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Autore: Adeia Di Elferas    28/02/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Non pensavo si dovesse parlare di cose importanti già questa sera...” sbuffò il Valentino, non appena entrò in quella che tutti chiamavano Villa Casalaparia.

La deputazione di nobili forlivesi che avevano deciso di andare ad accoglierlo direttamente lì venne attraversata da uno strano brivido.

Il Borja colse l'inquietudine dei suoi interlocutori. Per un attimo fu tentato di approfittarne e di dire ancora qualcosa che li spaventasse, in modo di averli in suo pugno con la paura, ma poi decise di mostrare buon senso, buon carattere e, soprattutto, buon viso a cattivo gioco.

“Non importa, la colpa è mia che ho fatto tardi... So che sono ormai le dieci di sera, e me ne scuso, probabilmente mi aspettavate prima... Il problema è che, venendo qui, ho incrociato due bellissime lepri e non sono riuscito a impedire ai miei cani di lanciarsi al loro inseguimento...” fece il ventiquattrenne, sfoggiando il migliore dei suoi sorrisi e allargando conciliante un braccio: “Anzi, dovremmo aspettare anche i miei carriaggi, che sono rimasti indietro... Inoltre, inoltre... Con loro ci sono le mie squadre d'avanguardia e non voglio che stiano troppo lontane da me...” soggiunse, facendo ben capire che, prima dell'arrivo dei suoi bagagli e dei suoi soldati, non si sarebbe mosso.

Il Duca, da quel momento in poi, volle vedere la villa, per controllare che fosse un posto sicuro, e non fece alcun cenno ai suoi progetti riguardo la città di Forlì. Quando qualcuno gli faceva domande, lui svicolava parlando d'altro o facendo finta di non aver sentito.

In realtà non aveva ancora deciso se entrare già quella sera in Forlì o meno. Non era nemmeno più certo di voler rimanere in quella villa.

Mentre raggiungevano quel posto, un paio di suoi informatori gli avevano gli avevano fatto presente che in località San Martino c'erano ancora edifici in buono stato e qualche cascina che avrebbe permesso a buona parte del suo esercito di sistemarsi al riparo di eventuali intemperie. La cosa che lo lasciava un po' perplesso era pensare alla vicinanza con la rocca in cui si era asserragliata la Sforza, ma, forse, in quei momenti sarebbe stato più al sicuro lì, fuori dalle mura cittadine, piuttosto che entro il loro perimetro.

Si dovette aspettare un po', prima che arrivassero i bagagli e i soldati del Borja, ma, quando finalmente furono in prossimità della villa, uno dei nobili forlivesi che era accorso per portare i propri ossequi al Valentino, disse: “Se verrete con noi a Porta San Pietro, potrete incontrare il Consiglio dei Venti al gran completo, e anche gli Anziani...”

Cesare, che aveva passato quasi tutto il tempo dell'attesa a studiare l'edificio in cui aveva pensato di far tappa, aveva capito che non si trattava di una sistemazione troppo sicura. Andare in località San Martino e da lì poi scegliere il momento giusto per entrare definitivamente in città sembrava a quel punto la cosa migliore da fare.

“Va bene.” disse allora, sorprendendo sia quello che gli aveva fatto la proposta, sia tutti gli altri presenti: “Muoviamoci. Il mio esercito e i miei carriaggi ci seguiranno.”

Il corteo del Duca di Valentinois, arrivò fino a porta San Pietro e, malgrado il buio di quella notte, il Borja poté vedere già da una certa distanza l'assiepamento di uomini che lo stavano attendendo appena fuori dalle mura. Sapeva che l'avrebbero accolto in quel modo, perché un portavoce era andato poco prima ad avvisarli del suo passaggio, ma gli faceva comunque un certo effetto vederli schierati a quel modo.

Avvertiva alle sue spalle la colonna di soldati – appena l'avanguardia – che lo seguivano. Se avesse voluto, avrebbe potuto far uccidere tutti i forlivesi che erano corsi a porgergli i loro ossequi, e poi avrebbe potuto entrare in città e metterla immediatamente a ferro e fuoco, sfruttando la sorpresa e la notte come difesa contro un'eventuale rappresaglia della Sforza.

