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Autore: Adeia Di Elferas    25/02/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La palla di cannone partita dalla rocca di Ravaldino era atterrata, con grande fragore, nell'orto della chiesa di San Francesco, dove un ignaro frate stava facendo due passi per stemperare l'ansia di quelle ore concitate. L'uomo quasi non capì quello che era successo, ma, mentre ruzzolava al suolo, scosso dal tremito del terreno dovuto all'atterraggio del proiettile, capì subito di essere stato un miracolato.

Il panico che quel colpo creò fu immediato. Tuttavia la piccola folla radunata in piazza non ebbe né il tempo né la prontezza di disperdersi, e, quando arrivarono altri colpi, stavolta diretti alla Torre del Pubblico, i forlivesi erano ancora lì a vedere quel simbolo cittadino – su cui ancora stavano i resti delle teste mozzate dei congiurati uccisi dalla Sforza – messo a repentaglio.

“Non temete! Non temete!” il grido di Nicolò Tornielli e dell'altro che era stato con lui alla rocca attirò l'attenzione dei presenti, tra un boato a l'altro.

In molti, nel vederli arrivare sani e salvi, dopo averli creduti già morti tra le grinfie della Tigre, si abbandonarono a esclamazioni di giubilo, dimenticando, perfino, i colpi di cannone.

“Non temete!” ribadì Tornielli: “Questo non è per noi! Ma per far capire ai nemici che l'abbandono della città non ha mutata né intimidita Madonna! E che essa è più ardita e più risoluta di prima!”

Quasi a dar ragione all'ex Capo dei Magistrati, dopo appena altri due colpi, l'artiglieria smise di far fuoco.

“Ma come fate a dire che la Contessa non vuol colpire noi?!” gridò uno, tra la folla, puntando il dito contro Nicolò.

In molti gli fecero eco, mentre il cielo scuro della notte, non più solcato dai proiettili di pietra della Sforza, si faceva di nuovo buio e tranquillo.

“Perché Madonna conosce meglio di noi tutti come far andare un cannone! E se avesse voluto ammazzarvi, vi giuro che l'avrebbe fatto!” sbraitò Tornielli: “Invece ha colpito dove non poteva nuocere! Per dare un messaggio ai francesi e a noi!”

Ci volle qualche secondo, ma, poi, le parole del forlivese parvero fare breccia nell'animo dei suoi concittadini e, in breve, tutti furono d'accordo con lui e vinsero ogni timore.

“Ebbene – prese in mano la situazione Numai, che moriva dalla voglia di poter discutere in santa pace con Tornielli di quello che lui e la Leonessa si erano detti – ora chiedo al Consiglio dei Venti e agli Anziani di seguirmi a palazzo, ché dobbiamo discutere i capitoli della resa.”

 

“Insomma, se non si hanno notizie della loro partenza, significa che i suoi figli sono ancora con lei.” stava dicendo Cesare, aggirandosi nervoso nel suo padiglione: “E dubito fortemente che li farà andare via adesso, che il nostro esercito è alle porte della sua città.”

Onorio Savelli si disse d'accordo e, anzi, rincarò: “Sicuramente è per quello che ha fatto sparare i cannoni sulla città. Mi ci gioco la testa che il nuovo governo ha minacciato di prenderle i figli!”

Giampaolo Baglioni, invece, non diceva nulla. Gli sembrava assurdo essere ancora tutti in piedi attorno a un tavolo a discutere delle decisioni imponderabili di una donna. Capiva le ansie del Borja, che aveva avuto ordine da suo padre di uccidere non solo la Sforza, ma anche tutti i di lei figli, per evitare di incappare, un giorno, in una vendetta. Però, da lì ad attribuire a ogni mossa della Contessa una valenza precisa, ne passava...

“Dobbiamo attaccare immediatamente Ravaldino!” la voce di Achille Tiberti fece girare tutti di scatto.

