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Autore: kenjina    27/02/2020    2 recensioni
ATTENZIONE: spoiler Hogwarts Mystery anno 6, capitolo 18/19
Alla luce di ciò che accade durante il sesto anno, Gwendolyn e la sua combriccola di amici devono trovare il modo di andare avanti anche per chi non può più farlo. Sarà un processo difficile, lungo e doloroso. Ma lo affronteranno insieme.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Castle of Glass

 

 

 

Gwendolyn non si sentiva così tranquilla dalla fine dei G.U.F.O., una sensazione di euforia dopo un lunghissimo periodo di stress che la faceva sentire leggera come una bolla di sapone e ubriaca di sollievo. La superficie su cui era sdraiata era di un comfort diverso dal materasso del suo letto, ma era un dettaglio del tutto irrilevante in confronto al calore che sentiva alla mano destra.

Qualcuno la stava tenendo per mano.

Era familiare, piena di piccole cicatrici e calli, grande e forte, ma infinitamente delicata. L’avrebbe riconosciuta ovunque, anche a occhi chiusi come in quel momento, anche senza i numerosi e freddi anelli che riposavano attorno ad alcune dita.

Barnaby la stava tenendo per mano e il solo pensiero la fece arrossire come la prima volta che le aveva sorriso.

Dunque quello non era davvero il suo letto, altrimenti non si sarebbe spiegata come potesse essere nel dormitorio femminile di Corvonero. Era in infermeria, forse? Si era fatta male?

Si sentiva un po’ indolenzita, in effetti. Ma era un dolore bizzarro, il suo: non era solo muscolare, come dopo un intenso allenamento di quidditch; no, era più un’eco lontano al petto, come se il cuore le pesasse qualche chilo in più e battesse i pugni con rabbia contro la gabbia toracica. Come quando aveva scoperto della scomparsa di Jacob.

Sbarrò gli occhi, mentre un violento brivido di freddo congelava il calore alla mano. L’intensità della luce l’abbagliò come una candela nel buio e strizzò le palpebre più volte prima di riuscire a mettere a fuoco quello che la circondava. L’infermeria era più silenziosa del solito, scandita solo dal respiro pesante di Barnaby, accovacciato sul bordo del letto con il capo addormentato su un braccio e l’altra mano stretta sulla sua. Nemmeno la testa bruna e incredibilmente disordinata dell’amico - e sua cotta da tempi immemori - riuscì a cacciare via il terrore che man mano stava sostituendo la tranquillità di poco prima.

Riconosceva gli strascichi del Distillato della Pace mischiato a quello Soporifero. Ma perché glielo avevano somministrato?

Si guardò il corpo, tentò di muovere braccia e gambe – Barnaby continuò a dormire comunque – ma non era bendata, non provava dolore, non era ferita da nessuna parte.

Cos’era successo?

Jacob.

R.

Rakepick.

«Rowan!» gridò, quando il ricordo di ciò che era accaduto la notte prima – o era di più? Quanto aveva dormito? – la schiaffeggiò con potenza.

Barnaby quasi cadde dalla sedia su cui era precariamente appollaiato, ma fu lesto a fermarla quando cercò di saltare giù dal letto. «Gwendolyn, non»

«Rowan! Dov’è Rowan?» Cercò di divincolarsi dalla presa ferrea ma gentile di Barnaby, troppo gentile a tal punto che riuscì a liberarsi (o la lasciò) senza troppa fatica. Inciampò sui propri piedi, le gambe instabili e tremanti, e passò in rassegna tutti i letti dell’infermeria. Tirò tende, scoperchiò letti apparentemente vuoti, sotto lo sguardo vacuo di una pietrificata Poppy Chips e quello distrutto di Barnaby. Se fosse stata più lucida e attenta avrebbe notato le occhiaie ancora più accentuate sotto gli occhi verdi e appannati da un velo di tristezza.

«Dov’è Rowan?» ripeté, isterica, quando i letti finirono e non trovò nessuno se non altri studenti pietrificati.

«Non è qui, Gì.»

«No?» Gwendolyn sorrise, schioccando le dita. «Ma certo, è in biblioteca! Andiamo!»

Barnaby l’afferrò per la vita, abbracciandola dalle spalle per fermare i suoi passi malfermi. «Non è neanche in biblioteca. E nemmeno nel vostro dormitorio. Lei è— lei non c'è più.»

La cacciatrice di Corvonero fermò ogni movimento. «Allora è... è al San Mungo, vero? Ha preso una brutta botta in testa la scorsa notte, questo lo ricordo. È saltata fuori da nulla ed è caduta male e—cosa ci faceva lì? Nessuno sapeva di quell’incontro a parte me, Ben e Merula—»

«La signorina Khanna è morta.»

