Il nostro è un mondo di giganti
in campo nucleare e di neonati in campo morale. Sappiamo più sulla guerra di
ciò che sappiamo sulla pace, sappiamo di più su come si uccide di ciò che
sappiamo su come si vive.
Omar
Bradley
Impronte
sulla sabbia
Tornare alla normalità non è
facile, ma quando mai lo è stato?
Seduta accanto a Madi durante
il pranzo, Clarke si costringe a mandare giù qualche boccone in più anche se
non ha fame. Annuisce di quando in quando mentre Madi le racconta dei suoi
allenamenti con Indra, delle sue lezioni di storia e tradizioni dei Terrestri
con Gaia.
Madi non appare convinta, al
contrario i suoi occhi sono fissi su di lei, troppo seri e penetranti. Il
dejavu è istantaneo e francamente terrificante. Clarke stringe il cucchiaio, le
nocche bianche come le pareti del reparto di quarantena di Mount Weather.
Nonostante tutto Madi non
insiste, non la tempesta di domande. Il petto le si contrae dolorosamente in
uno spasmo che è fin troppo familiare. La vecchia Madi non le avrebbe dato
tregua. La nuova Madi a malapena batte ciglio. No, non è del tutto vero. Dopo
la sua esperienza di pre-morte le si è incollata al fianco come non faceva più
da quando Bellamy e gli altri sono tornati. Gli unici momenti in cui è davvero
sola sono quelli in cui lavora in infermeria e Madi è impegnata ad imparare a
essere la perfetta Heda.
Finito il pranzo Madi si
allontana con Gaia. Le osserva andare via e quando sono sparite scosta il
piatto.
"Non hai una bella
cera."
Raven si lascia cadere nel
posto che Madi ha lasciato libero. Colorito grigio e spento, le tipiche
occhiaie di chi non dorme, bulbi oculari con i capillari rotti, è l'ultima
persona sulla faccia del pianeta a poter fare affermazioni del genere senza
aspettarsi risposte taglienti. Tuttavia Clarke ricorda la conversazione avuta
qualche giorno prima e desiste. La morte di Abby è stato un duro colpo per
entrambe, ma le ha riavvicinate. I loro scambi sono ancora tesi e prudenti, ma
almeno la voce di Raven ha smesso di essere graffiante. Ha smesso di guardarla
con disprezzo, come se la odiasse.
"Dimmi qualcosa che non
so."
Raven occhieggia il piatto
intatto, ma non commenta. Clarke gliene è riconoscente.
"La situazione ci sta sfuggendo di mano."
"Cosa vuoi che
faccia?"
"So che sei conciata
male." Raven esita come se si fosse pentita per aver detto troppo, fosse preoccupata
di aver commesso un passo falso. In precedenza è qualcosa che mai e poi mai lei
avrebbe associato alla donna che le sta di fronte. Questa esitazione tra
accettazione e rifiuto, impotenza e frustrazione. "Abby manca anche a
me," dice e l’ostinazione brilla fulgida aldilà del pallore e del lutto
quando aggiunge: "Bellamy ha bisogno di te."
Clarke rifugge il suo sguardo.
Non è mai stata una vigliacca, ma ci deve essere un momento in cui l'istinto di
conservazione fa la sua entrata in scena. Tardi, ma meglio tardi che mai.
"Non nella misura in cui credi tu."
"E questo cosa vorrebbe
dire?"
"Credi che non abbia
provato a parlargli?" Stringe le mani a pugno, nascondendole sotto il
tavolo. "Si è barricato in camera sua. Credimi, ho provato."
"Non hai provato
abbastanza!"
"Cosa mi dici di te
allora? Voi siete la sua famiglia, non io. Perché dovrebbe ascoltare me?"
Il suo sbigottimento è genuino,
così come le accuse mute che le scaglia contro. Clarke sa cosa sta pensando. È
scritto chiaramente sul suo volto. Crede che lo stia abbandonando di nuovo. Non
ha tutti i torti.
"Non puoi essere seria.
Dopo tutto quello che ha fatto per riportarti indietro-"
"Lo so," la
interrompe con forza. "Gliene sono grata."