Il mercenario era entrato all'improvviso, camminando svelto, con gli occhi sgranati a una furia addosso che lo faceva quasi tremare. Il Valentino gli dedico un lungo sguardo interrogativo e così il cesenate fu costretto a calmarsi e a spiegarsi come meglio poteva, per non passare per pazzo.

“Perdonate tutti i miei modi – disse, rivolgendosi solo al Duca – ma io più di tutti voi conosco il cuore invicibile di Madama e perciò so che, alla vista di un esercito così numeroso e che le sta quasi addosso, il comportarsi di Madama va ascritto a temerarietà e non a coraggio!”

“E quindi?” domandò Cesare, non senza una punta di sincera preoccupazione.

“E quindi non possiamo sapere cosa farà. Non ha una logica che si possa comprendere, a meno che non si ragioni come una belva ferita.” cercò di spiegare Achille: “Potrebbe fare qualsiasi cosa e quindi va fermata prima che lo faccia.”

“E la città?” chiese, con voce bassa, l'Aubigny, che se ne stava un po' in disparte, osservando tutti gli altri come se fosse davanti a delle marionette buffe: “Che fa? Le dà contro? Le dà ragione?”

“Sembrano sicuri che lei non farà loro del male.” spiegò Tiberti, che aveva potuto vedere coi suoi occhi la calma innaturale della folla, già una mezz'ora dopo i colpi di cannone: “E il Consiglio dei Venti ha scelto Bernardino Mangianti e Francesco Rossetti come Guardiani della Piazza.”

“Guardiani della Piazza...” soppesò il Valentino, stringendo gli occhi e fissando Achille: “E da che dovrebbero guardarsi? Dalla Sforza avete detto di no... Da me?”

“Non l'ho capito di preciso.” tentennò il mercenario: “Forse... Forse temono disordini interni.”

Il Borja strinse le labbra e poi, con lo sguardo che si accendeva di una luce infida, sollevò appena l'angolo delle labbra e sussurrò: “E allora che vengano messi alla prova.”

 

“Ma si può sapere che accidenti succede?” Luffo Numai corse alla finestra del palazzo Riario e cercò di capire quello che la folla stava dicendo.

Si trattava perlopiù di contadini, in particolare quelli che non avevano rispettato l'ordine della Sforza ed erano rimasti in campagna fino a quel momento. Era strano vederli in massa nella piazza della città, sotto al cielo funereo di quel 16 dicembre, gridando frasi sconnesse e difficili da cogliere.

“Portatemi qui un loro rappresentante...” decise in fretta Numai, per paura che potesse scoppiare qualche tumulto serio: “Voglio sapere che hanno da gridare a quel modo...”

Nel salone del palazzo erano ancora riuniti gli Anziani e i venti Consiglieri del nuovo governo e tutti quanti, quando Luffo diede il suo ordine, si trovarono d'accordo: la situazione andava tenuta sotto controllo.

“Vediamo se per caso c'entra qualcosa l'arrivo di quel Bentivoglio...” borbottò Luffo, tornando a sedersi a capotavola.

Ercole Bentivoglio era arrivato a Forlì quella mattina, presto, e aveva sistemato il suo seguito personale di soldati alla Villa della Pianta. La sua era stata la prima vera propaggine dell'esercito del Borja a entrare in città e, dunque, credeva Numai, poteva essere stato un motivo di malumore.

“Oh, eccovi qui.” disse il forlivese, quando si vide arrivare davanti due contadini, mal vestiti e le labbra ancora sollevate a mostrare i denti, come fossero belve inferocite.

Bastò, tuttavia, uno sguardo del Capo Gonfaloniere di San Mercuriale, per trasformarli in animaletti spaventati e molto intimiditi da coloro che stavano loro attorno. All'improvviso, benché fossero armati di randelli e roncole, i due contadini si sentirono piccoli e senza possibilità di farsi ascoltare.

“Avanti, diteci cosa vi ha portato qui...” li incoraggiò Luffo, capendo di avere il coltello dalla parte del manico.