La voce lenta e nasale di Piton le arrivò ovattata alle orecchie. Le fischiavano con forza, entrambe, dunque era impossibile fare il gioco che Rowan amava tanto – ti fischia la destra o la sinistra? Pensa a un numero e conta a che lettera corrisponde! Aww ti sta pensando Barnaby? Sono sicuramente pensieri belli, se capisci cosa intendo…

«No. No, non è vero.» Un bagliore verde le oltrepassò la vista che si stava velocemente oscurando. Barnaby la sorresse con forza e affetto per evitarle di cadere. Una parte di sé registrò le piccole carezze sulle braccia nel vano tentativo di tranquillizzarla e il mantra basso e ripetitivo di “andrà tutto bene, andrà tutto bene, ma come poteva andare tutto bene se quello che stava iniziando a ricordare era vero? L’altra parte, quella meno razionale, quella che l’aveva messa nei guai più di una volta, le sussurrava lasciva che non fosse reale, che non poteva essere reale. Professor Piton si stava sicuramente prendendo gioco di lei, con quel suo crudele ghigno e gli occhi neri e maliziosi.

Aveva un pessimo senso dell’umorismo, quell’uomo.

«Gwendolyn.»

«Ti prego, dimmi che mente», riuscì a biascicare, prima che il dolore al petto si trasformasse in un vero e proprio pugno. Le mancò l’aria. La vista tornò abbagliante, ma era tutto di nuovo sfocato. Nemmeno si rese conto di piangere. «Ti prego, Barney, dimmi che mente—»

«Mi dispiace, Gwen, ma non posso… non posso farlo.»

Scacciò le lacrime sbattendo le palpebre più volte, ma quelle non volevano saperne di andar via. Puntò gli occhi azzurri verso quelli color pece del professore di pozioni, ma anche in quelle condizioni poté vedere l’espressione cupa e malinconica del mago. Non ricordava di averlo mai visto così. Non era neppure sicura che i muscoli di quel viso serio e impassibile potessero muoversi al di là della solita faccia rigida che indossava. Poteva sopportare il suo tagliente sarcasmo, o il disappunto quando sbagliava qualche pozione, persino il disprezzo totale ogni volta che la guardava andava meglio di quello.

Quello sguardo era a dir poco insostenibile.

«No, no, no»

Ingoiò uno, due, tre singhiozzi, prima di non riuscire più a sopportare lo sforzo di trattenere il pianto. La testa le pulsava. Gli occhi bruciavano. La gola era secca. E se le avessero lanciato un diffindo avrebbe sentito meno dolore.

Doveva essere un incubo. Di quelli troppo vividi e terrificanti, che la lasciavano senza fiato e con il sudore freddo ad appiccicarle i capelli sulla fronte. Si sarebbe dovuta svegliare, prima o poi, no?

Barnaby la fece voltare e la strinse al petto con forza, ma neppure il familiare profumo di sandalo, abiti puliti e semplicemente di lui riuscì a confortarla. Pianse più forte e strinse i pugni contro il suo maglione stropicciato, perché anche lui stava piangendo silenziosamente e non poteva sopportare anche quella vista. Barnaby doveva sorridere sempre. Meritava di sorridere sempre. E ora piangeva, per colpa sua.

Era tutta colpa sua.

Lo realizzò con un colpo al cuore e s’irrigidì come Madame Chips poco più in là.

Era solo colpa sua.

Anche se non comprendeva perché Rowan si trovasse nella Foresta Proibita, sapeva che fosse colpa sua.

Se non avesse seguito le tracce dell’assassino e se avesse passato l’informazione a Silente, Rowan sarebbe stata ancora viva.

Se solo avesse lasciato Hogwarts dopo la prima minaccia ricevuta sull’incolumità dei suoi amici, Rowan sarebbe stata ancora viva.

Se quel giorno a Diagon Alley non si fosse fermata a parlare con lei, Rowan sarebbe stata ancora viva.

Se non fosse mai andata a Hogwarts, Rowan sarebbe stata ancora viva.

E ora più che mai tutti i suoi amici erano in pericolo.

Per colpa sua.

Ben si era trasformato in un incosciente macchina di vendetta; Merula aveva perso quel poco di fiducia che aveva costruito nel prossimo in quegli anni di scuola; Penny e sua sorella non si parlavano più e lei aveva peggiorato la situazione, mettendo Beatrice in pericolo solo pochi giorni prima.

Charlie aveva ragione. Era una disgrazia con le gambe e chi ne avrebbe pagato le conseguenze sarebbero stati loro, i suoi amici, le persone che più amava nella sua vita.

Compreso Barnaby.

Dolce, buono Barnaby che si era beccato due fatture per lei, rischiando la sua stessa vita per difenderla. Se ci fosse stato lui al posto di Rowan… non voleva neppure immaginarlo.

Si divincolò dalle sue accoglienti braccia, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi. Doveva allontanarsi.

Doveva allontanarli.

Solo così sarebbero stati al sicuro.

Avrebbe trovato Jacob da sola, anche a costo di morire. Ma non avrebbe mai più messo a repentaglio la sicurezza di chicchessia, men che meno i suoi amici. O magari non aveva neppure bisogno di allontanarsi. Magari la odiavano già e le avrebbero reso tutto più facile. Non avrebbe potuto biasimarli.