D'altro canto, però, sapeva di non essere in grado di trattenere un esercito tanto indisciplinato e, se per caso fosse caduto vittima di una fortunosa imboscata dei forlivesi, oltrepassando la porta cittadina, sarebbe stata la fine della sua carriera militare, oltre che della campagna.

Così, con un sospiro, fece un cenno alle sue guardie private affinché lo seguissero e poi, appena si trovò a breve distanza da quelli che immaginava fossero i Venti, annunciò: “Sono qui per mostrarmi a voi e per controllare che i miei uomini passino e vadano senza importunarvi. Essendo giunto all'improvviso, non voglio recar troppo disagio ai cittadini.”

Tornielli, che accidentalmente era il più avanzato tra i Consiglieri, si schiarì la voce e rispose: “Noi vi crediamo e vi ringraziamo.”

 

L'attesa si stava facendo snervante. Caterina non sapeva più come ingannare il tempo, anche perché ogni volta in cui si fermava, anche solo per qualche minuto, la sua mente continuava a correre nelle solite due direzioni: o ai ricordi, scatenati spesso dalla vista degli oggetti di suo marito Giovanni, o, ancor peggio, dalla statua di Giacomo che svettava davanti alla rocca, o ai suoi figli, in viaggio o nascosti chissà dove, lontani da lei e preda di una sorte che lei non avrebbe mai conosciuto.

Era notte. Una lunga riunione l'aveva tenuta impegnata fino a tarda sera, e di questo la Sforza era stata felice, proprio perché aver qualcosa di cui discutere le teneva la testa occupata.

Uno dei punti cruciali di cui si era discusso era stato il modo di tenersi in contatto con la cittadella del Paradiso. Di fatto, la cinta muraria metteva in relazione le due fortificazioni, anche se il passaggio dall'una all'altra non era facilissimo. Tra loro, poi, restava una buona parte di quelli che erano stati gli orti privati della Tigre e l'area abitativa ormai dismessa del Paradiso.

La cosa confortante, almeno per il momento, era vedere come i forlivesi, almeno per il momento, stessero ritenendo quella parte di città fuori dal loro controllo, evitando tanto di abitarla, quanto di riconquistarla.

La speranza generale della Contessa e dei suoi era che anche i francesi, per precauzione, non arrivassero a lambirla, o, se non altro, che non lo facessero tanto presto.

Finita la riunione, la Leonessa aveva mangiato qualcosa e poi era stata indecisa se chiamare in camera Monsignani, o fare un nuovo giro di ricognizione della rocca, prima di ritirarsi per riposare.

Faceva freddo e c'era una grande umidità. Le faceva male la schiena e aveva le gambe pesanti. Era stata tutto il giorno intenta o a tirar di spada o a coordinare i suo soldati e quindi, a quell'ora, l'unica cosa sensata da fare forse sarebbe stata davvero coricarsi e dormire.

Quasi persuasa di farlo davvero, la donna si stava dirigendo verso le scale che salivano al primo piano, quando vide correrle incontro il castellano: “Mia signora!” stava gridando: “Mia signora! Ci siamo! Forse ci siamo!”

La milanese comprese al volo il senso di quelle parole e, senza aspettare che Bernardino da Cremona la raggiungesse, invertì all'istante il senso della propria marcia e andò ai camminamenti, con l'uomo che le arrancava alle spalle.

Quando fu dietro le merlature, la Tigre chiese: “Da che porta sta entrando?”

I soldati di ronda erano quasi tutti concentrati dal lato che dava verso porta San Pietro. Nessuno di loro parlava, ma tutti sembravano profondamente confusi.

Anche Caterina si mise a stringere gli occhi e osservare. Più si sforzava di vedere, e più le pareva di avere le allucinazioni.

“Ma che stanno facendo?” chiese, attonita.

“Sembra che sfilino davanti alla porta e poi proseguano.” provò a dire Scipione Riario, uno di quelli con la vista più aguzza: “Difficile capirne il motivo.”

La Sforza non disse più nulla. Non perse nemmeno altro tempo a guardare. Non potevano sapere se il nuovo governo avesse stretto degli accordi coi francesi, se quella fosse una rassegna, o se, semplicemente, il Borja per il momento ancora non si fidasse a entrare in città, ma volesse ugualmente mostrare la numerosità del suo esercito.