“Abbiamo saputo dei capitoli della resa...” cominciò a dire uno dei due.

“Da chi?” chiese il forlivese, sapendo che i capitoli della resa, stilati nottetempo, erano noti solo al loro Consiglio e al Borja, che, ormai, doveva averli ricevuti.

“Noi...” farfugliò l'altro, cercando sostegno nel compare, che era a un passo dal dire che dei soldati francesi erano arrivati nelle loro campagne, sobillandoli con parole di fuoco.

“Non importa...” tagliò corto Numai: “Andate avanti.”

“Noi... Noi vogliamo parlare con il Duca!” prese coraggio il contadino, avvertendo una certa morbidezza nei modi del suo interlocutore: “Noi vogliamo parlargli per fargli intendere che voi ricchi cercate per voi tutte le esenzioni, per godere di una vita nell'ozio, non curandovi di noi poveri, se non per approfittare delle nostre fatiche e per succhiarci il sangue!”

Il Capo Gonfaloniere si appoggiò con lentezza allo schienale della sedia, e chiese: “E quindi, di preciso, che intendete dire al Duca di Valentinois?”

“Che bisogna liberare finalmente il contado da tutte le tasse, da tutte le angherie e trattare una buona volta i poveri come i ricchi!” sbottò il contadino.

“Madonna Sforza vi aveva alleggeriti pressoché da ogni tassa, difendendovi ampiamente dai soprusi, eppure l'avete rinnegata.” ricordò loro Numai: “Quindi credete che un francese sia meglio?”

“In Francia – prese la parola quello che non aveva ancora aperto bocca – i contadini pagano una specie di testatico, e niente altro!”

“Non dite sciocchezze!” si intromise uno degli Anziani.

“Non dico sciocchezze, siete voi che lo fate!” rimbeccò il contadino, sollevando la roncola.

Quel gesto, improvviso e potenzialmente pericoloso, fece scoppiare il caos nel salone. Nemmeno Luffo riusciva a far tornare la calma, così si ridusse alle maniere forti, chiedendo ad altri Consiglieri di aiutarlo a limitare i danni facendo uscire i due contadini.

Nel frattempo, in piazza i ribelli ribollivano come un calderone, le loro grida si inseguivano e qualcuno, spinto dalla rabbia del momento, cercava anche di forzare il blocco della nuova Guardia di Piazza, che poco poteva, con i suoi miseri volontari, contro una ressa inferocita.

 

Caterina era stata richiamata dai suoi soldati sui camminamenti. Era chiaro che in città ci fosse qualche disordine, ma dal tipo di urla che si sentivano arrivare alla rocca, non doveva trattarsi di un attacco nemico, quanto più di un tumulto interno.

“Che cosa facciamo?” chiese, in un soffio, il Capitano Rossetti, che, come altri, aveva ancora parenti in città, e temeva come non mai di saperli morti per mano di altri forlivesi, prima ancora che per mano francese.

“Proprio nulla.” rispose Alessandro Sforza, accigliandosi: “Loro ci hanno voltato le spalle e noi faremo altrettanto.”

“Se il popolo si azzuffa per qualcosa di serio, dobbiamo saperne il motivo.” si intromise Scipione Riario che, di turno ai camminamenti, era stato richiamato dalla Tigre in persona, affinché desse anche il suo parere: “Io manderei un paio di squadre dei nostri per sedare il conflitto e capirne di più.”

“Non dite assurdità!” lo zittì Alessandro: “Non possiamo sprecare forze per una cosa simile!”

La Contessa li ascoltò ancora, mentre si rispondevano in modo sempre più velenoso, arrivando perfino a mettere in dubbio la legittimità di parola l'uno dell'altro, additandosi vicendevolmente di essere 'solo un figlio illegittimo di un Conte morto' e 'un milanese che non consce affatto Forlì e la sua gente'.