Era colpa sua.

«Gwendolyn—»

«Io— scusate, ho bisogno di— scusatemi.»

Vi era un significato ulteriore in quell’ultima parola – scusatemi –, ma sapeva che non avrebbero potuto perdonarla neppure se avesse iniziato a ripeterla per il resto dei suoi giorni.

Barnaby fece per fermarla, ma un’occhiata e un cenno di diniego di Piton lo fece desistere, e mai come allora gli fu grata del suo sostegno. Gwendolyn si lasciò l’infermeria alle spalle senza ulteriori parole e carambolò sul corridoio deserto. Non c’era anima viva, per essere mattina (o era pomeriggio?); i portoni d’ingresso alle classi erano aperti, segno che le lezioni erano state sospese; il chiacchiericcio dei quadri era sparito e persino gli scricchiolii tipici del vecchio castello sembravano essersi fermati.

L’intera Hogwarts stava trattenendo il respiro ed era tutta colpa sua.

 

*

 

Si era rintanata in un’aula inutilizzata, polverosa e dimenticata del terzo piano. Seduta con le gambe contro il petto sotto un banco all’angolo della stanza e circondata da vecchie cianfrusaglie di qualsiasi forma e colore, Gwendolyn aveva pianto in silenzio, temendo di essere scoperta. Prima o poi qualcuno l’avrebbe cercata; prima o poi qualcuno l’avrebbe trovata. Magari anche solo un fantasma che passava di lì, o peggio ancora Peeves, che di certo non l’avrebbe lasciata in pace e avrebbe gridato ai quattro venti la sua posizione.

Ma non era comparso nessuno. La porta era rimasta ostinatamente chiusa, i pochi passi che provenivano dal corridoio camminarono oltre. E se da una parte era sollevata dal fatto di non dover affrontare nessuno, dall’altra si rese conto che si sarebbero presto dimenticati di lei. Nessuno aveva bisogno di una portatrice di morte.

Solo quando la luna fu alta in cielo e nessuno percorse quel corridoio per ore intere, che decise di uscire dal suo nascondiglio. Era indolenzita per la posizione che aveva assunto, il cervello pulsava forte al ritmo pesante del cuore e gli occhi erano secchi e arrossati. Non aveva più lacrime per piangere.

Si tolse le scarpe, per evitare di produrre eco con la suola contro il pavimento in pietra, e camminò scalza verso la Torre di Corvonero. Non era sicura che le sue compagne di stanza stessero dormendo – non dopo una giornata simile, lei non sarebbe più riuscita a prendere sonno neppure con un Distillato Soporifero, ma valeva la pena tentare. Nessuno l’avrebbe fermata. Anzi, l’avrebbero volentieri accompagnata verso l’uscita.

L’indovinello del batacchio in bronzo della porta d’ingresso alla Sala Comune fu più semplice del solito e tirò un sospiro di sollievo nel trovare l’area sgombra da studenti insonni. Fu meno confortante rivedere il ricordo già sbiadito di Rowan su quel divano accanto alla statua di Priscilla Corvonero, su cui spesso si stravaccavano per studiare e ripetere a vicenda nozioni e incantesimi.

O la nicchia sulla finestra trifora, da cui osservavano il panorama mozzafiato del castello e delle Highlands Scozzesi e chiacchieravano di tutto e niente.

Quella Sala Comune era sempre stata uno dei suoi posti preferiti in tutta Hogwarts: così alta, così ampia, così piena di calore e libri, nonostante i colori freddi della volta stellata. Ora sembrava chiudersi su di sé, buia e soffocante come una piccola stanza senza finestre né porte.

Ogni angolo di quel castello le avrebbe ricordato cosa aveva perso ed era una punizione peggiore della morte.

Si portò una mano alle labbra secche e screpolate, ingoiando l’ennesimo attacco di pianto, e si fece forza. Percorse le scale verso il dormitorio femminile e si fermò davanti all’ingresso, una mano che aleggiava sulla maniglia, mentre restava in ascolto.

Non si sentivano voci, né movimenti.

Forse, ironicamente, era il suo giorno fortunato e tutto andava per il verso giusto.

Solo che niente andava davvero per il verso giusto.

Entrò in punta di piedi, aprendo piano la porta nella speranza che cigolasse il meno possibile. Tutti i baldacchini avevano le tende tirate, fatto salvo per il suo e quello accanto. Era rifatto alla perfezione e terribilmente vuoto. Sparito era il baule ai piedi del letto; spariti i numerosi libri sulla scaffalatura accanto; e così anche i gingilli che lei teneva sul comodino.

Era come se quel letto non fosse mai stato vissuto. Come se lei non fosse mai esistita, se non nella sua testa.