"Allora-"
"Ma non posso fare quello
che mi chiedi." Contro la sua volontà sente gli occhi inumidirsi. Quando Raven
se ne accorge, la sua rabbia inizia a retrocedere, silenziando ogni precedente protesta
e recriminazione. "Non posso dirgli che andrà tutto bene. Non posso
mentirgli."
Quando si alza senza attendere
risposte, Raven non la segue. Clarke non riesce a capire se è delusa oppure
l'esatto contrario.
*
Tossisce, spasmi violenti che
le squassano la schiena e la costringono a cercare un appiglio nella parete più
vicina per mantenersi in posizione eretta.
C'è del sangue quando allontana
la mano. Sbatte le palpebre e le sembra che sia appena morto l'ultimo frammento
della ragazza che è stata una vita fa, prima della Skybox e della Terra, prima del
Praimfaya, prima di perdere tutto ciò che ha amato, una persona alla volta, una
dopo l'altra.
Dalle
ceneri risorgeremo.
A quanto pare c'è un limite al
numero di volte in cui può essere vero.
*
Dopo che ha finito di
visitarla, mentre lei si riveste Gabriel le dà le spalle con tatto e comincia a
sterilizzare la strumentazione che ha usato.
Clarke indossa la maglietta,
nascondendo di nuovo le cicatrici. "Quanto tempo mi rimane?"
Gabriel non sembra sorpreso
dalla domanda diretta. Tutto in lui emana rassegnazione e pietà.
"Difficile a dirsi. Un anno, forse meno."
Clarke annuisce. Non si era
aspettata niente di diverso. Allo stesso tempo sentirlo confermare i suoi
timori è come essere catapultata in un vecchio incubo. Inginocchiata in una duna con una pistola premuta contro la tempia. Seduta
all'interno dell'Arca mentre osserva la lettera d'addio di un ragazzo a cui ha
salvato la vita, ma a cui ha portato via la speranza. Ammanettata e implorante
mentre l'uomo che ha aspettato per sei anni tradisce la sua fiducia. Josephine
mentre le mostra il ricordo in cui Bellamy accetta l'accordo con Russell,
spezzandole il cuore. L'orrore. La morsa stritolante della solitudine.
Madi, pensa. Per la prima volta
il pensiero non è scortato dalla solita ondata di calore e conforto, al
contrario rende le circostanze ineluttabili. Si sente messa con le spalle al
muro.
"Cosa farai adesso?"
"Quello che devo."
"Non hai intenzione di
dirglielo? Nemmeno a Bellamy?"
"Hanno già abbastanza di
cui preoccuparsi senza aggiungere anche me."
"Clarke, devo saperlo.
Perché io? Perché hai voluto che fossi io a visitarti?"
"Jackson non reggerebbe il
peso del segreto. Non ho il diritto di chiedergli di mantenerlo. Tu
invece-"
"Sono un estraneo,"
lui conclude al suo posto. "Non hai alcun obbligo nei miei confronti. Non
provi nessuna lealtà o istinto di proteggermi."
Suona esattamente com'è.
Cinico. Calcolatore. Freddo. Non importa più. Che senso ha nascondersi?
Soprattutto adesso, alla fine di tutto.
Esala un sospiro, sfinita.
"Sì."
"Capisco." La sua
risposta, così come il suo sguardo, è analitica, non giudicante. "Sai, in
una vita diversa saremmo potuti essere amici. Dal poco che ho potuto vedere, io
e te siamo simili. Siamo entrambi idealisti, ma preferiamo un approccio
scientifico, empirico. La nostra mente è abituata a scomporre un problema come
quando studiamo i sintomi del paziente per individuare la malattia che lo
affligge e somministrargli la cura adeguata. Entrambi amiamo fieramente e
quando lo facciamo è un amore senza tempo, complicato, pieno di sacrifici e
opinioni conflittuali. Immagino che ci siano punti di non ritorno anche per noi
però, non è vero? Il tuo è stato Madi."