“Fate preparare un paio di squadre. Che escano subito e vadano a dividere la folla.” decretò la donna, rivolgendosi a Rossetti: “Cercate di capire che succede e se la situazione vi pare sotto controllo, o il motivo della contesa troppo sciocco, tornate indietro senza farvi problemi, altrimenti cercate di placare la collera del popolo.”

“Ma non sono più tuoi sudditi..!” protestò il fratello della Sforza, trovando quella decisione del tutto sbagliata.

“Lo sono eccome, invece.” ribatté la donna: “Che a loro piaccia o no, finché avrò fiato e finché questa rocca resterà in piedi, sono io la loro signora. Giurino fedeltà a chi par loro, ma se i figli litigano, la madre corre a dividerli e a riportare la pace.”

 

Le squadre mandate dalla Sforza si erano spinte fino alla parrocchia di Ravaldino, e avevano così raggiunto i tumultuosi. Si trattava, a prima vista, per lo più di contadini e il modo sconnesso in cui inveivano ora contro il nuovo Consiglio dei Venti, ora contro il vecchio governo della Tigre, diede da pensare ai soldati.

Uno dei loro coordinatori chiese alla truppa di provare a calmare la folla, dapprima con le buone, mentre lui cercava di capire cosa stesse succedendo. Mentre i suoi uomini si inframmezzavano alla plebe inferocita, il comandante prese da parte uno di loro, che sembrava meno bellicoso degli altri, e domandò in modo chiaro perché protestassero.

Appurato che tutte le loro recriminazioni riguardavano il mancato inserimento di un doveroso taglio delle tasse nei capitoli della resa da consegnarsi al Valentino, il soldato comprese che si trattava di una cosa di poco conto, destinata a sbollire non appena il nuovo Consiglio avesse fatto qualche altra promessa capace di calmare gli animi dei più agitati.

Le squadre mandate della Contessa, infatti, non riuscivano a fare granché, perché a ogni loro minaccia, seguiva dalla folla solo una rinnovata richiesta di ascolto, e così al comandante non restò che richiamarli tutti, gridando: “Questa è questione di poco conto e non di nostro interesse!” e, prima ancora che i contadini si rendessero conto di essere appena stati lasciati al loro destino, gli uomini della Leonessa stavano già tornando verso Ravaldino.

Dal palazzo dei Riario, invece, Luffo Numai continuava a guardare impensierito fuori dalla finestra, chiedendosi che si potesse fare. Il Consiglio e gli Anziani aspettavano come lui, quasi convinti che, alla fine, i poveracci che avevano osato alzare la voce contro di loro si sarebbero stancati da soli e se ne sarebbero andati.

Era un momento così surreale, che Numai si trovò quasi a rimpiangere altri momenti bui di Forlì, come la congiura degli Orsi o, ancor peggio, quella messa in atto dal giovane Ottaviano Riario. Se non altro, in quei frangenti, non spettava a lui prendere decisioni tanto importanti.

L'uomo stava ancora ragionando tra sé, quando vide due uomini farsi largo tra la gente. Riconobbe subito l'incedere tronfio e il grosso naso adunco di Achille Tiberti, mentre per l'altro ci mise un po' a ricollegare il volto al nome. In fondo, aveva visto Ercole Bentivoglio solo una volta.

I contadini lasciarono passare indenni i due uomini, forse anche per via delle loro armature lucenti e delle lunghe spade che portavano al fianco. Quando arrivarono nel salone, sia Tiberti sia il Bentivoglio si rivolsero immediatamente a Numai, ignorando tutti gli altri.

Il figliastro del signore di Bologna si mise proprio davanti al Capo Gonfaloniere di San Mercuriale e, incrociando le grosse braccia sul petto, per quel che la corazza gli permetteva, disse: “Avete intenzione di starvene lì senza far nulla?”

“Avete visto...” balbettò Luffo, additando verso la finestra: “Nemmeno... Nemmeno le squadre che ha mandato la Contessa hanno...”