“Aspettiamo.” decretò, a voce bassa, la donna, quando Scipione le domandò che avrebbero dovuto fare: “Aspettiamo la luce dell'alba. Vediamo cosa faranno. Quando entreranno in città e si sistemeranno, solo allora potremo capire meglio come muoverci.”

 

I due emissari del Consiglio dei Venti, male informati, o forse fuorviati da qualche delatore, avevano inseguito per quasi un giorno il Borja, senza capire che il Duca aveva fatto quasi un giro attorno alla città. Arrivarono al suo cospetto solo la mattina del 18 dicembre, e gli consegnarono ufficialmente i capitoli di resa della città.

Cesare, saputo che il Vescovo Dall'Aste era uno dei due portavoce di Forlì, aveva accettato di incontrarlo davanti a un grande pubblico composto perlopiù da suoi soldati, in San Martino, sulla strada, e aveva letto a voce alta i capitoli, firmandoli all'istante.

“Ecco, fatta tra noi la pace, non resta che vedere quanto siete ben intenzionati verso la Santità del pontefice. Ho due bandi che dovrete portare ai vostri concittadini, affinché vengano letti e rispettati.” annunciò Cesare, ignorando platealmente i tuoni che si udivano in lontananza: “Il primo comanda ai contadini che portino in San Mercuriale due lunghe fascine verdi per ciascuno, travicelli e altri legni. I portatori devono essere pagati.”

Il Vescovo Dall'Aste prese in mano il primo bando e annuì, senza osare né ribattere né commentare.

“Il secondo – riprese all'istante il Borja, scostando con un soffio una ciocca di capelli che il vento gli aveva fatto scivolare sulla fronte – proibisce di crescere il prezzo dei commestibili con il pretesto dell'arrivo del mio esercito: tre libbre di pane costeranno un bolognino, e il vino dovrà sempre costare venti soldi al barile.”

“Siete un uomo giusto.” sussurrò il Vescovo, prendendo anche il secondo bando e mettendolo al sicuro assieme al primo nella bisaccia che portava a lato della sella.

Il Valentino si sistemò la berretta con piuma che portava in capo e poi, osservando il cielo minaccioso, guardò un'ultima volta i due forlivese e concluse: “Dite al vostro Capo Gonfaloniere, messer Numai, che da domani sarò ospite in casa sua. Abbia la compiacenza di non farmi trovare una topaia, ma un alloggio degno del mio rango e della mia persona.”

Il Vescovo deglutì e chinò il capo, tenendo con difficoltà le redini del cavallo, che si era agitato per colpa di un altro tuono, questa volta molto più vicino a loro: “Sarà fatto, mio signore.”

 

Galeazzo guardava fuori dalla finestra, in silenzio, osservando con attenzione l'andirivieni della strada di Firenze che scorreva davanti al palazzo di Alessandra Scali. Anche se dal cielo cadeva una leggera pioggerella, la vita pulsava come un cuore impossibile da placare.

Gli sembrava impossibile che in quella città tutto trascorresse come sempre, con tranquillità e vivacità, mentre nella sua terra, in Romagna, a Forlì, dove ancora stava sua madre, gli uomini si facessero guerra.

Quel 18 dicembre, il giovane Riario compiva quattordici anni. Se n'era ricordato all'improvviso quella mattina, quando si era svegliato nel suo nuovo letto, chiamato dalla padrona di casa che, con dolcezza, gli aveva detto che era mattino. E da lì non aveva fatto altro che maledire la sua data di nascita, perché era certo che, se fosse nato solo un paio d'anni prima, sua madre gli avrebbe permesso di starle accanto e combattere per lei.

Lui e i suoi fratelli erano arrivati in città la sera prima. Erano riusciti a entrare senza farsi notare troppo, grazie a Fortunati, che li aveva scortati fin dalle prime campagne fiorentine, fino al portone d'ingresso. L'uomo non aveva voluto dire se la guardia all'ingresso della città fosse corrotta o se, semplicemente, lui e la Tigre avessero precedentemente concordato di non fare troppo mistero dell'arrivo dei giovani Riario a Firenze. I figli della Sforza non fecero domande: lo seguirono e basta, cercando comunque, inconsciamente, di non farsi notare troppo da nessuno.