Per un attimo si chiede come
faccia a sapere. Non c'è alcun modo che lui- a meno che- Octavia. Il nome riecheggia come uno sparo nella sua testa. Le
sembra di avere schegge di vetro nei polmoni e che siano penetrate abbastanza
in profondità da farle assaggiare il retrogusto della morte. Sangue. Sabbia.
Cenere. Polvere da sparo.
Deglutisce a fatica oltre il
groppo in gola. Si schiarisce la voce. "L'ho perdonato."
"Perdonare non è
dimenticare. È per questo che rifiuti di andare a trovarlo? Per quello che temi
di provare vedendolo soffrire per sua sorella come tu hai sofferto per tua
figlia? Sei una persona migliore di quanto pensi."
"È più il tempo che
abbiamo trascorso separati di quello che abbiamo trascorso insieme. Cosa ti fa
capire di noi?"
"A giudicare dal legame
che vi unisce? Il tempo è relativo, Clarke. Non te l'ha mai detto nessuno? La
guerra cambia chi siamo in modi profondi, indicibili, ma così fa anche
l'amore."
Questa volta, quando lo guarda,
similmente a quello che è successo con Madi, il viso di qualcun altro si
sovrappone a quello di Gabriel. Un altro fantasma, un'altra impronta nelle
sabbie del tempo. Dopo un attimo di stupore, capisce. Le ricorda Wells.
*
La stanza è uno sfacelo. Seduto
sul pavimento, capelli più disordinati che mai e barba incolta, nocche
insanguinate come se avesse preso a pugni il muro, Bellamy non è da meno.
All'inizio Clarke non capisce il commento di Murphy quando, dopo aver roteato
gli occhi, lo sente dire: "Ecco che si ricomincia. È la terza volta in sei
anni? Non che stia tenendo il conto."
Non capisce finché Raven si
volta verso di lei e le rivolge uno sguardo inequivocabile. Qualcosa di simile
è già successo in passato e non è difficile trarre le debite conclusioni.
Raddrizza le spalle. Sapeva che
sarebbe stato difficile. Non così, pensa. Non così.
"Bellamy."
Lui non solleva la testa. Non
li ha degnati della minima considerazione da quando sono entrati. "Va'
via." La sua voce è roca e aspra, incrinata come se fosse ad un passo
dallo spezzarsi.
"Quando è stata l'ultima
volta che hai mangiato o dormito?" domanda Raven. Ha le mani sui fianchi e
sembra pronta a dare battaglia. "Murphy, aiutami a farlo alzare. Deve
lavarsi."
"Non toccarmi, Murphy o
giuro che-"
"Cosa farai? Mi
guarderai in cagnesco fino a farmi stramazzare al suolo? Ci siamo già passati
una volta. Sei anni fa, sull'Anello. Dopo che abbiamo perso Clarke. Stai
diventando prevedibile o stai invecchiando?"
"Non andremo via,"
interviene Raven. "Puoi urlare fino a sgolarti, prendere Murphy a pugni,
("Sul serio? È sempre un piacere percepire il tuo amore per me, Reyes.")
fare lo sciopero del silenzio. Non ti lasceremo. Siamo ancora una famiglia."
Bellamy non reagisce, ma Clarke
osserva la trazione nervosa abbandonare la sua schiena, le sue spalle
afflosciarsi.
"Raven ha ragione."
Fa un passo in avanti e poi un altro finché la punta dei suoi stivali sfiora
quelli di Bellamy. E ancora lui non sposta lo sguardo dal pavimento. Ancora si
rifiuta di guardarli, di guardare lei. La rabbia monta dentro di lei senza che
faccia nulla per fermarla, la afferra per la gola. "Ti sei crogiolato
abbastanza nell'ingiustizia del mondo e sai una cosa? Ne ho abbastanza. Ne
abbiamo tutti abbastanza. Pensi di essere il solo ad aver perso qualcuno che
amavi? Jordan ha perso i suoi genitori. Raven ha perso Shaw. Io ho perso mia
madre. Tutti noi abbiamo perso il nostro pianeta, casa nostra, i nostri amici.