Sforzandosi di voltare lo sguardo e ignorare l’immenso vuoto di quel baldacchino, recuperò il suo mantello dell’invisibilità dal baule, una borsa con oggetti personali che avrebbero potuto tornarle utili e un cambio di abbigliamento, perché quello che aveva addosso era ormai strappato e sporco, e anche se fosse riuscita a pulirlo e aggiustarlo non avrebbe più potuto guardarsi allo specchio senza ripensare a quella notte.

O forse non avrebbe più trovato il coraggio di guardarsi allo specchio, ad ogni modo.

Sgattaiolò prima che qualcuno si accorgesse di lei, prima che Crowley, il suo gatto nero, potesse miagolare e svegliare tutto il castello in quell’asfissiante silenzio, e lasciò la Torre di Corvonero sotto la protezione del mantello e la leggerezza dei suoi passi.

Era a digiuno da chissà quanto e non aveva fame, ma avrebbe fatto comunque una capatina alle cucine, giusto per mettere qualcosa sullo stomaco e non rischiare di svenire – sempre che fosse riuscita a non vomitare.

Il piano era semplice: sarebbe sparita.

Avrebbe continuato a partecipare alle lezioni, ma sarebbe entrata in aula nell’esatto momento in cui la lezione fosse iniziata, per evitare ogni tipo di domanda, avrebbe tenuto la testa bassa e possibilmente si sarebbe seduta lontano dai suoi amici, per poi scappare di nuovo alla fine; avrebbe mangiato direttamente dalle cucine, sempre protetta dal mantello dell’invisibilità, e avrebbe dormito nella vecchia stanza di Jacob. Era il primo posto che avrebbero dovuto controllare per cercarla, ma essendo talmente ovvio sperò che nessuno decidesse di farlo. Ad ogni modo, lo avrebbe reso sicuro con un bell’incantesimo di chiusura che nessun alohomora avrebbe potuto aprire. E se anche qualcuno fosse riuscito a entrare, aveva sempre la sua forma di animagus a proteggerla.

Oh, e si sarebbe dimessa dal ruolo di Cacciatrice. Non poteva rischiare che anche i suoi compagni di squadra finissero in mezzo ai suoi problemi. Era suo fratello a essere scomparso e ad aver riaperto le Sale Maledette. Era suo compito fermare qualsiasi cosa stesse succedendo e farlo rinsavire.

Suo, e di nessun altro.

Avrebbe dovuto pensarci prima.

Stava richiudendosi la porta segreta delle cucine alle spalle, quando una voce che non era affatto quella di Pitts né di un altro elfo, la raggelò sui suoi passi.

Il Preside era seduto alla fine della tavolata che corrispondeva a quella di Grifondoro al piano di sopra e stava rigirando tra le mani una forchetta, davanti a sé un piatto vuoto, con qualche residuo di torta, mentre un altro piatto riempito di patate, arrosto e verdure grigliate fumava ancora in attesa di essere divorato.

«Mi domandavo quando saresti arrivata», le disse, guardando il punto in cui si trovava come se potesse vederla attraverso il mantello. Ma del resto era già successo una volta… di cosa si meravigliava?

Rimase in silenzio, nella speranza che la lasciasse in pace, ma avrebbe dovuto immaginare che il vecchio Silente non avrebbe abbandonato la presa così facilmente.

«Gwendolyn, ti prego, accomodati vicino a me e mangia qualcosa. Poi potremo parlare.»

Non voleva mangiare.

Non voleva nemmeno respirare.

Tanto meno voleva parlare.

«Avrebbe dovuto espellermi quando ne aveva la possibilità, professore», gli disse levandosi il mantello e tornando visibile, il risentimento cristallino in ogni fibra del suo essere e della sua voce. Odiava se stessa, odiava Jacob, odiava Rakepick e R, e odiava l’uomo che aveva di fronte per non aver fatto ciò che ripeteva ogni anno: proteggere i suoi studenti. Aveva dovuto prendere in mano la situazione di persona perché lui era stato fin troppo incompetente per farlo da sé. «Sono un pericolo per tutti. Lo sono dal primo anno e ne sono passati sei. Perché non lo ha fatto?»

«Credo che potremo discutere con più lucidità dopo che tu avrai messo qualcosa nello stomaco—»

«Dannazione, mi risponda!»

«È per questo che ti stai nascondendo? Perché così facendo pensi di proteggere i tuoi amici?»

«Cos’altro potrei fare?», gli gridò contro. «Avrei dovuto farlo da subito! Avrebbe dovuto fermarmi quando era ancora in tempo! Metterli in guardia quando io non ne ho avuto la forza! Isolarmi come merito! E invece guardi cosa è successo! Rowan è morta ed è solo colpa mia e—»

Si tappò una mano alla bocca, inorridita. Dirlo a voce alta fu più devastante della consapevolezza che fosse vero. Si aspettava di rivederla oltre ogni angolo, di sentire il suono della sua risata a qualche battuta di Tonks, di percepire il suo braccio attorno alle spalle in uno dei suoi abbracci stritolanti.

