Serie TV > Supernatural
Ricorda la storia  |      
Autore: D a k o t a    01/03/2020    12 recensioni
Di quattro volte in cui Sam non capisce e di una in cui capisce.
[Sam &Dean - No incest - pre-serie/S1 - through the years]
[Storia iscritta al contest "Disney Song!" indetto da rosy03 sul forum di EFP]
"Sam abbassa lo sguardo sulle coperte e Dean si trova a pensare che Sam un giorno scoprirà la verità e ne soffrirà da matti; è la loro vita che lo vuole, è inevitabile. Eppure a volte, mentre spia in corridoio la facilità con cui si è fatto degli amici in ciascuna delle sei scuole che avevano cambiato nell’arco dell’anno scolastico, si rende conto che quella piattola del suo fratellino ha un talento: sa stare con le persone, sa farsi volere bene, sa mettere tutti a proprio agio. E’ in momenti come quello che Dean sente, come se fosse una certezza inossidabile che ha dentro, che Sam se la caverà; spera solo che conservi quella incredibile facilità che ha nel rapportarsi con gli altri, quella spontaneità un po’ ingenua, e anche quel po’ di ironia che lo fa essere così piacevole con tutti."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima stagione
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

Un giorno capirai

As you go through life you'll see
There is so much that we
Don't understand
And the only thing we know
Is things don't always go
The way we planned

[We are one, The Lion King]

 

 

 

 

La prima volta che non lo capisce, Sam ha sette anni, è seduto sul letto e sta mettendo su un capriccio allucinante perché non ha nessunissima voglia di andare a dormire - “Dean, sono grande adesso” - e Dean sta davvero valutando di lasciarlo urlare da solo perché lui sì che è grande ma ha sonno e suo fratello non è l’unico ad andare a scuola domani, anche se a volte Sam sembra dimenticarsene.

“Va bene, fai come ti pare” si arrende alla fine, sedendosi sul suo letto perché fra Sam, la scuola e il pensiero fisso di non sapere con certezza che papà stia bene, non può non sentirsi sfinito a quell’ora; ma se le sue energie sono totalmente risucchiate, Sammy invece è più carico di una Duracell. “Ma non venire da me a piangere come una femminuccia pregandomi di non dirlo a papà, domani!”

Il bambino a quelle parole lo guarda con assoluta sorpresa, ma con anche un filo di delusione. Dean sa benissimo che l’unico motivo per cui, ogni dannata sera, pianta sempre un capriccio perché non vuole andare a dormire è perché ha bisogno di affetto e attenzioni e -

“Non me ne importa nulla” dice, ma Dean tira un sospiro di sollievo, nel vederlo scivolare sotto le coperte nel suo lettino singolo. “Se a papà importa così tanto che io vada a letto presto, allora perché lo lascia fare a te?”

E’ in quel momento che Dean scivola fuori dal suo letto per sedersi su quello di suo fratello e rimboccargli le coperte.

Lo fissa negli occhi verdi. Ha molte mancanze, Sam. La prima fra tutte è quella della mamma, la seconda è quella della totale incapacità di papà di amarlo nel modo in cui vorrebbe essere amato.

“Non dirmi che è per questo che sei noioso ultimamente, Sammy” dice, prima di alzare gli occhi al cielo e di abbozzare un sorriso che non è poi così leggero come vorrebbe essere – come dovrebbe essere – perché negli occhi del suo fratellino vi è una conferma più che evidente. “Dannazione, Sammy, sei proprio un caso senza speranza!”

Sam abbassa lo sguardo sulle coperte e Dean si trova a pensare che Sam un giorno scoprirà la verità e ne soffrirà da matti; è la loro vita che lo vuole, è inevitabile. Eppure a volte, mentre spia in corridoio la facilità con cui si è fatto degli amici in ciascuna delle sei scuole che avevano cambiato nell’arco dell’anno scolastico, si rende conto che quella piattola del suo fratellino ha un talento: sa stare con le persone, sa farsi volere bene, sa mettere tutti a proprio agio. E’ in momenti come quello che Dean sente, come se fosse una certezza inossidabile che ha dentro, che Sam se la caverà; spera solo che conservi quella incredibile facilità che ha nel rapportarsi con gli altri, quella spontaneità un po’ ingenua, e anche quel po’ di ironia che lo fa essere così piacevole con tutti. Nel frattempo, sa perfettamente che se Sam sa mettere a suo agio gli altri, c’è altro dietro quella empatia naturale che si ritrova, e che ha un compito: il suo compito è quello di far sentire a suo agio lui, e non solo perché gliel’ha detto suo padre.

“Tu dici sempre che io, te e papà siamo una famiglia” azzarda il minore, titubante, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. “Ma le famiglie stanno insieme, Dean”

E’ quella l’impasse crudele e diabolica in cui sono intrappolati: Sam non ricorda e Dean invece sì– ricorda perfettamente il giorno in cui John gli aveva regalato una pistola, dell’acqua santa e gli aveva portato via suo padre.