“Contessa..!” sbottò Tiberti, piantandosi i pugni chiusi sui fianchi e guardando con aria minacciosa tutti i presenti: “Nessuno la chiami più così! Quella donna non è altro che una meretrice da strada, una strega che starebbe meglio in un bordello, che in un palazzo! Quella non è una che si debba chiamare Contessa! Il Santo Padre l'ha sollevata da ogni carica e da ogni onore!”

“Perdonatemi, è stato... Sono anni che...” si scusò Numai, abbassando lo sguardo e poi schiarendosi la voce: “Ma intendevo dire che nemmeno le armi li hanno placati... La Guardia di Piazza è del tutto inutile e io...”

“Lasciate fare a me.” borbottò il Bentivoglio, scansando di peso il forlivese e facendo un cenno a Tiberti affinché lo seguisse.

L'uomo si affacciò alla finestra, aprendola completamente e richiamò l'attenzione dei contadini con qualche suono disarticolato che spesso utilizzava anche per rimettere ordine tra i suoi soldati.

“Sappiamo quel che patite e quel che volete!” gridò, non appena ebbe l'attenzione di tutti: “Io sono Ercole Bentivoglio, figlio di Sante Bentivoglio e di Ginevra Sforza, moglie di Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, e sono qui per parte del Duca di Valentinois, il nobilissimo messer Cesare!”

Un brusio diffuso serpeggiò tra i presenti, più dovuto, forse, alla confusione data dalla lunga presentazione del condottiero, che non dal tono perentorio con cui stava parlando.

“Io e i qui presenti Achille Tiberti e Luffo Numai – riprese il bolognese, non appena anche il Capo Gonfaloniere si affacciò alla finestra – vi promettiamo solennemente che riscriveremo subito i capitoli, e che faremo dovuto conto di voi, delle tasse e d'ogni altro interesse!”

Quelle poche parole, dette con sicurezza e senza ammettere repliche, smorzarono in un soffio una rivolta che pareva ingestibile. I contadini si guardarono l'un l'altro, senza sapere cosa pensare e, alla fine, tutti tornarono a guardare in alto, verso Ercole.

“Resterete in città, come vi era stato già chiesto di fare, e poi giurerete anche voi fedeltà al vostro nuovo signore – riprese il Bentivoglio – e tutto andrà per il meglio.”

Detto ciò, si ritirò e, lasciata la finestra, sia lui sia gli altri attesero un momento, credendo di sentire la rivolta riaccendersi. Invece, convinti realmente dalla breve promessa del bolognese, i contadini si erano acquietati e, in buon ordine, si erano ritirati in cerca di un alloggio.

“Non possiamo rifare i capitoli...” si oppose Silvestro Miranda, visibilmente preoccupato: “Già così il nuovo sistema economico sta in piedi a stento... Se togliessimo le tasse...”

“Nessuno vuole che li riscriviate.” specificò Ercole, guardandolo di sottinsu: “Ma farete in modo che tutti credano che sia così. Che qualche legato parta in gran pompa per il campo francese domani. Che credano che avete passato l'intera giornata a far quadrare i nuovi capitoli...”

Numai guardò Tornielli, che stava al suo fianco, e poi, trovandolo a sua volta un po' confuso, ma tutto sommato convinto dalle parole del bolognese, convenne: “Faremo come dite.”

 

“Ad Alessandria abbiamo provato solo una volta – stava dicendo Alessandro Sforza, seduto a tavola al fianco della sorella – ma l'esercito francese è molto suscettibile a questo genere di incursioni notturne.”

“Prima, però, bisogna aspettare che si stanzino anche dentro le mura della città . Fece presente Caterina, bevendo ancora un sorso di vino – altrimenti, con la popolazione avversa, rischieremmo di passare sotto al loro fuoco di reazione, rientrando alla rocca.”

Il milanese si morse il labbro e poi, sollevando un sopracciglio, fu costretto a darle ragione, anche se ci tenne a precisare: “Quando sarà il momento, comunque, io lo farei. Li scompagina, li spaventa e ne muoiono un sacco. Dopo il rancio della sera, sono gonfi di vino e stanchi per tutte le zuffe della giornata... Si fanno lenti e si difendono a stento.”