Non sei solo nel tuo dolore, Bellamy. Non lo sei mai stato. Soltanto che tu hai
qualcosa che noi non abbiamo. Hai la speranza. Octavia potrebbe essere ancora
viva e invece di cercare una soluzione, hai scelto di arrenderti."
"Clarke-" lui
gracchia, sollevando la testa dalle ginocchia. I suoi occhi sono velati di
lacrime e la disperazione e l'angoscia hanno scavato solchi profondi attorno
alla sua bocca, sulla sua fronte. Vorrebbe confortarlo, tracciare ogni nuova
ruga in punta di dita, bisbigliare contro la sua pelle le mille confessioni che
ha avuto il coraggio di fargli solo durante le chiamate radio che non lo hanno
mai raggiunto.
Sarebbe così facile e la
tentazione è forte, irresistibilmente dolce. Chiude la mano a pugno prima di
commettere qualcosa di irreparabile. Non ci sarebbe possibilità di ritornare
alla normalità in quel caso e lei non ha il diritto di fargli una cosa simile.
Non quando pensa di aver perso Octavia. Soprattutto adesso, alla fine di tutto.
Perciò, per quanto impossibile appaia, si astiene dal toccarlo più dello
stretto necessario.
Si inginocchia davanti a lui,
Raven e Murphy su ciascun fianco. Miller è a guardia della porta. Jordan li
fissa dall'altro capo della stanza, indeciso se intervenire oppure no. Emori ed
Echo sono rimaste con Madi.
"Bellamy," lei dice,
smorzando la durezza di poco prima. Ora che l'ha raggiunto, che è riuscita a
scavare una breccia nella sua apatia, può finalmente concedersi di essere
gentile. Cerca di infondere nella sua voce parte della tenerezza che sta
provando. Contrariamente a quanto temeva non c'è traccia di rancore o
straniamento. Sono ancora loro, ai piedi di una montagna da scalare a mani
nude. Di fronte a un precipizio mentre sono attorniati da nemici. Ai confini
della realtà mentre osservano l'uno il cuore dell'altra che continua ad ardere
e divampare dopo l'ennesima perdita. Sono ancora loro e anche se tutto è
cambiato, a conti fatti nulla lo è davvero. "So cosa stai pensando."
"Lo sai?" Lo sguardo
che le rivolge è imperscrutabile, atrocemente vuoto e Clarke sente che potrebbe
piangere.
"Come non potrei?"
Gli scosta i capelli dalla fronte e quando lo vede chiudere gli occhi, gli
poggia la mano contro la guancia, tracciando il contorno dello zigomo con il
pollice. Non le passa inosservato il modo in cui lui si protende verso di lei,
cercando il contatto come se volesse prolungarlo, come se rappresentasse
l'unico punto fermo in un mondo che gli sta crollando attorno. "Ti stai
chiedendo quando finirà. La guerra che non abbiamo mai smesso di combattere da
quando abbiamo messo piede sulla Terra. Tutte quelle morti. Le scelte
impossibili. Gli addii. Il senso di colpa. Quando sarà semplicemente troppo?
Quando ci spezzeremo sotto il peso delle nostre responsabilità, dei nostri
errori?"
"Atlante," lui
sussurra.
Lei annuisce. In un giorno
diverso riderebbe. Nel loro caso quel complesso è diventato parte di loro.
Poggia la fronte contro quella di lui, sposta la mano dietro la sua nuca e il
sospiro che rilascia è tanto suo quanto di Bellamy, assordante nella bolla di
silenzio che li circonda. È sollievo, è sfinimento, è quieta accettazione che
quella è la loro realtà e non c'è niente e nessuno, a parte loro, che abbia il
potere di fare qualcosa al riguardo.
"Sopporta, o mio cuore: tu
hai sopportato una cosa anche peggiore," lei mormora a voce bassissima.
Lo sente irrigidirsi, diventare
una statua di pietra contro di lei mentre le parole di Odisseo si fanno spazio
dentro di lui e attecchiscono. La citazione deve avere radici profonde nella
sua memoria, intrinsecamente avvinte alla sua vita sull'Arca.