Ma dirlo a voce alta Rowan è morta – lo faceva sembrare più reale di quanto non fosse. Cancellava ogni piccola traccia di speranza che, come la sciocca che era, conservava ancora in un angolo remoto dell’anima. Era come una sottolineatura imperterrita sul foglio, che lo bucava con l’inchiostro e la punta.

E faceva un male assurdo.

«Hai infranto nuovamente le regole della scuola e quelle straordinarie di cui ho parlato in Sala Grande solo la settimana scorsa? Sì, lo hai fatto. Sei stata incauta e sciocca? Decisamente. Hai messo te stessa e i tuoi due compagni d’avventura in pericolo? Assolutamente. Ma non puoi incolparti dell’amore che Rowan provava nei tuoi confronti o in quelli del signor Copper.»

Ben... se non fosse stato per Rowan starebbe piangendo la scomparsa di Ben, ora.

E sarebbe sempre stata colpa sua.

«Dovevo essere io», biascicò senza forze. «Rakepick voleva me. Ero io il bersaglio, ma non ho saputo proteggerli... dovevo essere io.»

«Gwendolyn.»

Lei neppure alzò lo sguardo. Era stata così debole, così impreparata, così stupida. Ed era stato Ben, tra tutti, a tenere testa a quella megera. Avrebbe dovuto farlo lei e aveva fallito.

«L’amicizia che legava te, Rowan e il vostro bellissimo gruppo di amici è qualcosa che pochi conoscono nel corso della vita. La totale devozione e amore l’uno per l’altro, a tal punto di morire per difendersi. L’unica colpa che puoi attribuirti, Gwendolyn, è di essere un’amica degna di un amore così grande.»

«Ma non lo merito», riuscì a sputare, tra un singhiozzo e l’altro.

Non era stata affatto una buona amica. Quando Rowan l’aveva accusata di rivolgersi a loro solo quando aveva bisogno di risolvere qualche mistero legato alle Sale Maledette, una parte di sé sapeva che avesse ragione. Terribilmente ragione, infatti. Li aveva ignorati per settimane intere, così presa con le sue ricerche, ossessionata da penne nere e messaggi in codice, da non rendersi conto che i suoi amici avevano bisogno di lei e che sentivano la sua mancanza, e che non avrebbe dovuto offendersi se Rowan era stata l’unica a trovare il coraggio di accusarla apertamente.

Era una persona orribile.

E ora Rowan era morta.

Il rumore di alcune pentole che si spostavano sotto un movimento invisibile la fece voltare verso destra, ma non trovò nessuno.

Silente sospirò, forse stanco della sua testardaggine, forse dispiaciuto per non riuscire a raggirarla come sempre faceva – per farla stare meglio, per rimproverarla, o per avere risposte a domande che neppure poneva. Si alzò con pesantezza e d’un tratto non aveva davanti a sé il mago più potente che avesse mai incontrato, ma un uomo anziano che aveva visto troppi orrori nella sua vita per sopportarne il peso sulle spalle incurvate.

«La perdita di Rowan è un dolore indicibile e non meriti di addossarti anche il fardello di colpe che non hai, Gwendolyn. Tu, il signor Copper e la signorina Snyde avete subito una punizione per la vostra scappatella che va ben oltre la normale educazione e ora è tempo del lutto e hai il diritto di piangerla senza se e senza ma.» Silente alzò un dito quando lei fece per interromperlo. «Domani ci sarà una commemorazione in suo onore e desidererei che presenziassi. Che parlassi di lei, anche, e la ricordassi per tutti noi.»

La risata le scappò dalla gola prima che potesse fermarla. Era fredda, priva di divertimento, attonita. «Parlare di lei? Io?»

«Era la tua migliore amica.»

«E l’ho uccisa! Ma non capisce? L’ho uccisa io!»

Silente rimase impassibile. «Hai scagliato tu la Maledizione Senza Perdono, Gwendolyn?» le domandò, come a un bambino di tre anni che ancora non capiva bene i concetti più semplici.

«No, ma è come se lo avessi fatto.» Ti prego, non piangere ancora, non piangere ancora. «È morta per causa mia e—» Il respiro le si mozzò a metà strada e si dovette sedere sulla panca più vicina per non cadere in ginocchio, senza forze. «Non merito di— di ricordare la persona splendida che era e che— che ho dato per scontato troppe volte e—»

«Smettila!» esclamò una voce fin troppo familiare. «Smettila di ripetere quella sciocchezza!»

Una dozzina di teste e relativi corpi comparvero improvvisamente lungo il muro alla sua sinistra, dove aveva sentito provenire rumori di pentole. Tonks, con dei capelli incredibilmente neri, stava finendo di agitare la bacchetta per far terminare l’incantesimo di disillusione che li aveva tenuti nascosti, ma era Barnaby ad aver parlato. Liz e Charlie lo stavano tenendo per le braccia e forse erano stati loro tre a far rumore, nel tentativo di fermarlo per non farsi scoprire – almeno, non così presto.