“Lo terrò presente.” tagliò corto lei, tornando a concentrarsi sul piatto di zuppa che aveva davanti.

La sala dei banchetti era gremita, come sempre, e molti degli uomini dovevano ancora mangiare.

Era ancora abbastanza presto, ma la Contessa aveva deciso di coricarsi prima del solito, in modo da poter far fronte meglio alla giornata che l'aspettava. Quando quella mattina le sue squadre di soldati erano tornate spiegandole il motivo delle sollevazioni in città, la donna aveva compreso che, probabilmente, non sarebbe successo nulla di che almeno fino al giorno seguente.

Se il problema erano i capitoli della resa, fosse stata nel Consiglio dei Venti, lei avrebbe preso tempo, facendo credere che fosse stato riscritto tutto quanto, in modo da convincere i contadini senza dover cedere realmente su nessun punto. Probabilmente anche Numai aveva ragionato allo stesso modo, o, se non lui, di certo a qualcuno doveva essere venuto in mente un simile trucco.

A quel modo, loro guadagnavano come minimo una giornata intera. Anche se, da un lato, avrebbe voluto poter attaccare subito, dall'altro apprezzava anche quelle ore di apparente calma. I suoi uomini mangiavano e facevano turni soddisfacenti di riposo, si riusciva a mantenere una certa igiene all'interno di Ravaldino e gli animi non si surriscaldavano. Era un clima apprezzabile, calcolando quello che, probabilmente, sarebbe arrivato dopo il primo colpo di cannone francese.

“Mia signora – il castellano le si era appena avvinato, chinandosi appena verso di lei, per parlarle con maggior discrezione – il Capitano Bezzi chiede ancora acqua per rifornire i soldati di guardia sui camminamenti, ma...”

“Non lesinate sull'acqua.” ribatté immediatamente la Tigre: “Abbiamo un pozzo generoso e impossibile da manomettere dall'esterno, e scorte per almeno un anno. È l'unica cosa che non ci manca. Altrimenti credete davvero che avrei dato ordine di continuare a imporre i bagni alle truppe, se avessi avuto paura di restare senz'acqua?”

Quell'ultima domanda era una stoccata molto diretta e Bernardino da Cremona si sentì in difficoltà, così balbettò: “Non... Non mi permetterei mai.”

“Piuttosto...” gli occhi verdi della Sforza stavano passando in rassegna le tavolate di soldati che le stavano davanti e notò subito come alcuni fossero decisamente troppo allegri, data la situazione delicata: “Razionate di più il vino. Non voglio vedere tutte queste caraffe sui tavoli, e non voglio che chi è di servizio beva anche solo una goccia.”

“Ma, mia signora... Anche di vino ne abbiamo a volontà...” disse il castellano, corrucciandosi.

“Lo so, ma non mi interessa. Voglio dei soldati pronti all'azione e non resi lenti e distratti dal vino...” ribatté lei, rifacendosi anche alle parole che aveva scambiato poco prima con suo fratello Alessandro: “Lasciamo che Bacco combatta per il figlio del papa. A noi basterà Minerva.”

Il cremonese parve un po' confuso, ma annuì e concluse: “Darò subito ordine alle cucine di fare come dite. E se qualcuno dovesse lamentarsene, verrà subito punito.”

“In modo poco cruento.” soggiunse la donna: “I soldati mi servono sobri, ma anche tutti interi. Non mi posso permettere degli storpi, tra le mie fila.”

Il castellano fece un mezzo inchino e poi, con un cenno di congedo anche ai fratelli della Leonessa e al giovane Scipione Riario, anche lui seduto vicino alla Contessa, se ne andò.

“Vado a riposarmi.” fece Caterina, abbastanza repentinamente, alzandosi: “Se avete bisogno di me, sono nella mia stanza.”

