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Autore: Freya_Melyor    28/02/2020    9 recensioni
~ Prima classificata al contest originale "Voglia di tè" indetto da Inchiostro_nel_Sangue & elli2998 ~
Dal testo:
"[...] perché la sconfitta è più facile della vittoria, perché accontentarsi è più semplice rispetto all'avere pretese che potrebbero non realizzarsi, perché metà non è un intero ma è meglio di niente. Perché tu sei così, un debole. Perché io non sono mai stata nulla, né un'amica, né un'amante, né niente di tutto ciò che avrei potuto essere. [...]"
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Macchiato

 

«Che ne dice di un bel tè verde con scorze di limone e zenzero?»

Entro nel bar lasciando in terra una scia d'acqua che mi segue fino al tavolo più lontano e appartato che riesco a trovare; subito si palesa la cameriera, una ragazza decisamente iperattiva che presto mi assale con fare insistente prima ancora che possa togliermi il soprabito zuppo di pioggia.

«Prendo un caffè» rispondo quieta.

«Mi creda, il tè che le ho proposto è un toccasana e lei... beh, zuppa com'è... le farebbe bene qualcosa di caldo».

«La ringrazio, ma voglio solamente un caffè».

La ragazza sorride spavalda, evidentemente non è abituata a essere contraddetta. «Se non gradisce scorze di limone e zenzero, posso proporle qualcosa di più dolce: un tè verde aromatizzato alla mandorla che, oltre a conferire la nota zuccherina, è ricco di proprietà benefiche per...».

«Un caffè» la interrompo. Sfortunatamente per lei, non è la serata adatta per sfidare la mia pazienza già al limite della sopportazione. Purtroppo la vedo riprendere fiato e, prima che possa controbattere, parlo di nuovo: «Ho detto che voglio un caffè!» ripeto stizzita, lanciandole uno sguardo che non ammette repliche.

«Arriva subito» dice mortificata, girando i tacchi e scomparendo alla mia vista.

Sfinita mi abbandono sul divanetto in pelle, volto la testa verso la finestra e rimango a osservare le gocce che s'infrangono sul vetro: alcune, a causa delle forti raffiche, si schiantano con velocità dando vita a tanti piccoli frammenti d'acqua; altre invece, quando il vento placa il proprio soffio, si posano illusoriamente calme sulla superficie liscia e rimangono lì, pregne di un carico che presto le trascinerà verso il basso.

È così che mi sento, esattamente come la pioggia che mi ha bagnata in questa notte fredda e vuota, caricandomi di un peso aggiunto a quello che già porto, rendendomi pericolosamente vulnerabile. È solo questione di tempo prima che le ultime forze rimaste mi lascino, facendomi cadere sulle ginocchia che si spaccheranno insieme alla schiena ormai stanca di reggere un onere divenuto insostenibile; eppure sono consapevole di dover impiegare un ultimo sforzo che getterà altra benzina sul fuoco. Devo farlo.

Porto alla mia attenzione la lettera che ho tenuto stretta tra le mani per tutto il tempo e che lungo il tragitto, al contrario di me, non si è sgualcita affatto: nonostante l'acquazzone, lo spesso cartoncino perlaceo non è stato intaccato e sembra scintillare prepotente nella semi-oscurità dell'angolo che ho scelto per non essere disturbata, quasi a riprova della supremazia esercitata sulle mie risorse giunte allo stremo; stento a comprendere se le lettere argentee citanti il mio nome siano stampate o scritte a mano, l'unica cosa chiara è l'eleganza con cui sono state tracciate. Giro la lettera, guardo nuovamente il sigillo che la chiude e una pesante angoscia mi scombussola ancora: nella ceralacca satinata sono impresse due iniziali intrecciate tra loro che anticipano il contenuto della busta.

«Ecco a lei». La cameriera poggia il caffè sul tavolo e si dilegua; non aspetta neanche che la ringrazi, conscia probabilmente che non l'avrei fatto. Prendo la tazzina e per un attimo mi beo del calore che emana, lasciando che mi riscaldi per quanto possibile. L'avvicino al naso e inspiro l'aroma della miscela, un particolare mix di diversi caffè servito solamente in questo bar. Me ne sono innamorata da subito, fin dalla prima volta che l'ho assaggiato, quando ho messo piede in questo locale un giorno di cinque anni fa.

Non riuscivo a capacitarmi del perché mi avessi dato appuntamento in un luogo così distante, come se nelle vicinanze di casa non vi fossero bar. Avevi utilizzato il caffè come scusa, dicendo che come questo non ne avrei trovati, e all'inizio avevo pensato fosse vero: il posto di per sé non aveva nulla di particolare, ma la miscela era veramente superba. Non sapevo ancora che col tempo avrei dovuto ricredermi, incapace di mandar giù il boccone, proprio io che ho sempre prediletto i gusti amari.