«Ma cosa—»

Silente sorrise. «I tuoi amici mi hanno subito contattato quando si sono accorti della tua sparizione. Sapevano che non ti avrebbero trovata se tu non avessi voluto che accadesse, ma dato che ormai ti conoscono così bene hanno immaginato che prima o poi saresti passata di qui. Non esserne sorpresa.»

«Barnaby ha ragione, Gwen», mormorò Penny, che aveva gli occhi rossi da tanto pianto e le trecce solitamente perfette ora sfatte. Beatrice era al suo fianco ed era appesa al suo braccio come se fosse la sua unica ancora di salvezza, il trucco intorno agli occhi sciolto e un’espressione terrorizzata sul bel viso. «E anche il professor Silente. Meriti tutto ciò di buono che esista, perché nonostante gli ostacoli, hai sempre fatto tutto ciò che è in tuo potere per aiutarci e farci stare bene. E non osare dire il contrario. Quello che hai fatto per salvare mia sorella e gli altri studenti nei quadri… per non parlare delle volte che mi hai sopportata con le mie paure dei mollicci… e tutte quelle che sembrano stupidaggini ora, come le decorazioni del Ballo Celestiale, o aver convinto Rowan e Ben a partecipare e a dargli un po’ di confidenza. Avresti sempre potuto girare la faccia dall’altra parte, ma non lo hai mai fatto.»

Andre annuì. «La verità è che sei così generosa e ti preoccupi sempre più per gli altri, che per te stessa. Così, qualcuno dovrà pur prendersi cura di te.»

«Non puoi addossarti le colpe della scelta di Rowan», disse Charlie. «È stata quella… quella dannata megera che ci ha tradito a… a lanciare la maledizione. Non tu. Volevi solo proteggerci… e proteggerla.»

E alla fine è stata lei a proteggere noi. A proteggere Ben. Che proteggeva me e Merula.

Ben!

Scorse lo sguardo sugli amici, ma non vi era traccia del Grifondoro. Nemmeno di Merula, ma della sua assenza non si stupì più di tanto. Era Ben a preoccuparla. Si sentiva in colpa per quello che era successo, ma non voleva neppure immaginare come potesse sentirsi lui.

«Avrei fatto lo stesso al suo posto», stava dicendo Barnaby, riportando la sua attenzione su di lui. Si era avvicinato un po’, ma restava a debita distanza per paura di fare qualcosa di sbagliato. «Anche io avrei fatto di tutto per proteggervi, Gwen.»

«Anche io», disse Penny.

«E io», ripeté Andre, e Talbott, e Tonks e Tulip insieme, muovendo un passo avanti. E così tutti gli altri.

Gwendolyn non si era mai sentita così infinitamente triste e felice allo stesso tempo e, non per l’ultima volta, ripeté a se stessa di non meritare tutto quell’amore. Ed era consapevole che, ora più che mai, nessuno di loro si sarebbe tirato indietro per risolvere il mistero di “R” e le Sale Maledette, nemmeno se lei avesse cercato di allontanarli.

Barnaby allargò le braccia in un chiaro invito, e lei non poté resistere più. Amava quei ragazzi più di se stessa e non poteva immaginare una vita senza di loro, men che meno far finta che non esistessero, anche se per proteggerli. E se una parte di sé continuava a sentirsi responsabile per ciò che era accaduto e non si sarebbe mai assopita del tutto, dall’altra sapeva anche che avrebbe fatto lo stesso al posto di Rowan, proprio come avevano ammesso quegli stessi ragazzi solo pochi secondi prima.

Era avvezza agli abbracci di Barnaby – quel ragazzo non conosceva il significato di spazio personale e non perdeva occasione di farlo (non che lei si fosse mai lamentata, ecco) – ma quello aveva un sapore del tutto diverso da quelli a cui era abituata. Era quasi timido, delicato, timoroso di romperla lungo le crepe che la morte di Rowan aveva segnato. Ma quando fu lei a stringerlo, allora ricambiò con la stessa forza e le mancò il respiro. Non solo perché si sentiva completamente compressa contro quel petto su cui aveva fantasticato fin troppe volte – mentre Rowan arrossiva e la ascoltava blaterare – ma perché a quell’abbraccio si unì anche Andre. E poi Penny con Beatrice. E Tonks. E Tulip. E Talbott, Chiara, Liz, Charlie, Badeea, Jae, Diego.

«Vi voglio bene», riuscì a biascicare il tanto che bastava per farsi sentire.

«Ti vogliamo bene anche noi», replicò Penny, tirando su col naso. «E saremo sempre al tuo fianco, che lo voglia o no. D’accordo?»

Gwendolyn annuì. Sentì un paio di labbra accarezzarla tra i capelli in un bacio affezionato e sorrise tra le lacrime.

«Per oggi il coprifuoco è sospeso», disse Silente, avviandosi verso l’uscita. «Potete far compagnia a Gwendolyn mentre cena, se vi va e non siete troppo stanchi.»