“Ehi, ascoltami bene” dice infine, quando il più piccolo dei due trova il coraggio di posare i suoi occhi verdi su di lui. “Ficcati in quella testolina strana che ti ritrovi che noi siamo una famiglia, non importa cosa vedi a scuola”

Sam lo guarda e non è poi così convinto, Dean lo sa. E’ sempre più difficile convincerlo che va tutto bene, che è normale cambiare cinque o sei scuole in un anno, che è normale che papà non ci sia mai; lo è soprattutto quando tornano a casa da scuola e non c’è nessuno ad attenderli. Lo è soprattutto quando qualcuno dei suoi compagni gli chiede cose banali come “Cosa farai nel week-end?” e Sam guarda suo fratello alla ricerca di supporto, con le guance colorate di imbarazzo.

“Allora perché non è mai a casa?Perché non viene mai a prendermi a scuola?Perché?” pigola, con gli occhi fissi sulle coperte che Dean gli ha rimboccato goffamente fino al mento.

C’è una fase dei perché: tutti i bambini la attraversano, tutti. Sam non fa eccezione, peccato solo che la sua fase dei perché è iniziata quando ha cominciato a parlare e, Dean ne è sicuro, non finirà mai; quello ne è un solo tremendissimo ed insopportabile inizio.

“Ci sono tante cose che non riusciamo a capire, adesso, Sammy” dice, arrendendosi, nel tornare nel suo letto. “Ma questo non significa che non siamo una famiglia. E’ un pensiero troppo stupido persino per te”

Dean accenna un sorriso e può vedere le rotelline che lavorano dietro le sue orbite: ci sta ancora rimuginando. Quando ha quella faccia, è perché sta ancora rimuginando. Il maggiore lo sa bene, e non saprebbe dire quando è diventato così normale per lui interpretare gli sguardi e i gesti di Sam. Anche se non lo ammetterebbe mai ad alta voce perché dannazione, non è mica una bambina sciroccata, c’è qualcosa che gli riempe il petto di soddisfazione quando realizza che è l’unico a capire ogni piega del volto di Sam. A dire la verità però, gli dà più soddisfazione quando non ha il volto così pallido e gli occhi così spenti, quando non ha quell’espressione di sofferente coraggio che gli stringe il cuore fino a stritolarlo.

“A volte vorrei un’altra famiglia” ammette a bassa voce il più piccolo e Dean, nel letto singolo accanto al suo, irrigidisce ogni singolo muscolo perché è sempre più agghiacciante accorgersi come ormai una battuta sarcastica come risposta ai suoi dubbi non gli basti, non più.

Non lo sgrida per quello che ha appena detto anche se gli fa male, perché sgridarlo sarebbe invitarlo a reprimere e reprimere, lo sa per esperienza, logorerebbe il minore dentro; si trova semplicemente a sperare che non se ne esca con una trovata del genere con papà.

Sam nel frattempo immagina una casa con pareti bianche e una mamma pronta a consolarlo se cade dalla bicicletta, un padre che lo viene a prendere alla fine delle lezioni e che gli tiene la mano come fa Dean, quando attraversano la strada per andare a scuola. Eppure, a quel pensiero, a quell’immagine idilliaca e perfetta, un’onda di vergogna sembra assalirlo.

“Pensi che sono cattivo perché penso questo, Dean?” gli chiede, come se solo in quel momento si accorgesse di come quel pensiero ad alta voce potesse aver ferito suo fratello, dietro quell’aria incredibilmente composta e impassibile.

Eccolo lì. Il maggiore sa già che se non lo frena subito, beh, ci saranno un bel po’ di lacrime da coccodrillo e di “Scusa-Dean- io- non- volevo!” da calmare e non è davvero preparato per gestire una nuova crisi di pianto.

“No, Sam. Non sei cattivo” gli risponde alla fine, alzando gli occhi al cielo per l’esasperazione e abbozzando un sorriso. “Anche io avrei voluto che papà ti desse in adozione, ma vedi, hai ragione: la vita è ingiusta”

Quella frase gli esce con un tono più melodrammatico di quello che vorrebbe e il marmocchio, cogliendo lo scherzo, ridacchia. Poi improvvisamente Sam si fa più serio, come se dovesse precisare qualcosa e aggiungere un tassello all’immagine di prima.

“Vorrei comunque anche te. In quella famiglia, intendo” afferma, imponendosi una serietà nel pronunciare quelle parole che contrasta decisamente con i suoi sette anni.

Le labbra di Dean non riescono a non incurvarsi in un sorriso a quella affermazione. Perdonargliele tutte sarebbe più difficile, se non se ne uscisse con certe cose così impossibilmente dolci e melense, certe volte.