A tale ricordo, l'odore emanato dallo scuro nettare mi dà allo stomaco; prontamente poso la tazzina e riprendo in mano la lettera: se proprio deve assalirmi, tanto vale dare un senso concreto a questa nausea. Stacco decisa il sigillo di ceralacca e mi dispiaccio nel notare che è rimasto integro invece di spezzarsi come avrei desiderato. Estraggo il contenuto della busta e, per l'ennesima volta, percepisco un dolore che mai avrei immaginato di poter provare così intenso e lacerante: se la vista delle sole iniziali aveva creato delle crepe nella mia persona, leggere i vostri nomi per intero rende ancora più profonde le lesioni. Mentre gli occhi scorrono veloci sulla calligrafia elegante, ecco che il colpo di grazia riduce in polvere il mio animo ridotto ormai in pezzi:

 

...annunciano con gioia il loro matrimonio...”

 

Arresto di botto la lettura. Sento lo stomaco in subbuglio mentre un implacabile tremore mi sconquassa dalla testa ai piedi; tipico di me e del mio modo di somatizzare, tremo sempre quando sono nervosa. Ricevere questo maledetto invito è stato come essere pugnalata in pieno petto.

Un lampo squarcia il buio della notte, seguito da un tuono fragoroso che rimbomba nel silenzio; mi sento folgorata, come se quel bagliore mi avesse trapassata da parte a parte, carbonizzando la me interiore e rendendomi d'improvviso inutilizzabile. Cerco di riassumere un minimo di controllo e nascondere il carbone che mi porto dentro, ma il nero che mi avvolge è visibile dall'espressione cupa che aleggia sul mio volto e nel mio sguardo.

Non so bene per quale motivo la stia prendendo in questo modo, d'altronde ho sempre saputo che prima o poi avreste compiuto il grande passo. Per quanti sforzi abbia impiegato nel corso degli anni, sapevo anche che non saresti mai cambiato e che alla fine avresti dichiarato la resa nei confronti di questa vita che dici di non gradire al cento per cento, ma che non hai mai avuto voglia di mutare... perché la sconfitta è più facile della vittoria, perché accontentarsi è più semplice rispetto all'avere pretese che potrebbero non realizzarsi, perché metà non è un intero ma è meglio di niente. Perché tu sei così, un debole. Perché io non sono mai stata nulla, né un'amica, né un'amante, né niente di tutto ciò che avrei potuto essere.

Un ghigno beffardo mi spiega le labbra sbavate di rossetto mentre un greve sospiro mi scuote i polmoni. Hai anche avuto il coraggio di invitarmi, dannato bastardo. Istintivamente giro la testa, tornando a osservare la pioggia che s'infrange sull'asfalto e sulla finestra, illudendomi di poter contenere le lacrime che lottano per uscir fuori. Resisto per un po' ma alla fine cedo. Sono stanca, stanca di lottare per un qualcosa che è sempre stato indefinito e che si è rivelato effimero, lasciandomi la consapevolezza di essere stata l'unica a combattere una guerra la cui vittoria o sconfitta non fa alcuna differenza. Così come i pensieri, i lucciconi fluiscono senza che possa farci niente, carichi di un dolore al quale non so dare una spiegazione; scendono e mi rigano le gote, proprio come le gocce d'acqua che rigano da ore il vetro. E di nuovo mi sento esposta alla vita e alle sue sofferenze, spoglia dell'armatura che solitamente indosso per proteggermi dal mondo.

Una volta eravamo amici, poi qualcosa è cambiato e il rapporto si è incrinato per sempre. Nonostante la consapevolezza dello sbaglio, nessuno dei due è mai riuscito a fermarsi, neanche quando la situazione è diventata insopportabile. Abbiamo continuato a perseverare nell'errore trasformandolo in una matriosca, commettendo un fallo dopo l'altro e imprigionandoli tutti nello sbaglio più grande: il silenzio. Spesso mi sono chiesta cosa sarebbe cambiato se avessimo parlato chiaro, invece abbiamo preferito continuare a vivere e viverci in silenzi eloquenti di un'eloquenza distorta e confusa. Confusa, sì, perché non abbiamo mai saputo con esattezza cosa volessimo dall'altro, forse perché siamo nati come amici. Questa è la spiegazione che continuo a darmi nonostante la coscienza batta prepotente come la pioggia che seguita a scrosciare in questa notte del giudizio: la verità è che non c'è mai stato un tempo per noi, sebbene la forte attrazione che si è scatenata senza chiederci il permesso e che continua a farci mancare il respiro ogni volta che ci incontriamo. La tranquillità non ci ha mai graziati contemporaneamente, passando da me o da te ma mai da entrambi nello stesso momento. Oppure, molto più semplicemente, nessuno dei due credeva potesse concretizzarsi quello che abbiamo scoperto essere un pensiero proibito comune ad ambedue; per questo ci siamo trovati spaesati quando ha preso forma e, rimanendo disorientati, non abbiamo saputo gestirlo.