Nessuno dei suoi fratelli, tanto meno Scipione, avevano capito cosa, o meglio, chi avesse attirato la sua attenzione in modo tanto netto da convincerla a interrompere la cena. La Tigre, invece, aveva visto immediatamente Vangelista Monsignani che entrava nel salone e si sedeva a uno dei tavoli più vicini alla porta.

Lo raggiunse in un lampo e, quando gli fu vicina, gli sussurrò: “Ti aspetto in camera, sbrigati.”

Il giovane fece finta di nulla, per non tradirsi davanti ai soldati che erano seduti alla sua stessa tavola. Attese un secondo che la donna lasciasse la sala dei banchetti e poi, non avvertendo più alcun buco allo stomaco, si alzò di scatto e la seguì quasi di corsa.

“Hai fatto anche troppo presto...” scherzò lei, quando se lo trovò alle spalle, sulle scale.

“Quando c'è bisogno, non voglio far aspettare nessuno...” sorrise lui, afferrandole una mano e mettendosi a salire i gradini più in fretta, di concerto a lei.

Quando arrivarono sul pianerottolo, vinto dal desiderio, il frate la strinse un momento a sé e la bacio, lasciando che lei gli passasse lentamente una mano sulla schiena, scendendo sul suo corpo, saggiandolo come faceva ogni volta in cui lo cercava per distrarsi. Vangelista ormai aveva capito alla perfezione la differenza tra quando la sua amante lo voleva perché voleva lui e quando, invece, lo voleva solo perché non voleva pensare al presente. Tuttavia, benché lo trovasse un dettaglio interessante, non gli importava.

“Aspetta...” sussurrò Caterina, sentendo dei passi che si avvicinavano, fermando l'iniziativa di Monsignani, che aveva iniziato a indagarla minuziosamente, nello stesso modo in cui lei stava indagando lui: “Andiamo in stanza.”

 

Era mattina presto, ma il Consiglio aveva deciso di non attendere oltre, per paura che il Duca di Valentinois si risentisse troppo del loro ritardo. Dopo aver fatto in modo che la cittadinanza e i contadini giunti il giorno prima a Forlì fossero tutti presenti, dalla piazza cittadina vennero fatti partire due emissari, diretti al campo francese. Uno di loro era di tutto rispetto: il Vescovo Dall'Asse.

La loro partenza sembrava aver instillato nel cuore di tutti una nuova sicurezza, come se i capitoli riscritti – almeno, così pensavano i forlivesi ignari – fossero finalmente una bandiera di civiltà e uguaglianza, pronta per essere piantata a simbolo della rinata Forlì.

La folla non si era ancora diradata, quando davanti al palazzo dei Riario arrivò un messaggero a cavallo che portava le insegne francesi e quelle papali.

Luffo Numai, ancora davanti al portone dopo aver dato la sua benedizione ai due emissari cittadini, guardò stranito la staffetta e le si avvicinò.

“Porto un messaggio dal Duca di Valentinois.” disse l'uomo, dopo aver chiesto a Luffo la sua identità e aver deciso che era un interlocutore accettabile: “Il Duca vuole informarvi del fatto che arriverà in città questa sera stessa e che pretende che lo accogliate com'è suo diritto.”

“Certo, certo, noi...” iniziò a dire Numai, ma il messaggero non aveva finito.

“Il mio signore non intende ancora varcare le mura cittadine, perché voi forlivese non gli date affatto necessari motivi di fiducia, per il momento.” spiegò: “Ma sa di una villa chiamata Casalaparia, appena fuori le mura, e intende stabilirsi lì. Dunque preparate per lui ogni cosa.”

“Sarà fatto.” fece, ossequioso, il Capo Gonfaloniere.

 

Malgrado i suoi progetti, che avevano previsto una nottata dedicata quasi interamente al riposo, di fatto Caterina aveva dato il tormento al suo amante fino a tardissima ora e poi, dopo appena due ore di sonno, si era risvegliata e l'aveva convinto a ricominciare a fare ciò che avevano già fatto fino allo sfinimento.