“Va bene, Sammy, sono felice di far parte anche io del tuo quadretto immaginario sulla famiglia Addams” lo prende in giro, mostrandosi meno toccato di quello che in realtà è. “Peccato che in questa famiglia, dovremmo entrambi star dormendo da un’ora, quindi fila a dormire, Sammy, è tardi”

Certi pensieri rendono il più piccolo dei Winchester così esausto e si sente improvvisamente così stanco, e -

“’Notte, Dean” mormora, prima di mettersi in posizione supina.

Dean lo guarda; Sam obbedisce finalmente e chiude gli occhi, ed è sollevante perché se la giornata di Sam è finita, significa che è finita anche la sua. E che può riposare, finalmente.

Passa un lungo lasso di tempo in cui Dean aspetta che suo fratello si addormenti davvero, prima di permettere a sé stesso di fare altrettanto, ma all’improvviso gli viene in mente una cosa.

“Sai, Sam, non dovresti preoccuparti troppo per papà” mente, incerto su come andare avanti, ma sente solo il silenzio a dominare nella stanza. “Sammy?”

Dall’altro lato, alle sue spalle, nessuna risposta. Dean si volta, per trovare il bambino spaparanzato sul letto e completamente addormentato. Sembra così fragile Sam, in certi momenti. Come se il vento potesse portarlo via, insieme a tutte le sue domande.

“Buona notte, Sammy” sospira, più a sé stesso che a chiunque altro. “Un giorno capirai”

Non è il dieci di agosto e nessuna stella cadente che il maggiore troverebbe comunque stupida attraversa il cielo; eppure nel pronunciare quella frase, Dean, a undici anni, desidera comunque di sbagliarsi - desidera comunque che Sam non capisca mai.

 

 

***

La seconda volta in cui non lo capisce, Sam ha dieci anni e Dean è il suo più grande eroe: non lo è solo perché dorme con una pistola sotto il cuscino, ma anche e soprattutto ogni volta che gli dà ancora la sua porzione di cereali e che gli permette di saltare il suo turno per sparecchiare la tavola quando ha troppi compiti e vuole ripassare - “Non sia mai che ti dimentichi di appuntare tutte le matite prima di domani, Sammy”.

“Sai, papà mi ha chiamato oggi” gli dice un giorno il più grande, mentre gli dà le spalle e infila due pizzette precotte nel microonde. “Sta bene, è andato tutto bene”

Quell’affermazione non può non incurvare le labbra del minore in una smorfia, perché già sente il rumore della sviolinata per papà che sta per uscire dalle labbra di suo fratello.

“Quindi chiama ancora?” ribatte, con un filo di sarcasmo a permeargli la voce.

Dean si volta e guarda Sam, distraendosi dal ticchettare del microonde e ponendo la sua attenzione su di lui. Con un sospiro, gli dà un leggero buffetto sulla spalla. Non è davvero arrabbiato – come potrebbe esserlo? Sam sa la verità da due anni e mezzo e capisce che sia dannatamente difficile e che sia davvero molto, moltissimo da gestire e -

“Piantala di piagnucolare come una ragazzina scema, Sammy” lo riprende, piccato da quell’osservazione. “Siamo una famiglia. E sai che quello che papà fa importante. Presto andrò con lui e potrai aiutarci anche tu e...”

Sam lo guarda prima che possa finire, scuote la testa e stira un sorriso ironico e forzato. Si sente un bambino cattivo ogni volta che Dean lo guarda così e lui sente quella punta insostenibile di rabbia e rancore nello stomaco e forse è per questo che ha ricevuto una famiglia a pezzi e degli incubi dai denti bianchi e gli occhi gialli: perché è un bambino cattivo.

“Qualsiasi cosa io sappia sull’essere una famiglia non l’ho imparata da papà, Dean” lo interrompe il più piccolo, guardandolo negli occhi. “E se non fosse quello che voglio? Se volessi solo essere me e non solo una parte di qualche stupido piano di vendetta di papà?”

Le labbra del più grande sono incurvate in una linea dura ed è così arrabbiato che il più piccolo si chiede se stia valutando di prenderlo pugni, quando il timer scatta e si volta, per poi aprire il microonde e porgergli il piatto con un gesto stanco. Non ha davvero l’energia per spiegargli che papà fa quello che può, e comunque Sam non se la beve più da troppo tempo, ormai.

“Mangia, invece di dire stupidaggini” gli dice, e non c’è nessuna gentilezza nel modo in cui gli porge il piatto e fa per andarsene in camera sua e lasciarlo in cucina. Sam apre la bocca per protestare, ma è quella fermezza e quell’allontanarsi che lo fa rabbrividire, perché cosa succederebbe se anche lui se ne andasse e i mo..mo..mostri tornassero?

E’ il verso esasperato che lascia le labbra di suo fratello che gli fa realizzare la presenza di una lacrima che gli riga la guancia destra.

“Scusa. Mi dispiace” balbetta infine il più piccolo. “Ora la smetto. E’ solo che...”