L’unica risposta che ottenne fu la comparsa di nuovi piatti pieni di delizie laddove i ragazzi presero posto attorno all’amica. Stuzzicarono cibo in silenzio, senza sapere esattamente cosa dire, specie dopo lo scatto di rabbia e senso di colpa che aleggiava ancora nell’aria, finché fu proprio Gwendolyn a parlare.

Pizzicò una patata al forno con la forchetta, rigirandola nella salsa di pomodoro affumicata, e sospirò. «Vi chiedo scusa per… per la scenata di poco fa.»

Andre, seduto di fronte, la rassicurò con un affezionato calcio sotto al tavolo. «Non devi scusarti per il dolore che provi. Ma non puoi addossarti la colpa di ogni disgrazia che succede in questo maledetto castello, Gì.»

Qualcuno annuì, altri mantennero lo sguardo basso sul proprio piatto.

«A parte quella volta in cui rovesciasti metà dispensa di Piton perché eri troppo intenta a fissare la nuova spilla da Cacciatrice», fece pensieroso Barnaby. «Perdesti più punti quel giorno, che me in tutta una vita.»

«O quando provocasti la bufera di neve più grande della storia, bloccando mezza Scozia per Natale», rincarò la dose Charlie.

«Oppure quella volta in cui—»

«Ho capito! Ho capito! Messaggio ricevuto. Grazie tante.»

Talbott annuì, con estrema serietà. «Sì, sei decisamente pessima, Gwendolyn. Un’ottima, pessima amica.»

Si scambiarono tutti qualche occhiata, finché il timido sorriso che si fece largo sulle sue labbra screpolate e pallide li fece sospirare di sollievo. «Vi ho già detto che vi voglio bene?»

«Sì. Ma rimani comunque un disastro.»

«Cosa abbiamo fatto per meritare una persona come te nella nostra vita?»

«Devi seriamente smetterla di essere così. Tutta questa generosità e i compiti che ci fai copiare—»

Jae puntò una forchetta contro Andre. «Oi! Rettifica immediatamente! I compiti da copiare sono fondamentali!»

Battibeccarono per l’ora successiva, un po’ per non far calare silenzi pesanti che avrebbero inevitabilmente portato a pensare alla triste realtà delle cose, un po’ per tirar su di morale tutti, specialmente lei. Fu intorno a mezzanotte che i primi segni di stanchezza fisica e mentale iniziarono a farsi sentire.

Solo Gwendolyn, però, non aveva voglia di tornare al dormitorio e affrontare quel baldacchino vuoto. Incrociò lo sguardo dell’unico migliore amico che le era rimasto e, come sempre, la capì anche senza parlare – e il suo essere una legilimens non aveva niente a che vedere con la cosa. Il ché, delle volte, era piuttosto inquietante e Rowan, con un pizzico di gelosia, non aveva mai mancato di farglielo notare. Lei era la prima amica che si era fatta a Hogwarts, ma Andre era la spalla su cui si sfogava quando la pressione diventava troppa, e viceversa, e non aveva mai voluto preoccupare la sua compagna di stanza più di quanto già non fosse.

E guarda cosa è successo.

«Torre di Astronomia come sempre?» le chiese, dopo aver salutato tutti gli amici – solo Barnaby era stato un po’ restio a lasciarla e gli avrebbe chiesto di rimanere, se solo non avesse deciso di sfogare il verme che le stava bucando l’anima e che non aveva sputato neppure con Silente; e per quanto la rincuorasse la consapevolezza che non avrebbe mai pensato male di lei, non voleva tentare la sorte. Lo avrebbe perso comunque nei giorni successivi, ma per il momento voleva rimandare l’inevitabile.

La lunga salita verso la torre fu silenziosa, pesante, gelida per la corrente invernale stava iniziando a incanalarsi sulla tromba delle scale a chiocciola, ma non imbarazzante. Andre aveva il super potere di metterla a suo agio anche senza parlare.

Il ragazzo si strinse nel mantello per proteggersi dal freddo, una volta giunti a destinazione. «Non è stata una delle nostre idee migliori, devo ammetterlo.»

«Non parlarmi di pessime idee», sbottò Gwen, stringendo le labbra di disappunto. «Scusami.»

«No, scusami tu. Non avrei dovuto.»

Gwendolyn recuperò una coperta che aveva piegato nella borsa, tra gli averi di prima necessità che aveva preso per la sua scappatella, e si sedettero contro un muro, coprendosi entrambi fino al collo. Ascoltarono l’ululare del vento per lunghissimi minuti, finché Gwendolyn decise che fosse arrivato il momento di parlare.

«Non mi fidavo più di lei, Andre.»

Ammetterlo a voce alta era quasi doloroso come il fatto che fosse morta e il sapore aspro di quelle parole le sarebbe rimasto sulla lingua per il resto dei suoi giorni, non importava quante volte si fosse lavata la bocca.