Il viaggio era stato tutto fuorché agevole o comodo, ma erano riusciti ad arrivare incolumi fino a destinazione. Lo stesso piovano si era detto sorpreso di vederli arrivare tutti quanti sani e salvi.

“Galeazzo...” la voce di Bianca ridestò il ragazzino, che, troppo perso nei suoi pensieri, non si era nemmeno accorto dell'arrivo della sorella: “Se vuoi è pronta l'acqua per il tuo bagno.”

Potersi lavare era stata una delle prime richieste del Riario, al loro arrivo, ma, di fatto, la sera prima si era addormentato non appena aveva toccato per un attimo il letto, e nessuno aveva avuto più il cuore di svegliarlo per un bagno. Così Alessandra Scali aveva chiesto ai suoi servi di provvedere quella mattina a preparargli il necessario.

“Quando andrete via, tu e Giovannino?” chiese Galeazzo, lasciando a malincuore la finestra.

La giovane deglutì. Lei e la donna che li ospitava tutti – non senza pericolo – era stata chiara. Era ben disposta a tenerli in casa sua, ma il piccolo Medici era l'ospite più difficile da tenere nascosto a Lorenzo. Non voleva passare dei guai con l'uomo più influente di Firenze e quindi era necessario che il piccolo raggiungesse il convento delle Murate prima di sera.

“Penso tra un paio d'ore al massimo. Dubito che ci terranno qui anche solo fino a sera.” spiegò Bianca, incrociando le braccia sul petto: “Madonna Scali sta facendo cercare degli abiti da bambina per nostro fratello, per confondere chi dovesse per caso fermarci per strada... E poi ce ne andremo.”

Il Riario fece un cenno d'assenso con il capo e poi, dando ancora uno sguardo alla sorella, mentre l'affiancava per andare nella stanza accanto a lavarsi, le sussurrò: “Quando sarete lì, spero di potervi venire a trovare.”

“All'inizio sarebbe meglio di no.” lo contraddisse la giovane, pur dispiacendosene: “Meno collegamenti lo zio di Giovannino farà tra voi tutti e il convento e meglio sarà.”

Mentre il fratello minore le dava ragione e poi spariva per andare a lavarsi, Bianca si morse il labbro e tornò di sotto, dove l'aspettavano gli altri suoi fratelli. Erano tutti tesi e non riuscivano a capire fino a che punto potevano fidarsi.

Nella saletta c'era anche Fortunati, che stava parlando a bassa voce e fittamente con Alessandra, la moglie di Michele Marulli. La Riario avrebbe voluto chiederle di vedere la sala delle letture, di sfogliare e leggere qualcuno dei tantissimi libri di cui il bizantino le aveva parlato, quando ancora era a Ravaldino. Però sapeva che il momento era grave, e che non era il caso di rendersi inopportuna con quel genere di richieste.

Così si andò a sedere in buon ordine accanto a Sforzino, sistemato sul divanetto vicino al camino.

Il ragazzino era stato in difficoltà per buona parte del viaggio, Bianca se n'era accorta, ma non aveva voluto darlo a vedere. Forse solo lei l'aveva sentito piangere, di notte, quando si fermavano per riposare.

Giovannino era seduto sul tappeto, e guardava ipnotizzato Bernardino che faceva boccacce al solo fine di divertirlo. Il Feo era stato il più tranquillo di tutti, lungo il tragitto. Era guardingo, attento, e non aveva mai dato problemi. Alla Riario sarebbe piaciuto sapere che cosa sua madre gli avesse detto, per convincerlo a comportarsi in modo tanto esemplare.

Bernardino sentì gli occhi della sorella puntati addosso e sollevò lo sguardo verso di lei, incrociando per un attimo i suoi occhi blu scuro. Avrebbe voluto poterle dire che nella sua anima si agitava un fuoco tale che, fosse dipeso solo da lui, avrebbe divampato come un incendio, portandolo a fare qualche pazzia, magari addirittura portandolo a tornare a Forlì dalla loro madre e a combattere per lei. Però, anche se aveva appena nove anni, il piccolo sapeva che la sicurezza dei suoi fratelli dipendeva anche dal suo atteggiamento e non si sarebbe mai perdonato di averli messi in pericolo per qualcosa di tanto stupido.