E’ solo che papà ci ha lasciati qui da soli e i mostri potrebbero prenderci e se te ne vai, io -

Non lo dice ad alta voce, non davvero, ma Dean lo capisce perché si siede comunque al suo fianco, sbuffando.

“Mangia” ripete, con un tono solo leggermente più morbido. “Siamo solo all’inizio. Forse, un giorno, quando non sarai così piccolo e scemo, capirai”

 

 

***

La terza volta in cui non lo capisce, Sam ha sedici anni ed è appena uscito dalla doccia, dopo aver usato lo shampoo al muschio per eliminare ogni traccia di quell’odore di sangue rappreso e di zolfo e carbone – polvere da sparo, ha imparato con il tempo – che si impregna nei loro capelli ogni volta che vanno a caccia, ogni volta che si dedicano all’attività di famiglia, ogni volta che -

“Sammy, dannazione, cosa ti è saltato in mente?”lo rimprovera Dean, saltando in piedi non appena lo vede entrare nella stanza.

Pronuncia quelle parole come se fossero pesanti macigni da espellere con dolore e cautela perché a questo giro ha combinato un casino: papà gli aveva detto che quello che stavano cacciando era troppo pericoloso, gli aveva solo chiesto di fare le ricerche e restare in motel – dannazione, aveva sedici anni, non era un ordine così difficile a cui obbedire! -; dopo tutte le volte in cui gli aveva ordinato di andare con loro e aveva obbedito trascinando i piedi, avevano finalmente concordato che, almeno per una volta, quella era la cosa migliore da fare. Non avevano pensato nulla di strano di quella sua strana ed istantanea obbedienza, perché Sam odiava andare a caccia e probabilmente era semplicemente felice di restare a casa e dedicarsi a chissà quale attività da nerd che Dean non conosceva. Tutto a posto, dunque. Già: fino a quando non si erano accorti che li stava seguendo. Dannazione, era troppo grande per essere così deludente.

“Lasciami stare, Dean. Ci ha già pensato papà” dice, mentre lo ignora e si dirige verso il suo letto. “Tu e papà stavate seguendo una pista sbagliata. Sareste morti, quindi dovreste solo ringraziarmi”

Suo fratello scatta in piedi e alza un braccio e Sam si chiede se stia per colpirlo, ma si ferma quando lo vede ritrarsi. Dean gli si para davanti e lo guarda con un’espressione stanca, perché non gli sembra di aver fatto altro che litigare con Sam per tutta la vita.

“In tal caso non potrei essere più orgoglioso, fratellino” dice, ma quelle parole sono permeate da un sarcasmo insopportabile alle orecchie di Sam. “Sai almeno perché papà non voleva che tu venissi oggi? Perché sapeva che non eri abbastanza preparato per uscire illeso da questa caccia e tu sei suo figlio e ...”

Se lo guardasse davvero, forse Sam si accorgerebbe che c’è qualcosa di diverso nei suoi occhi quando lo guarda – forse è dolore, o forse solo sorpresa.

“Ne ho abbastanza. Sono suo figlio solo quando gli fa comodo, Dean!” esplode alla fine il più piccolo. “L’unico motivo per cui si è arrabbiato è perché non sopporta di avere torto! Mi avevi promesso che saremmo stati insieme...”

Dean lo guarda con aria truce, ma quello che sente verso Sam non è rabbia. E’ paura. E’ totalmente terrorizzato dannazione, più di quella volta che papà non era tornato in motel per un mese, più di quella volta in cui si era arrabbiato perché aveva lasciato solo Sam e aveva creduto che non l’avrebbe mai perdonato, più di quella volta in cui una ferita sul petto gli faceva così tanto male da credere che sarebbe morto. E’ terrorizzato dall’idea che Sam possa davvero andarsene come minaccia di fare, un giorno.

“Svegliati: Siamo insieme, Sam!” gli urla contro il maggiore, mentre il più piccolo scuote il capo e gli stringe la spalla in un gesto che vuole essere di conforto ma che il maggiore rifiuta malamente.

E poi qualcosa lo colpisce: Sam non ha più otto anni, è più alto di lui e potrebbe chiuderlo dalla testa ai piedi, ormai. Ma non lo fa. Si limita solo a toccargli una spalla.

“Non siamo insieme, cacciamo insieme, Dean. C’è una grande differenza. Andiamo, quando è stata l’ultima volta che hai parlato con papà di qualcosa di diverso dall’uccidere un demone, Dean?”gli dice, con quel tono saccente che al più grande fa venire voglia di prenderlo a pugni. “Due giorni fa era il Giorno del Ringraziamento e non ce ne siamo nemmeno accorti!”

Una risata amara e sprezzante esce dalle labbra del maggiore.

Era più facile gestire i suoi capricci quando aveva sette anni e non voleva andare a dormire, che adesso. Almeno alla fine si arrendeva e lo ascoltava.

