qualcosa gli sfiorò la pelle del viso. Scattò a sedere, il respiro congelato tra i denti. Si passò la mano sulla guancia e la ritrasse, quasi convinto di trovarla macchiata, ma naturalmente non fu così. Però lui era sicuro che ci fosse stato qualcosa. Sicuro come di un sacco di altre cose che aveva intravisto lì dentro, cose che vedeva e sentiva solo lui.
            Si alzò in piedi e si guardò attorno.
            Qualcos'altro, di nuovo, sembrò danzargli attorno. Uno sbuffo di vento freddo, ma delicato, gli guizzò sulla mano e sembrò infilarglisi dentro la manica. Trasalì e si mosse come per seguire quella presenza.
            Di nuovo, un altro tocco. Se non fosse stato già abbastanza ubriaco di angoscia, forse avrebbe ragionato lucidamente, ma in quel momento era disposto anche ad accettare che ci fosse una presenza, lì, e che volesse comunicargli qualcosa. Così seguì quel tocco persistente, andando verso la direzione da cui sembrava provenire.
            E allora la vide.
            Nascosta in parte da una scaffalatura pencolante c’era una finestra. Era alta e piccola, con un vecchio vetro impolverato oltre il quale si intravedeva il buio notturno. Doveva essere al livello della strada. Non era sicuro di passarci. E poi cos’avrebbe fatto? Le chiavi le aveva nella tasca della giacca. Non poteva tornare a casa e suonare il campanello in quelle condizioni. Avrebbe dovuto cercare qualche amico che non lo mandasse a farsi fottere per direttissima e lo aiutasse.
            Tutti problemi secondari. La finestra era l’unica cosa importante. Saltò fuori dall’Inferno e cominciò a spostare i pezzi di quel labirinto instabile che lui conosceva come nessun altro. Smosse la scaffalatura quel tanto che bastava per liberare la finestra e vi spinse sotto una pila di sedie. Ci si arrampicò sopra, sporcandosi di polvere e di altro sudiciume ancestrale. Le dita raggiunsero la maniglia, che fece un po’ di resistenza ma alla fine cedette. E pensare che il direttore che faceva chiudere così meticolosamente il suo teatro forse ignorava quel passaggio clandestino!
            Si issò sul davanzale e iniziò a strisciare dentro all’apertura. Suo padre gli diceva sempre che faceva quasi schifo, magro com’era, ma in quel momento si sentiva enorme. Poi riuscì a far sbucare le spalle dall’altra parte, e dopo trascinò tutto il resto del corpo in un baleno.
            Rotolò sull’asfalto che puzzava di piscio e di alcol. Qualcuno, dal buio, lasciò andare una bestemmia. Si rialzò e si guardò attorno, ritrovando le coordinate del posto.
            C’era tutta una serie di problemi da risolvere, sì, ma intanto era fuori.
 
            «Ma cos'hai fatto?»
            «Niente.»
            «Niente? Ti sei fatto sentire!»
            «Lo volevo aiutare.»
            «Lo volevi aiutare? Ma che te ne frega?»
            «Lo hai visto, no? Non è una persona come le altre. Lui vede qualcosa, qui. Si accorge che non è un posto comune. Forse ci sente.»
            «Non credo proprio...»
            «Dici? E invece... Non lo so. Insomma, non ho fatto niente di che. Gli ho solo dato un aiutino per alzare un po' lo sguardo e notare la finestra. Non è nulla di irreparabile.»
            «Si comincia così e si finisce per farsi vedere...»
            «E allora? Anche se fosse? Tu ti sei fatta vedere da un attore, una volta.»
            «Tanti anni fa! Erano altri tempi!»
            «E che c'entra?»
            «La gente di oggi non mi piace.»
            «Ma lui è strano.»
            «E quindi?»
            «Mi piace perché è strano. Secondo me sarebbe contento, di conoscere tutti quelli che abitano qui.»
            «Rivelarsi porta sempre rogne. E comunque siamo in otto. Dovremmo discuterne.»
            «Va bene, va bene. È che... Stava così bene, con il vestito viola...»
 
 
 
***

 Grazie per aver letto questa storia. Dovrebbe essere la prima di una serie su questo personaggio e sulla persona con cui da un certo punto in poi condividerà la sua vita (che non è il fantasma che si è visto alla fine, anche se pure lui sarà importante.) Quindi, se tutto ciò vi ha incuriost*, c'è altra roba in arrivo, sempre a tema sovrannaturale, con luoghi infestati, spettri e mostri, magie nascoste tra le strade di Firenze. E un sacco di problemi e drammi per i protagonisti.

Riguardo all'interpretazione del prompt, ovvero il Diavolo dei tarocchi:
- ho usato un'interpretazione letterale, in quanto Damiano è convinto che sua madre lo consideri "il diavolo"
- c'è la simbologia dell'Inferno
- a livello di significato nei tarocchi, da quel che ho capito, la carta del Diavolo indica i nemici, sia esterni che interni a ciascuno
- l'iconografia del diavolo è molto androgina, altro tema qui ben presente

Alla prossima!





Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.  
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Harriet