“Sì, sì, certo capisco.” stava dicendo Fortunati, sempre bisbigliando, ma apparendo abbastanza tranquillo, come se anche lui fosse certo che, ormai, la parte più difficile del progetto fosse andata a buon fine: “Ho parlato ieri con la Madre Superiora e dovrebbe essere tutto sistemato.”

Bianca, nel carpire quelle poche parole, sentì la bocca seccarsi. Sapeva che stavano discutendo di lei e Giovannino e del loro destino. Era felice di potersi occupare di suo fratello, ma, ora che era riuscita ad arrivare viva e in salute a Firenze, avrebbe voluto poter condurre una vita normale, magari cercando anche di scoprire se si potesse far qualcosa per aiutare la madre nella sua battaglia solitaria.

Chiudersi in un convento di monache non le pareva una prospettiva tanto lieta, malgrado la Contessa stessa avesse cercato di rincuorarla, settimane prima, spiegandole che probabilmente avrebbe potuto condurre una vita discretamente normale.

Le tornò in mente anche di quando la Tigre le aveva fatto capire che alla Murate, se avesse voluto, muovendosi nel modo giusto avrebbe potuto addirittura trovare un uomo, se l'avesse voluto, dato che la maggior parte delle monache erano di famiglia ricca e nobile e difficilmente rinunciavano a togliersi certe voglie.

Quel pensiero improvviso, la portò a ripensare al soldato che aveva lasciato a Ravaldino e alla notte che aveva passato con lui, l'ultima che avesse trascorso alla rocca. Quei ricordi le erano stati utili anche mentre era in marcia con i suoi fratelli verso Firenze. L'avevano distratta nelle lunghe notti insonni, e le avevano scaldato il cuore mentre metteva un piede davanti all'altro lungo la via.

“State meglio?” chiese Alessandra Scali, guardando Ottaviano, che era appena entrato nel salone.

Il giovane, che indossava degli abiti che la padrona di casa gli aveva gentilmente offerto, annuì e rispose: “Sto meglio, grazie. Lo stomaco... Mi dava noia.”

La donna fece un sorriso condiscendente e poi tornò subito a parlare con Fortunati. Il ventenne, di contro, stirò un po' le labbra e, passandosi una mano tra i capelli che arrivavano alle spalle, fece un cenno di saluto anche al piovano.

Il Riario si andò a sedere pesantemente accanto alla sorella e poi la guardò con insistenza, tanta che Bianca fu portata a chiedere: “Che c'è?”

“Ho scritto a Cesare di raggiungerci.” soffiò Ottaviano, distogliendo in fretta lo sguardo e puntandolo verso Bernardino e Giovannino che continuavano a giocare sul tappeto.

“Che hai fatto..?” la giovane era attonita.

Si era discusso, in effetti, se fosse il caso o meno di far andare anche Cesare a Firenze, ma alla fine si era deciso che sarebbe stato Fortunati a scegliere il modo e i tempi in cui farlo. L'iniziativa del fratello maggiore era quindi fuori luogo e potenzialmente pericolosa.

“Quello che andava fatto, né più né meno.” ribatté il Riario, avendo cura di tenere la voce bassa, in modo da non insospettire Fortunati e la Scali, che stavano ancora discutendo: “Prima arriverà e meglio sarà. Nostro fratello è un uomo importante, è un uomo di Chiesa. Saprà come muoversi. In fondo, è la Chiesa che ha fatto guerra a nostra madre. Chi meglio di uno come lui può...”

“Madonna Bianca...” Alessandra si era appena alzata e, dedicando un sorriso un po' triste alla sua ospite e poi a Giovannino, che aveva immediatamente smesso di interessarsi a Bernardino per fissare lei, decretò: “Crediamo sia meglio che prepariate le vostre cose e andiate subito al convento.”

 

“Si può sapere oggi cos'hai?” chiese Alessandro Sforza, avvicinandosi alla sorella.

Caterina era nell'armeria da un paio d'ore. Stava facendo il filo a una spada dopo l'altra, ignorando il fatto che molte di essere fossero già perfettamente affilate, e lo stava facendo con una rabbia che non era passata inosservata.