“Quindi è questo il problema? Il fatto che non abbiamo fatto una noiosissima cena con uno stupido tacchino?” lo rimbecca il maggiore, sedendosi sul letto e alzando gli occhi al cielo. “Posso comprarne uno come quando eri un moccioso, basta che la pianti con queste stupidaggini”

Ci sono tante cose che Sam vorrebbe dire e che non dice, ormai. Non dice di quanto sia stato terrificante vederli uscire da quella porta senza essere sicuro che sarebbero tornati, non gli chiede più perché non possano essere una famiglia normale. Ma non si rassegna.

“No, Dean, questo non ha nulla a che vedere con uno stupido tacchino!” sbotta alla fine, sedendosi sul letto di fronte al suo e avvicinandosi. “Ascolta, Dean: ogni giorno, per settimane, ti chiedevo quando papà sarebbe tornato...”

A quelle parole, suo fratello si alza bruscamente in piedi e comincia a preparare la sua borsa verde militare per chissà quale altra diavolo di meta che papà ha in mente.

“Finiscila. Non mi interessa se sei in vena di reminiscenze, non ho voglia di parlare di questo adesso. Papà ha detto...” inizia, con lo stesso sarcasmo di prima a impregnargli ed indurirgli la voce.

Sam lo interrompe, scuote il capo e solleva il suo sguardo su di lui, alzandosi a sua volta in piedi. Se non lo conoscesse, se non avesse passato tutta la sua vita ad essere il suo più grande modello, forse non si accorgerebbe di come lo sguardo negli occhi di Dean sembri ferito.

“Ogni giorno, per settimane, ti chiedevo quando papà sarebbe tornato” ripete, guardando negli occhi suo fratello e ignorando il modo esasperato in cui alza gli occhi al cielo quasi a dire “Fa’ come vuoi. Tanto non ti ascolto comunque”. “Tu mi rispondevi “Presto, Sammy. Sii paziente”. Anche quando ci abbandonava, tu mentivi per proteggerlo”

Al verbo “abbandonare”, Dean serra la mascella e può sentirne la vibrazione lungo tutta la schiena.

“Sam” dice fra i denti, in modo che suo fratello senta l’avvertimento sotteso nel tono della sua voce.

Il minore però è un fiume in piena e fermarlo sembra totalmente impossibile, e continua a parlare, senza preoccuparsi di celare l’amarezza e la delusione.

“No. Non smetterò di parlare, perché tu hai bisogno di qualcuno che ti dica le cose come stanno” afferma con tutta la fermezza del mondo, pregando che suo fratello non senta il tremolio che gli scuote la voce. “Poi le settimane diventarono mesi, e i mesi anni. Alla fine smisi di chiedere. E sai perché smisi di chiedere, Dean?”

Sam lo guarda con quegli occhi imploranti, ma Dean resta in silenzio e scuote la testa, e fa quello che fa quando qualcosa lo colpisce: mostra le spine per nascondere i petali e continua a mettere a posto la sua roba nella borsa.

“Dean, per favore” ripete Sam.

Finalmente si gira, con aria seccata, lasciando ricadere una maglia nera nella borsa.

“No, Sammy. Illuminami, ti prego” replica, mentre il sarcasmo affila la sua voce. “Perché smettesti di chiedere? Sicuramente non perché sei diventato grande, a quanto vedo"

Ed è in quel momento che Sam si gira e gli urla contro l’unica risposta possibile, l’unica che abbia un senso.

“No! Smisi di chiedere perché mi ero accorto che ogni volta che te lo chiedevo, quella domanda ti distruggeva, Dean! ”

Per qualche istante, i lineamenti di Dean sono incupiti dall’ira perché detesta suo fratello quando si comporta così. Lo detesta perché non smette di parlare e non era vero, non era vero, non era vero, non era -

Sam solleva il capo davanti al silenzio di Dean; il maggiore ha gli occhi vacui, persi in altre oscurità, e Sam spera per un attimo di essere riuscito a toccarlo, con le sue parole.

“Dean” il suo nome gli lascia le labbra come un respiro: incoscientemente e involontariamente. “Nascondere il fatto che soffri anche tu di questa situazione non farà diminuire il dolore”

Il petto di Dean sembra scosso da un ruggito ferale, perché c’era stato un tempo in cui aveva pensato -

Ma era stato solo un momento e quella è la loro famiglia, la loro vita, la loro unica realtà e gli oceani si sarebbero prosciugati prima che lui si lasciasse andare ad un capriccio così stupido ed egoista.

“Non c’è nessun dolore” replica.

Sam scuote il capo e si lascia andare ad un ringhio sottile.

“Bugiardo” risponde.

Improvvisamente, Dean è di nuovo a pochi centimetri da lui.

“Ho detto che non c’è nessun dolore” gli urla contro, con i lineamenti stravolti dalla rabbia e dalla stanchezza.

Sam apre le labbra per ribattere, ma lui lo interrompe, cogliendolo di sorpresa nello spingerlo contro la parete. Incassa il colpo, appena sufficiente per farlo barcollare, ma continua a guardarlo dritto negli occhi chiari.