«L'ho tenuta a distanza per paura che stesse facendo il doppio gioco, o che fosse manipolata contro il suo volere. E l’unica volta che l’ho portata con me in una missione è stato solo per tenerla d’occhio. È stato bello, alla fine. Abbiamo riso fino alle lacrime, ma la verità è che non ricordo neppure l’ultima volta che ho trascorso del tempo con lei solo per il gusto di farlo. O l’ultima volta che le ho detto di volerle bene. Sono diventata un mostro.» Si asciugò le lacrime con la manica del maglione. «E non c’è niente al mondo che mi convincerà del fatto che io non abbia preso parte al suo... al suo omicidio. Tutto quello che ho fatto, compreso allontanarla, ci ha portati a questo. Se mi fossi fidata, come lei si fidava di me, magari non ci avrebbe seguiti. Magari avremmo trovato una soluzione diversa dall’andare del tutto impreparati nella Foresta Proibita. È sempre stata la voce della ragione, quando io non trovavo altre vie d’uscita.»

«Non è stata colpa tua, Gwendolyn.»

Entrambi si voltarono verso la terza voce, appartenente a una Penny demoralizzata e dalle occhiaie più profonde di quelle di Barnaby.

La Tassorosso sospirò. «Speravo di parlarti da sola, ma... temo di aver fatto una cosa orribile, Gwen.»

«Che intendi dire?» le domandò lei, facendole spazio sotto la coperta.

Gwendolyn non si meravigliò quando sentì la confessione di Penny, ma non poteva certo biasimarla per aver dato a Rowan una scusa valida per seguirla. Voleva farle capire i pericoli a cui era sottoposta tutti i giorni per farla desistere dall’intromettersi, ma alla fine Rowan era come lei: si preoccupava troppo e ficcava il naso dove non doveva per il bene dei suoi amici.

E lei l’aveva allontanata.

Era davvero diventata un mostro.

«Non è colpa tua, Penny. Così come non è colpa di quest'altra idiota qui. Non è colpa di nessuno, se non di “R” e di quella dannatissima strega», fece Andre, con serietà. «Probabilmente ti avrebbe seguita lo stesso, Gì. Lo sai meglio di me com’era quando si trattava della tua incolumità. Non vedeva altro.»

Ma ciò non cambia il fatto che sia stata un’amica orribile.

Rimasero a osservare il cielo privo di stelle in una notte buia e nuvolosa, il tempo scandito dal sibilante fischio del vento.

Gwendolyn poggiò la testa sulla spalla dell’amico, quando questo le domandò: «Te la senti di parlare, domani?»

«Non so se sarò in grado di farlo… non saprei neppure da dove iniziare.»

«Allora proviamo a buttar giù un discorso», fece Penny, alzandosi di scatto e guardandosi intorno. «Dovrebbe esserci pergamena e inchiostro da qualche parte. Ti aiutiamo noi.»

 

 

 

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Note: è la prima volta che pubblico qualcosa relativo al mondo di Harry Potter – il che ha dell’incredibile, perché sono cresciuta insieme ai libri della Rowling e ho già scritto novanta pagine di una long che non ho ancora finito (echenonvedràmailafinecomequasituttoquellochescrivo) ambientata ai tempi dei Malandrini – e la cui protagonista, tra le altre cose, condivide il nome di questa qua sopra (ma solo quello).

MA.

Questo maledetto gioco di Hogwarts Mystery, che mi sta tenendo compagnia da quasi due anni, ha deciso di prendermi a schiaffotti con l’ultimo sviluppo della storia e mi sono ritrovata a scrivere quattordici pagine nel giro di due giorni. Giuro, non so come sia potuto accadere. D:

Detto ciò, non so se questa cosa continuerà. Per ora ci sarà sicuramente un altro capitolo a completamento di questa prima parte (che sarebbe stata decisamente troppo lunga). Ho in mente pezzetti di storia che mi gironzolavano per la testa già da qualche mese, ma vista la situazione qualcosa dovrà pur cambiare. Non nego di essere ispirata per almeno un altro paio di capitoli, perché l’elaborazione del lutto da parte Gwendolyn (e degli amici) non si fermerà certo qui: sarà difficile riprendere le lezioni, tornare a giocare a quidditch, sviluppare qualsivoglia relazione sentimentale, proseguire la ricerca di suo fratello. E solo Merlino sa quanto mi prudano le mani per farvi conoscere meglio la mia strega. Ma non prometto neppure di continuarla. Sto scrivendo qualcosa di molto simile a un romanzo e quello ha la precedenza su tutto. Questa one-shot è un’anomalia, ma avevo bisogno di tirarla fuori perché tutte le reazioni successive al fattaccio mi sono sembrate un po’ MEH e questo rispecchia più l'idea che mi sono fatta della mia Gwendolyn.

Se mai dovessi aggiornarla, e qualcuno dovesse passare di qua, sarei felice di ritrovarvi. Altrimenti vi ringrazio per la lettura. :)

A presto,

Marta

 

 

 

   
 
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