Era stato Francesco Roverscio il primo a domandarsi a voce alta il perché del pessimo umore della Leonessa. In quei giorni, tutti erano tesi e lei era famosa per non essere mai particolarmente allegra, ma quel 18 dicembre la Contessa pareva essersi svegliata con un diavolo in corpo. Anche altri si interrogavano sul perché della sua indisponenza, temendo che si trattasse di qualche fatto grave che potesse coinvolgere anche loro, e a nulla erano serviti di tentativi di Marulli e del Fosco Berlise di distogliere l'attenzione di tutti da quel fatto.

Se il primo sosteneva che la Sforza fosse tesa perché il Borja stava per entrare in città e che, quindi, non vi fosse nulla di strano nel suo comportamento, il secondo aveva liquidato tutti dicendo solamente: “Saranno affaracci suoi!”

“Ancora un po' che fai il filo a quella lama e resterai con in mano uno spillo...” provò di nuovo Alessandro, indicando l'arma.

Irritata, la donna, che già da un po' aveva capito di essere al centro delle chiacchiere dei suoi uomini, gettò lo spadone sul tavolo e poi, alzandosi di scatto, ribatté: “Non hai di meglio da fare che controllare quello che faccio io? Vai sui camminamenti. Ti assegno alla ronda fino a stasera.”

Il fratello aprì la bocca, deciso a ribattere, soprattutto perché sentiva tutti gli occhi dei soldati presenti nell'armeria puntati addosso e non voleva dar mostra di essere disposto a farsi trattare a quel modo da una donna, benché fosse sua sorella.

“Non provare a dire nulla.” lo anticipò però la Contessa, sollevando minacciosa un dito: “Sei ai miei ordini. Non siamo più bambini. Adesso comando io.”

Caterina lasciò in fretta quell'ambiente che le sembrava così chiuso e claustrofobico da darle la nausea e cercò riparo nelle stalle. La verità era che quel giorno non stava bene da nessuna parte. Si era ricordata del compleanno di suo figlio Galeazzo e quel pensiero sembrava non volerla lasciare mai.

Non sapeva nemmeno se il ragazzino fosse ancora vivo o meno. Sperava fosse già a Firenze, ma, di fatto, poteva essergli capitata qualsiasi cosa.

Arrivata davanti al suo purosangue, la donna gli accarezzò il muso, apprezzando il respiro caldo che usciva dalle sue froge e lo sguardo profondo dei suoi grandi occhi. Sentì uno degli stallieri passarle accanto, senza dirle nulla. Apprezzò il silenzio di quella stalla e così, benché avesse delle cose da fare, restò lì fino a sera inoltrata a pulire sotto i cavalli e a sistemare la biada fresca nelle mangiatoie.

C'era già buio e dal cielo erano già arrivati due brevi acquazzoni, l'uno di fila all'altro, quando il castellano andò a cercarla.

“È successo qualcosa?” chiese la Sforza, intravedendo nel volto di Bernardino da Cremona una certa gravità.

“Ecco, mia signora...” fece l'uomo, indeciso su come proseguire: “Da quello che riportano i nostri osservatori, pare che oggi buona parte dell'esercito francese si sia stanziata in San Martino, negli edifici che non erano stati abbattuti.”

Caterina si morse il labbro. Sapeva di essere stata troppo morbida, con chi non aveva eseguito immediatamente i suoi ordini. Se tutti avessero fatto quello che lei aveva chiesto, non ci sarebbero state né case né cascine a dare ospitalità ai francesi e quindi i soldati del Borja avrebbero dovuto o piantare un campo, o entrare in città, permettendole di iniziare prima le sue mosse di difesa.

“Me l'aspettavo.” disse, alla fine, con un filo di voce.

“Avete disposizioni?” chiese il castellano, deglutendo.

“Le avevo, e non tutti le hanno rispettate.” controbatté lei, acida: “Ora è tardi, per prendere provvedimenti.”

“Intendevo...” fece Bernardino, ma non riuscì ad andare oltre, perché la Contessa si era appena lasciata andare a un deliquio denso di imprecazioni e bestemmie, tanto colorite e volgari da far impallidire perfino gli stallieri che ancora si stavano affaccendando attorno ai cavalli.

“Adesso levatevi di mezzo!” sbraitò alla fine la Tigre: “E venitemi a cercare solo se avete qualcosa di veramente importante da dirmi!”