Monsignani non si era tirato indietro, ma aveva capito dal modo rabbioso in cui la sua amante l'aveva reclamato, che in quella sua continua ricerca non c'era altro, se non un profondissimo senso di vuoto e una grande paura. Come fare a lenire entrambi, però, il frate non sapeva. Così si era limitato a fare ciò che la donna gli aveva chiesto.

Alla fine, mentre il cielo si addensava di nubi oltre la finestra, la Sforza si era alzata un momento a riattizzare il camino e, stanca, sudata e ancora di pessimo umore, malgrado tutto, era tornata a sedersi sul letto, appoggiata in parte alle testata di legno e in parte al corpo giovane e palpitante del suo amante.

“L'attesa non aiuta nessuno – sussurrò Vangelista, credendo che parlare potesse aiutare un po' la Leonessa a elaborare il groviglio di pensieri che le si affollavano nella mente – so che sei preoccupata e lo capisco, ma...”

“Non puoi capirlo.” lo zittì lei, guardandolo di traverso: “Tu sei solo un frate. Sei un uomo, nato privilegiato e tanto viziato da decidere di mandare all'aria i progetti di tuo padre per prendere un saio che puzza d'incenso. Cosa ne vuoi sapere di come mi sento io adesso?”

Monsignani deglutì. Aveva capito già da un po' che non era facile andare d'accordo con la Tigre di Forlì, ma ogni volta in cui la sentiva sputare veleno a quel modo, si meravigliava di sentirla parlare così.

“Non puoi nemmeno capire come...” stava dicendo ancora lei, quando qualcuno bussò alla porta e così la Contessa chiese: “Chi è?”

“Sono io, mia signora.” il tono, al contempo dimesso e teso di Baccino da Cremona, mise in allarme la Sforza che, alzandosi subito, si scordò perfino di infilarsi qualcosa per sottrarsi agli occhi del soldato.

Mentre la donna era già alla porta, Monsignani, con un salto che denunciava la sua giovane età, le fu alle spalle e cercò di coprirla come meglio poteva con una coperta strappata all'ultimo secondo dal letto.

La Tigre accettò di malagrazia quella gentilezza e aprì subito l'uscio, dando un mezzo spintone al suo amante, affinché non si facesse vedere e restasse lontano dalla porta.

“Che è successo?” chiese la Contessa, incrociando subito lo sguardo del cremonese.

Il ragazzo la guardò per un secondo, trovando il suo volto, ancora un po' arrossato e incorniciato dai lunghi capelli arruffati, la cosa più bella del mondo. La coperta che la donna teneva sulla spalle a mo' di mantello, poi, toglieva al soldato ogni dubbio circa quello che stesse facendo prima che lui andasse a cercarla e, in un modo strano e anche per lui difficile da capire, quella consapevolezza gliela rese ancora più appetibile.

“Mia signora, pare che sia appena arrivato in città un messaggero – spiegò il giovane, cercando di controllarsi e abbassando gli occhi per non farsi distrarre più – e pare abbia annunciato alla città che il figlio del papa entrerà a Forlì stasera.”

Caterina sentì il cuore mancare un battito. Il momento stava quindi arrivando davvero. Una volta che il Borja fosse stato nei confini cittadini, allora la guerra sarebbe entrata finalmente nel vivo.

“Grazie.” sussurrò la Sforza, soprappensiero: “Fai... Fai radunare il mio Consiglio di Guerra. Ci sono... Ci sono molte cose da discutere...”

Baccino vide l'uscio chiedersi e solo allora osò sollevare di nuovo lo sguardo. Si prese una manciata di secondi per assaporare il vago sentore della donna, rimasto ad aleggiare nell'aria tra lui e il legno pesante della porta, e poi, con un sospiro, invidiando a morte qualsiasi fosse l'uomo che aveva passato la notte nella stanza della Tigre, si mise a correre per eseguire in fretta l'ordine che gli era stato affidato.

 

 
   
 
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