“Ti ho detto di stare zitto” ripete Dean, per poi ignorare tutta la conversazione precedente come se fosse altro da sé e non lo toccasse minimamente, e decidere di tornare alle priorità. “Papà ha detto che dobbiamo essere giù fra un’ora e mezza. Prepara le tue cose”

Si irrigidisce davanti a quell’ordine. E’ appoggiato ad una parete squallida di un motel squallido, ha sedici anni e tutta la voglia del mondo di urlare contro suo padre e persino contro suo fratello e tutte quelle loro scelte imposte.

“Dove andiamo?” gli chiede, stringendo i denti e ingoiando la bile.

Nessuno dei due sembra più intenzionato a parlare – di papà o di tutto il resto. E’ come se improvvisamente fossero scottati, colpiti da quel contatto ravvicinato. Sanno entrambi che è solo la quiete dopo la tempesta, ma in quel momento, in mezzo a tutte le omissioni e alle confessioni che rimbombano contro le pareti sporche, è abbastanza.

“Non lo so, Sam” gli risponde, alzando gli occhi al cielo. “Non me l’ha detto e io non gliel’ho chiesto, ovviamente”

Ovviamente” ripete Sam, e l’ironia e l’astio che la sua voce tradisce sembrano innegabili.

“Chissà, magari un giorno, quando vedrai altro oltre a te stesso e a queste stronzate emo su quanto la nostra vita faccia schifo, forse capirai!” gli urla contro suo fratello, prima di dargli le spalle e chiudersi in bagno perché in quel momento fa fatica ad averlo intorno e non ha nessunissimo altro posto in cui andare, perché non importa quanto sia arrabbiato, non si fida a lasciarlo solo. Non dopo Flagstaff, non dopo tutte le volte in cui ha minacciato di andarsene.

“Io ho già capito, Dean!” gli urla contro, a quella frase. “La mia scelta la so già e appena dopo il diploma me ne andrò per la mia strada, non mi importa cosa ne pensate tu e papà!”

Sam ha sedici anni e forse non avrebbe mai capito, ma quando rimane solo in quella stanza e Dean non gli risponde e lo punisce con il silenzio, qualcosa lo colpisce: così si è sentito suo fratello ogni singola volta in cui lui l’ha lasciato.

 

 

***

La quarta volta in cui non lo capisce, Sam non c’è e quelle immagini di suo fratello che se ne va - Sam che si lascia tutto alle spalle a diciannove anni come aveva minacciato di fare tante di quelle volte - sono troppo vivide nella mente di Dean. Ricorda papà urlargli quelle parole e sancire una distanza che sembrava diventare incolmabile, e ricorda sé stesso costringersi a non scuoterlo, a limitarsi a distogliere lo sguardo ogni volta in cui lo cercava alla ricerca del suo supporto, a limitarsi non chiedergli come abbia potuto tradire anche loro? Come abbia potuto tradire lui? Ricorda Sam che si asciugava una lacrima di rabbia con le dita tremanti e lo guardava con gli occhi rossi e gonfi, prima di sparire nella notte. E’ sorprendente, aveva pensato il più piccolo dei Winchester mentre quasi soffocava nei singhiozzi che lo scuotevano – perché era solo come non mai ed era comunque suo fratello quello a cui aveva voltato le spalle –, come dopo aver passato tutti quegli anni insieme, lui possa dubitare di essere stato la persona più importante della sua vita. Ma aveva sorriso quando si era lasciato quel motel alle spalle, con il vento che gli scuoteva i capelli e gli frustava il volto, e non c’era neanche l’ombra di un senso di colpa nei suoi occhi verdi.

Dean, seduto sul sedile anteriore dell’Impala, non si accorge subito di come finiscano sempre in California da quel momento in poi, né di come suo padre faccia il giro delle sette chiese pur di finire in California, anche quando sono dall’altra parte degli Stati Uniti d’America. Non se ne accorge fino a quando suo padre, con un’espressione tirata come un vecchio palloncino sgonfio, parcheggia davanti ad un piazzale con un’aiuola gigantesca a forma di S – la S di Stanford. Il cielo è terso, quando John, senza una parola, appoggia la schiena a quella macchina che è l’unica costante, in tutti quegli anni. Per un attimo, Dean resta dentro la macchina, indeciso sul da farsi, perché anche quelle aiuole così fastidiosamente ordinate gli ricordano di Sam e dell’ordine che aveva sempre voluto, di come non volesse nient’altro che il bianco e nero.

“Papà? Bobby ha provato a chiamarti, ma non ha ricevuto risposta e ha chiamato me” Dean riferisce ciò con la stessa rigidità di sempre, come se non fossero a Stanford e come se fosse normale e come se quella S così disgustosamente ordinata non toccasse minimamente.