"Non credo di
riuscirci."
"Sì che puoi,"
risponde quietamente. "Puoi perché io posso."
"L'hai già fatto una
volta." Raven gli poggia una mano sulla spalla. Un monito che stranamente
contiene anche una supplica. "Sei sopravvissuto."
Bellamy trova di nuovo i suoi
occhi. Non sembra poterne fare a meno. "L'ho persa.”
Sa esattamente cosa vuole da
lei. Sa di non poterlo accontentare. Non questa volta.
Come se le avesse letto nel
pensiero, Murphy dice: "Octavia è forte. I mostri e i tiranni sono
difficili da uccidere. Proprio come il Comandante della morte."
"E se non dovessimo?
L'ultima volta che l'ho vista, le cose che le ho detto -"
“Va tutto bene, Bellamy,"
lei cerca di tranquillizzarlo. "Di qualsiasi cosa si tratti, Octavia sa
che le ami."
"Come lo sapevi tu?"
Non vorrebbe, ma è più forte di
lei. Sussulta e sei anni di separazione le franano addosso di colpo. L'aria
nella stanza scompare all'improvviso. L'abisso negli occhi di Bellamy, il
tormento che mostrano, è solo un riflesso del suo. Non dovrebbe sorprenderla. È
sempre stato così in passato. L'uno il completamento dell'altro.
"Raven, Murphy, lasciateci
soli," lo sente dire, il tono è imperativo e non lascia adito a diverse
interpretazioni.
Clarke serra gli occhi. Non li
osserva uscire, ma sente il rumore dei passi che si allontanano, appena prima
che la porta si chiuda ascolta la voce di Jordan che chiede "staranno
bene?" e la risposta immediata di Murphy "sono Clarke e Bellamy,
nulla è impossibile per loro."
Sono rimasti soli. Respira con
boccate agonizzanti. Le sembra di essere in una tempesta di sabbia. L'ultima
della sua specie sulla superficie di un pianeta morente.
"Clarke, guardami."
Obbedisce, anche se il modo in
cui la sta guardando la fa tremare. Non è panico, non è trepidazione, non è
felicità. È un amalgama confusa. È come l'ha guardata nella tenda di Gabriel.
Come qualcosa di prezioso, fragile, incredibilmente caro. Con amore.
"Sono stanco di vivere di
rimpianti. Tu no?"
"Bellamy," dice e
scuote la testa. Cos'altro può fare? Cosa può promettergli? Sto morendo,
vorrebbe dirgli. Non sa quando, potrebbe essere un mese come un anno, ma sa
come vuole morire. È un desiderio egoista. Ha scoperto che non le importa.
Quando le braccia di lui la
avvolgono, attirandola a sé, Clarke sente le lacrime che ha trattenuto per
giorni scendere copiose, liberamente.
"Lo so, Clarke. Lo
so." Continua a ripeterlo mentre le accarezza i capelli, mentre le bacia
la fronte con una devozione che serve solo a comprimerle la gabbia toracica.
No, non sa nulla. Il segreto le
brucia contro le labbra come pioggia nera, come nebbia acida. Prova a
districarsi dal suo abbraccio. Lui non glielo permette. La stretta aumenta,
spasmodica e urgente.
Bellamy continua a tenerle la
testa ferma contro la spalla e lei registra per la prima volta il tremore
inconfondibile che gli attraversa le mani, il fatto che le stia impedendo di
guardarlo negli occhi. Oh, pensa. La
verità si fa largo nella sua mente con uno schianto. Oh.
Ripensa agli strani silenzi di
Raven, ai suoi sguardi liquidi che lei aveva collegato ad Abby. A quante volte
Murphy ed Emori sono passati per caso durante i suoi turni in infermeria. Alla
paura negli occhi di Madi quando pensava che lei non si accorgesse che la stava
guardando. La presenza assidua di Echo a seguirla come un'ombra silenziosa,
accompagnandola nei suoi spostamenti. Bellamy, trincerato nella sua stanza e
schiacciato da un lutto che le sembrava sproporzionato, ingiustificato date le
informazioni frammentarie in loro possesso sull'Anomalia. Ora, alla luce di
quello che ha scoperto, tutto ha senso. L'insistenza di Raven quando ha cercato
di convincerla a parlargli, l'ammissione impassibile di Echo quando l'ha
informata della rottura con Bellamy.