Non appena il castellano se ne andò, la Sforza dedicò un'occhiataccia anche a tutti gli stallieri e garzoni di stalla che si erano messi a fissarla. Sapeva di aver reagito in modo esagerato e inutile, ma non era riuscita a trattenersi.

“Che si inizi presto a combattere – disse la donna, mentre il suo stallone batteva irrequieto in terra lo zoccolo, come a darle ragione – perché se andremo avanti così, sarà difficile non esplodere...”

Nessuno dei presenti commentò, anzi, tutti tornarono alle loro occupazioni, e così anche la Leonessa, forte della tranquillità di quelle stalle, tornò in silenzio e lasciò le stalle solo a tarda notte.

 

La mattina di quel 19 dicembre, Cesare Borja mandò un messaggero agli Anziani, per far sapere che nel pomeriggio sarebbe infine entrato in città con tutto il suo esercito.

Le disposizioni date dal Valentino erano molto chiare e dettagliate e riguardavano non solo l'accoglienza che gli si sarebbero dovuto tributare, ma anche e soprattutto gli alloggi che lui e i più eminenti membri del suo seguito avrebbero occupato.

Non era stato facile, in realtà, per il figlio del papa, decidere. Si era fidato soprattutto di quanto gli aveva riferito Tiberti e, poi, aveva espressamente detto ai suoi che se qualcuno si fosse trovato male avrebbe punito Achille, oltre che il padrone di casa manchevole. Nei giorni a venire, inoltre, voleva incontrare quell'Andrea Bernardi di cui aveva sentito tanto parlare e che, ne era certo, gli avrebbe raccontato molte cose utili riguardo Forlì e i suoi abitanti.

Per il momento, comunque, il Duca di Valentinois aveva scelto per sé la dimora di Luffo Numai.

La letture dell'elenco delle altre sistemazioni aveva causato non pochi tuffi al cuore, ai membri del Consiglio dei Venti e agli Anziani presenti, ma il messaggero non si era fermato nemmeno quando un paio di loro erano quasi svenuti, nel sentirsi chiamare in causa.

La lista era puntigliosa e precisa e destinava per il Saint-Just la casa di Bernardino Becchi, per l'Alègre quella di Guglielmo Lambertelli, per monsignor Sandé quella di Francesco Serughi, per il Balì di Digione quella di Marcantonio Paolucci, per Pirote, Capitano di duemiladuecento fanti, la casa di ser Andrea Valeria, per Don Giovanni Incardona, spagnolo, quella di Cristofano Trombetta, per il Capitano Uberte quella di Giorgio Castellina, per Monsignor de Samprè la dimora di Antonio Guarino, per Monsignor Prevosto quella dell'erede del banchiere Antonio Giuntino, e così via per i tanti Monsignori, che sarebbero andati a occupare case dei Galvani, dei Provelle, dei Miranda e di altri nobili minori, finanche di Girolamo Numai.

Finiti i palazzi degni di tal nome, si sarebbe ospitato Giovanni Pecenino nella Chiesa del Carmine.

I soldati, invece, si sarebbero trovati da soli alloggio nelle case dei forlivesi e nei conventi, e nessuno avrebbe avuto il permesso di lamentarsene o di impedire loro di accamparsi dove meglio credevano.

Attoniti e sbigottiti, i Consiglieri e gli Anziani avevano ascoltato tutti e avevano piegato il capo agli ordini mandati dal loro nuovo signore, chiedendosi se quella sarebbe stata la parte più difficile, o l'inizio della fine.

Nel pomeriggio, la pioggia aveva iniziato a cadere incessantemente, e il Borja aveva ritardato fino a sera inoltrata il suo arrivo, nella speranza che smettesse. A Porta San Pietro non c'era praticamente nessuno ad attenderlo, malgrado le sue disposizioni. Il temporale sembrava aver fatto desistere tutti quanti.

Il Valentino, comunque, cavalcava sicuro, con un berretto vistoso in testa, per farsi riconoscere, su cui spiccava un'enorme piuma bianca.

Alla sua destra non aveva voluto nessuno, mentre alla sua sinistra cavalcava Yves D'Alègre. Alle loro spalle, gli altri comandanti, i religiosi, i nobili e infine la truppa, sempre più confusa e sparsa man mano che si avvicinava alla coda del corteo.