Quando nulla era ancora accaduto, sapevo cosa provavo nei tuoi confronti e ti volevo bene come si vuol bene a un amico. Ma dopo aver dato vita insieme a te al più grande casino nel quale mi sia mai cacciata, tutto è cambiato: ho smesso di reputarti come un semplice amico senza però riuscire a dare un'etichetta al ruolo che hai cominciato a ricoprire; ho smesso di volerti bene in modo smaliziato e ho iniziato a provare un sentimento indefinito che, col tempo, non ha fatto altro che ingigantirsi e peggiorare... forse perché non ho mai capito di cosa si trattasse, o forse perché mi sono sempre imposta di non approfondire la questione in quanto farlo avrebbe significato perderti.

E qui, devo ammetterlo, sono stata una debole proprio come te. Piuttosto che perderti per sempre, mi sono accontentata di averti solamente un pochino e nei momenti in cui eri disposto tu, come quando mi hai proposto di incontrarci in questo bar perché lontano da occhi indiscreti. Eppure, ora che stringo tra le mani l'invito alle tue nozze, mi rendo conto di averti perso da molti anni, da quando le mie labbra e le tue si sono fuse in un bacio che non avrebbe mai dovuto prendere luogo. Non ci siamo mai appartenuti veramente come credevo ci appartenessimo e se fossimo... se fossi stata un tantino meno annebbiata da te, l'avrei capito da un sacco.

D'impulso faccio a pezzi l'invito e la busta perlacea rimasta precedentemente intatta, prendendomela con quel rettangolo di carta che mi ha beffeggiata per tutto il tempo col suo candore e la sua perfezione; distruggo il sigillo di ceralacca disintegrandolo con forza, conscia di essere la vera colpevole per aver permesso a te e a me stessa di farmi del male in questo modo, edotta dello sbaglio e tuttavia autolesionista. La tristezza cede il posto alla rabbia, ma il dolore rimane vivido a ricordarmi quanto sia stata stupida. È un dolore diverso, più profondo e maturo.

Poggio le mani sul bordo del tavolo e, ancora adirata, lo spingo lontano da me. Il piano traballa e, con esso, anche la tazzina che perde stabilità e versa il proprio contenuto. Spontaneamente prendo dei fazzoletti per rimediare al macello combinato, ma rimango stranamente ammaliata nell'osservare il liquido scuro che, con calma, contamina i bianchi brandelli della lettera. Allora capisco che questa è una metafora di quanto successo, di quello che ho lasciato tu compissi sulla mia persona, troppo cieca per rendermi conto di ciò che stava accadendo. La mia colpa è stata quella di cedere e successivamente di non ribellarmi, di darti campo libero sul tempo, sullo spazio e sulle decisioni da (non) prendere. Mentre tu... beh, tu stavi bene col piede destro infilato in un paio di scarpe e col sinistro infilato in un altro paio; hai sempre ottenuto quanto ti serviva e anche di più, concedendoti i piaceri della vita senza curarti dei sentimenti altrui, quasi fossi un Dorian Gray dei nostri tempi. Perché con i miei sentimenti, quindi, doveva essere diverso? Amica o sconosciuta, non ti è mai importato più di tanto.

Al diavolo tu e il tuo maledetto matrimonio!

Mi alzo e mi dirigo al bancone dove la cameriera, ancora leggermente mortificata, attende in silenzio. Intercetto il suo sguardo e tento di scusarmi, sfoderando il tono più gentile che possiedo: «Un macchiato, per favore». Subito provvede a preparare il caffè, poggiando anticipatamente sul bancone piattino e cucchiaino; afferro quest'ultimo e osservo la mia immagine riflessa nell'acciaio lucido: vedo un viso stravolto contornato da una chioma bagnata e guance rigate da un evidente pianto partito da due occhi rossi bordati dal nero del mascara. Non sarà il migliore dei miei giorni, ma di certo lo ricorderò come il giorno in cui ho deciso di addolcire l'amaro della vita con qualche goccia di latte.

   
 
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