Non si è mai trattato di
perdono.
Si discosta e lui glielo
permette. Deve avere già capito. La conosce troppo bene.
"Da quanto lo sai?"
"Gabriel ha ritenuto opportuno
informarci."
Non è quello che ha chiesto.
"Da quanto, Bellamy."
Clarke conosce la risposta
prima che lui parli. "Sin dall'inizio."
Non sa come reagire ad
un'informazione di questo tipo. Le dita di Bellamy continuano a strofinarle la
schiena in cerchi rilassanti. I suoi occhi non sono meno perseguitati, ma sono
anche saldi nella loro intensità, come fuoco che brucia nell'acqua. Non riesce
a distogliere lo sguardo. Non sa come diavolo tornare in sé.
"Parlami. Mi stai
spaventando."
"Cosa vuoi che ti
dica?"
"La verità," lui
risponde senza la minima incertezza. "Me l'avresti detto?"
"Forse. Non lo so."
Si concentra su un buco nella sua maglietta. Vista da vicino ci sono altri
rattoppi e la perizia della cucitura è innegabile. Figlio di una sarta,
ricorda. "Che importanza ha?"
"Importa a me. Non avrei
mai pensato che potessi essere così codarda."
"Codarda? Come osi- cosa
credi che stia facendo? Perché credi che lo stia facendo?"
"Atlante", lui ripete
con un sorriso obliquo che è doloroso a guardarsi perché è tutto ciò che un
sorriso non dovrebbe essere. È più simile a uno squarcio, più simile a una
ferita infetta.
"Non capisci."
"Aiutami a capire
allora."
È semplicemente troppo da
sopportare. "Che senso avrebbe adesso?"
Con calma, come se avesse a che
fare con un animale in trappola, Bellamy replica: "Perché pensi che
Gabriel ce lo abbia detto? Cosa pensi che stessimo facendo?"
"Octavia-"
Lui la interrompe subito e la
veemenza con cui parla ha il potere di ammutolirla. "È una priorità, ma
non ha la precedenza su questo. Clarke, non abbiamo mai smesso di lottare per
te."
Ormai riesce a stento a contenere
le sue emozioni. "Perché?" domanda con un mezzo singhiozzo.
"Conosci già la
risposta." Le scosta una ciocca di capelli dalla fronte con un'espressione
concentrata e assorta, di pacata gravità. La sensazione di dejavu potrebbe
sopraffarla. "Non vuoi sentirla."
"Ancora adesso?"
"Soprattutto adesso,"
lui risponde. "Sopratutto perché non è la fine. Non è la fine, Clarke.
Promettimi che proverai. Anche se non credi che sia possibile, prometti che ti
fiderai di me."
"Mi fido di te," lei
replica subito.
Questa volta il suo sorriso
sembra sincero e gli occhi non sono più vitrei, ma luminosi. Non ha il sapore
di un addio scambiato alle porte dell'apocalisse, ma di qualcosa di nuovo che
la spaventa più di qualsiasi battaglia abbia mai combattuto, come solo le cose
belle riescono a fare.
"Al punto di affidarmi la
tua vita?"
Ti
ho affidato il mio cuore. Gli sfiora la mandibola e il panico che
le attanaglia le viscere è bene accetto. È dove vuole essere e la prospettiva
della fine, una fine pacifica circondata dalla sua famiglia, è meno desolante
di quanto aveva immaginato. Non vuole che sia la fine e lotterà affinché non lo
sia, ma l'alternativa non la spaventa più come prima. Qualsiasi cosa succeda,
non sarà sola.
"L'ho già fatto,"
risponde.
È la verità, ma è anche una
promessa.
Anche i dolori sono, dopo lungo
tempo, una gioia, per chi ricorda tutto ciò che ha passato e
sopportato.
Omero