Cesare sapeva bene che fare, gli era stato spiegato accuratamente. Era fondamentale, gli avevano detto, che facesse tre giri attorno alla piazza cittadina e che poi si sottoponesse al furto del cavallo, perché solo in quel modo sarebbe stato riconosciuto come signore di Forlì.

Il figlio del papa non si riteneva un codardo, tanto meno un uomo debole. Eppure, quando attraversò le vie della città vedendosi scrutare dalle finestre mezze chiuse o dai pochi che avevano avuto il coraggio di restare al buio e sotto la pioggia per vederlo, avvertì una sensazione così spiacevole da volersi sottrarre a quell'assurdo rituale.

“Che volete che importi... Tre giri di piazza!” sbottò, quando il Bourbon, Duca di Vendôme, lo incitò a mettersi all'opera: “Sono dei bifolchi! Impareranno a suon di bombarde che mi devono obbedire!”

“Non siate sciocco!” lo riprese l'Alègre, che, a sua differenza, era un uomo d'armi fatto e finito e non temeva di cavalcare sotto il diluvio: “Tanti sforzi per questa campagna e mandate tutto all'aria per un capriccio?”

Punto sul vivo, accorgendosi che in effetti i forlivesi erano comparsi come dal nulla tutt'attorno alla piazza al solo scopo di vedergliela correre per tre volte, il Borja sbuffò, strinse le redini con maggior forza e gridò: “E sia!”

Partì in volata, ma fece rallentare subito il cavallo quando si accorse che gli zoccoli scivolavano sul terreno fangoso. Curvando, rallentò di nuovo, dicendosi che non poteva certo cadere e immaltanarsi tutto davanti a così tanta gente. Alla fine del primo giro, si fermò, convincendosi da solo che non valeva la pena di rischiare la vita per un teatrino inutile.

Fece un cenno al Duca di Vendôme, ignorando la folla che reclamava almeno di procedere con il furto del cavallo, e sbottò: “Andiamocene! Piove, fa freddo, e domani saremo in guerra! Voglio riposare! A palazzo Numai!”

E così, seguito dal Bourbon, incurante della pessima figura, ignorando l'esercito che continuava a sfilare per Porta San Pietro invadendo la città, Cesare raggiunse il Canton del Gallo, trovò la casa di Luffo e si fece aprire il portone. Ordinò una lauta cena e scelse personalmente in che camera dormire.

Intanto, per le vie di Forlì, i suoi uomini entravano in ogni porta trovata aperta, forzavano tutte quelle rimaste chiuse, si infilavano in ogni pertugio, strappando il cibo dalla bocca dei forlivesi e scassinando ogni forziere o cassapanca che riuscissero a trovare. Peggio di loro erano solo i tremila componenti del seguito, osti, cuochi, canaglie della peggior specie, donne di bordello e ragazzini che avevano fatto del furto la loro professione. Nessuna bottega si salvò dal saccheggio più selvaggio.

Prima che fosse l'alba, il Palazzo del Pubblico andò tutto a soqquadro, la sala grande degli Anziani fu ridotta a osteria, le panche furono bruciate. L'ufficio delle tasse e la caserma delle guardie cittadine furono ridotti a beccheria.

Un gruppo di soldati particolarmente scalmanati raggiunse San Domenico. Con qualche piccola artiglieria, gli uomini buttarono giù il muro del canto, dilagando nel convento delle monache. Le donne, terrorizzate, andarono alle campane, suonandole all'impazzata e gridando, ma nessuna di loro sfuggì alla violenza degli assalitori.

Dalla rocca, unica risposta al grido disperato della città, partirono in rapidissima successione molti colpi di cannone, ma tutti rivolti a punti non sensibili, come se si sparasse alla cieca e si temesse di colpire un amico.

A un certo punto, le grida delle Domenicane si ruppero in pianto e in lamenti sordi, i bottegai rinunciarono a difendere le loro merci, i cittadini non provarono più a tener chiuse le porte. E, apparentemente acquietatosi tutto, anche i colpi d'artiglieria di Ravaldino cessarono.

In tutto questo, il Duca di Valentinois, già coricato in un bel letto a baldacchino, con la pancia gonfia di cibo e vino e con stesa accanto una delle serve di Luffo Numai, con il volto gonfio per le percosse e gli occhi ancora umidi di lacrime, dormiva beato come un bambino.

 
   
 
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