John scuote le spalle in una parvenza di serenità. La sua voce lo fa sussultare e tornare alla realtà e si promette di fare più attenzione, di tornare a scivolare nell’ombra. Aveva lasciato, negli anni, che fosse Dean a gestire le comunicazioni e le relazioni con Sam, aveva smesso quasi subito di sedersi con il suo primogenito e di ascoltare i suoi racconti sui progressi di Sam quando era piccolo, e aveva lasciato che fosse sempre lui a parlare al più piccolo di quel padre che amava comunque come se fosse il suo respiro e che ogni tanto lo chiamava. Quando Dean aveva cinque anni, aveva smesso di sorridergli ogni mattina e di accarezzargli i capelli cortissimi quando si incrociavano nell’angusta stanza di un motel, ed era stato come staccarsi un braccio, come tirare, tirare e tirare e sentire il familiare pop dell’articolazione della spalla che si lussa e sentire i tessuti – muscoli, ossa, vasi sanguigni – che si lacerano, ma era assolutamente necessario e ogni mattina in cui era presente, aveva stretto i denti, serrato i pugni e lasciato che Dean gli passasse accanto, senza sfiorarlo.

“Lo richiamo subito” dice, prendendosi solo un altro momento per sé, mentre la testa del maggiore dei suoi figli scompare nuovamente dentro l’automobile.

Dean guarda fuori dal finestrino e c’è uno studente fuori dall’università, ma non è Sam – e se anche fosse Sam? Sam che non vede da sei mesi, Sam di cui ha notizie solo tramite Bobby, Sam che sembra essere scomparso dalle loro vite come sua madre prima di lui, Sam per cui nulla sembra mai abbastanza? – e lui non è suo padre, sebbene si sia preso cura di suo fratello e si sia mosso ad occupare quel ruolo che forse avrebbe dovuto appartenergli, se sua madre non fosse morta.

Afferra il cellulare e sfiora la tastiera del telefono con un polpastrello, ma è in quel momento che John apre lo sportello e forse è un segno, forse è l’universo che sta cercando di ricordargli che non è il suo compito, non è la sua chiamata da fare.

“Lo hai chiamato?” gli chiede ed è istintivo per suo figlio drizzare la schiena, come se fosse stato colto sul fatto.

“Chi?” risponde troppo velocemente, e per un istante entrambi sentono il peso dell’assenza che riempe quell’abitacolo nel silenzio, nel fatto che non vi sia nessun “Dove andiamo? Che cosa è successo? Di cosa si tratta? Come ci organizziamo?” a spezzarlo.

“Bobby” risponde suo padre con l’aria di chi ha vissuto più anni di te e vede cosa stai cercando di nascondere, mentre mette in moto.

E’ John a prendere il suo telefono e a chiamare Bobby, e per un po’ Dean non sente nient’altro che una conversazione apparentemente a senso unico su alcune morti sospette a Phoenix. Quando finalmente mette giù, non gli fa domande a cui John non avrebbe comunque alcuna voglia di rispondere e forse suo padre gli vuole un po’ più bene per questo.

Nessuno dice più nulla, fino a quando, procedendo sulla strada che portava fuori da quella dannata cittadina, il cartello “State lasciando Stanford. 13809 abitanti” sembra prendersi maledettamente gioco di loro, e c’è solo un po’ di urgenza di troppo nel modo in cui John preme sull’acceleratore.

“Papà?” dice suo figlio, con l’aria di chi forse sta già per pentirsi di quello che dice. “Credo che un giorno Sammy capirà”

A quelle parole, John scosta leggermente gli occhi dalla strada e improvvisamente sembra rendersi conto che c’è qualcosa che non va, che erano in macchina ed erano in silenzio ma ad un certo punto non più e forse avrebbero dovuto continuare.

“Andiamo a vedere cosa sta succedendo a Phoenix” risponde solamente.

E’ difficile parlare con Dean di Sam e non lasciare che gli scivolino nella voce quelle attenzioni particolari che John ha sempre avuto per quel ragazzo. E’ difficile parlarne senza ledere quell’orgoglio che li rende tutti e tre così simili, ma li divide anche. E’ difficile non lasciare che la preoccupazione gli incrini la voce al pensiero di Sam, che l’affetto non gli impregni quelle parole che mastica e sputa sempre come denti cariati. E’ difficile non far trapelare che è complicato – è appoggiato allo schienale del sedile della sua auto, c’è il sole in California e la voce di Dean si mischia a quella delle cose che solo lui sa – perché Sam è suo figlio e c’è un mostro che ha trasformato il suo sangue e ancora gli vive nelle ossa.

 

 

 

***

 

Non c’è una quinta volta in cui Sam non lo capisce. O meglio, c’è: Sam si iscrive ad un altro esame, quando Dean lo va a cercare perché papà è scomparso, ma non si presenta. Non si presenta perché quella stessa sera, quella in cui rientra, è davvero Jessica quella sul soffitto, è davvero lei e -

“Fa’ piano, tigre.” lo rimprovera suo fratello, quando di scatto si drizza a sedere sul suo letto. “E’ solo un incubo”

E’ solo un incubo, si dice Sam, ma non è davvero solo un incubo: Jessica è morta davvero. Ha sempre saputo che in guerra le donne e i bambini sono i primi a perire. Sono i primi danni collaterali dei massacri che svuotano le strade e crepano le pareti delle abitazioni. Ma era stato così facile abituarsi e scegliere una vita, un’esistenza che fosse solo sua che -

Ma ovviamente era stata tutta un’illusione.

Dean è seduto sul suo letto di fronte al suo e ha l’aria preoccupata perché sa che Sam fa fatica a dormire da giorni, da quando ha visto Jessica e lo capisce, lo capisce davvero e con un’intensità drammatica.

“Sai che puoi dormire, vero?” gli dice Sam, vedendolo seduto sul suo letto. “Ho ventitré anni, non mi devi guardare mentre dormo. E non vado da nessuna parte: è già andata male due volte”

A quelle parole, Dean non può fare a meno di scrutarlo nella penombra della stanza, illuminata solo da un' abat-jour: è Sam, non è cambiato, è distrutto dal dolore del lutto, non sa come affrontarlo, ma ci sarà comunque lui ad aiutarlo.

E’ Sam e per la prima volta negli ultimi tre anni, la cosa più vicina che ha ad un piano è fare delle ricerche su alcune ragazze morte in circostanze simili e questo lo terrorizza più di quanto ammetterebbe mai.

“Finiscila. Adesso sei tu che mi dici quando devo andare a dormire, Sammy?” risponde alla fine, sorridendo di riflesso, per poi farsi serio e fare una piccola pausa di silenzio, indeciso su come dire ciò che vuole dire senza suonare troppo sentimentale o melodrammatico. “Sam, voglio che tu sappia che ecco, io, noi... nessuno voleva che andasse male la seconda volta. Non volevamo che le cose andassero così”

Sam si lascia andare sul letto, ma ha ancora gli occhi aperti nel buio del soffitto: lo fissa con la stessa inquietudine con cui l’aveva fissato tante volte, dopo i suoi otto anni, anche se questa volta è diverso perché Jessica -

L’ultimo dei Winchester si limita solamente ad una scrollata di spalle.

“Lo so, Dean, ma le cose sono andate così” risponde solamente.

Quando aveva sedici anni, il ragazzo che dorme nel letto di fronte al suo e l’uomo che stanno cercando - e che, per caso o per strane contingenze del destino, è suo padre - gli avevano ormai spiegato tutto sui demoni, della loro forza e di come ucciderli; e mentre le pagine dell’agenda di papà scorrevano sotto i suoi occhi, scorrevano anche quelle della sua vita, fino a sussurrargli beffarde, con un sogghigno, eccola qui, la tua staccionata bianca, il tuo cane e la tua stupida laurea in Legge. Sembravano sibilare, infami, le parole dello stesso uomo che le aveva vergate: se coinvolgi qualcuno, tutto questo non si abbatterà solo su di te, ma su tutto quello che ami, su tutto quello che avrà conosciuto anche solo l’ombra di Sam Winchester – come se avesse davvero bisogno che glielo dicesse, e non sapesse tutto ciò per esperienza.

Ma adesso che ha visto quel sangue sul soffitto, adesso che -

“Dean?” lo chiama, cercandolo nella penombra.

“Sì?” borbotta suo fratello, spegnendo l’abat-jour.

“Io...credo di aver capito adesso”

Dean annuisce, senza rendersi conto che al buio Sam non può vederlo.

Non ha alcun bisogno che suo fratello gli spieghi cosa ha capito.

Lo sa già.

Lo sanno entrambi.

 

 

 

NDA

Well, ma secondo voi io posso evitare di scrivere fic through the years, una teenchester o weechester di tanto in tanto? Ma ovvio che no, ormai. Quindi eccoci, questa cosuccia qui è ispirata ad entrambe le canzoni “We are one” ed “Un’unica realtà”. Non so quanto sia evidente, onestamente: è un dialogo fra un padre e sua figlia all’interno del cartone animato del “Re Leone II”; Kiara non vuole accettare il suo essere una leonessa e l’erede al trono, e Simba cerca di convincerla che è il suo destino. Io l’ho resa un dialogo fra Dean e Sam, perché well, sono senz’altro Dean è stato un riferimento maschile più importante per Sam di John: quindi qui Dean fa Simba, fondamentalmente. Allo stesso tempo, però, credo che via sia una sorta di dialogo con John perché Dean svolge anche il ruolo del mediatore. Kiara in We are One e in Un’unica realtà fa fatica ad accettare il suo destino di regina, Sam quello di cacciatore, quindi boh, nella mia mente ha tutto un senso – forse solo lì, ma shh…

Le recensioni sono sempre gradite.

   
 
Leggi le 12 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Supernatural / Vai alla pagina dell'autore: D a k o t a