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Autore: namelessjuls    04/03/2020    2 recensioni
Fra le atrocità commesse dall'animo umano, spesso si dimentica la più crudele rivolta al genere femminile: la caccia alle streghe.
Perdurata per secoli, raggiunge il suo apice nella metà del Seicento. Donne morte, donne malate incomprese, donne "volubili" e donne incantatrici: non esiste cura per loro, solo la forca.
1654, contea di Essex.
Ophelia è una giovane abitante della ormai tiepida e spenta comunità di Salem. Qui mancano i soldi, manca la condivisione, ma certo non si scarseggia di paura. Ophelia non è sposata, e i suoi lunghi capelli rossi sono una macchia difficile da nascondere, soprattutto agli occhi del fratello Adam. Lui, che della bramata sorella vive e respira, preferirebbe uccidere che lasciarla andare.
Una sventura, però, destinata ad accadere quando il lord Uriah Donovan irrompe nelle loro vite.
Lui, signore della città, con le mani sporche del sangue di centinaia donne innocenti in tutta la contea. Lui, il lord cacciatore di streghe, ora davanti alla loro porta con la vecchia promessa di avere in sposa la giovane.
E cos'è il matrimonio per una donna libera, se non l'ennesima delle prigioni?
Genere: Fantasy, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Il soldato mi seguì ogni istante.

Fermo sulla mia porta, assecondò le mie mosse mentre preparavo i miei bagagli con minuzia, bloccandomi solo al suono delle urla provenienti dall'esterno.

Dentro di me, c'era la voglia di urlare. Era vero: avrei afferrato lo stupido bavero della guardia servizievole e l'avrei sbattuto con forza al muro. Lo avrei ucciso, lo avrei fatto sanguinare: forse così, la testa avrebbe smesso di girare.

 

Ma non feci nulla.

Finii le valigie e le lasciai alle altre guardie, che le trasportarono per me, sempre al mio seguito. Adam non c'era - non che mi aspettassi un chissà qualche manifestazione - e finsi che andasse tutto bene.

 

Ormai stava calando la sera e i cittadini erano già rinchiusi nelle loro abitazioni per la cena: restavamo noi col nostro corteo in nero, silenzioso come morti in viaggio verso l'inferno.

Attraversando la piazza, notai di nuovo il palo dell'esecuzione: questa volta, era stato ripulito e liberato, pronto alla prossima esecuzione.

Questa volta, sarebbe stata indetta da mio marito.

Il solo pensiero mi fece rabbrividire. 

Stavo finendo nella bocca della balena, stavo sprofondando verso il fuoco.

 

«L'entrata è qui, signorina.»

 

Il soldato mi mostrò la porta d'entrata della caserma - una ben curata abitazione appena fuori alla cinta interna, nascosta fra gli alberi del giardino boschivo. Solitamente, li abitava il comandate del piccolo esercito della città - un uomo basso e vecchio, ormai vicino alla morte: mi chiesi dove fosse finito.

 

«Non entrate?» Domandai, notando le guardie lasciare le mie casse sull'uscio di ingresso. Mi zittii quando un paio di servitrici corsero da noi, portandole via.

 

«Dovreste entrare.»

 

Strinsi le labbra, ormai consumate dai morsi, e guardai davanti nell'antro buio. La paura mi risucchio come un bacio notturno e, così, mi lasciai andare.

 

«Il signor Donovan è nel suo studio, signorina,» informò la cameriera che chiuse le porte alle mie spalle. Teneva una candela in mano, così da farmi strada: era anziana e le sue mani consumate dal lavoro, eppure manteneva quel barlume di bellezza di una gioventù lontana. Mi fece pena. «Vi accompagno nelle vostre stanze.»

 

Quella fu una piccola nota positiva. Uriah non voleva incontrarmi - non ancora, almeno - e questo mi donava un ultimo e breve momento di felicità. Per una notte ancora, potevo fingere che tutto andasse bene.

 

«Credevamo arrivaste prima, signorina,» commentò la donna, accompagnandomi al piano di sopra. «Il signore ci ha chiesto di preparare il pollo.»

 

«Detesto la carne,» sussurrai, ancora tremolante. La donna non commentò, se pur mi dedicò un breve sorriso.

 

«Questa porta dà ai vostri appartamenti,» mi informò ancora, dandomi accesso ad un corridoio laterale: «sulla destra, la camera da letto e una piccola libreria mentre sulla sinistra il bagno ed una piccola sala per il tè.»

 

La cameriera mi portò direttamente verso la camera da letto, prendendo ad accendere le candele in tutto l'ambiente. Illuminò un luogo freddo e spento, ben lontano dall'essere considerato abitato di recente: un letto ampio con lenzuola bianche, l'angolo per le acconciature e l'armadio, un piccolo leggio.

Provai ad aprire le finestre che davano sul balcone, ma non ci riuscii.

 

«Chiamerò qualcuno per sistemarla.»

 

La donna mi sorrise, così mi voltai verso di lei. «Come vi chiamate?»

 

«Dora, mia signora, Dora Wilson. Sarò la vostra collaboratrice personale durante la vostra permanenza.»

 

Trattenni un sorriso amaro. «Ne parlate come se fosse una vacanza.»

 

«Sono sommersa da positività,» commentò lei, cauta: «di questi tempi, è tutto ciò che ci resta.»

 

Dora aveva ragione, per quanto mi fosse difficile prenderla in parola. Fino a poche ore prima, mi ritenevo una vittima del mio stesso sangue, ed ora stavo per sposarmi con un cacciatore di streghe. Di male in peggio.

 

«Com'è lui?»

 

Davanti a quella richiesta, Dora prese a ridacchiare come se fossi una bambina scoperte con le mani nel vaso di biscotti. Mi sentii quasi in imbarazzo.

 

«Oh, credo che sia più saggio lasciarvi prendere le vostre decisioni.» Riprese la sua candela, avvicinandosi a me. «Vi serve aiuto per cambiarvi?»

 

Scossi il volto, cauta. «So fare da sola.»

 

Lei ne sembrò impressionata: si avvicinò a me, guardandomi con tenerezza, e dandomi una veloce carezza sulla mano. «Cara ragazza, davvero una cara ragazza.»

 

Continuò a ripetere quelle parole mentre usciva dalla camera, lasciandomi sola alla fioca luce delle candele. Mi sedetti sul bordo del letto, tastandone la dura comodità.

Poi, semplicemente, mi portai le mani al volto ed iniziai a piangere - un pianto soffocato e silenzioso, fin troppo carico di incomprensioni e pensieri funesti.

Cosa ci facevo in quella casa? Perché Uriah ci teneva tanto ad una povera schiava? Lenzuola, libri, ricchezze: quelle non erano cose che un uomo del suo rango avrebbe donato ad una giovane del mio.

Il suo desiderio non aveva senso, né giustificazioni: voleva un matrimonio, ma aveva scelto la ragazza sbagliata.

Presi dalla tasca il vecchio orologio dal cinturino di cuoio, lucidandolo per l'ennesima volta contro un lembo del mio vestito. Funzionava ancora, nonostante tutte le volte in cui Adam aveva cercato di distruggerlo: sapeva che era un dono di nostro padre, eppure non riusciva a tollerare la vista.

Voltai il quadrante, leggendo le poche lettere incise sul metallo spesso.

 

Nihil difficile amanti.

 

Sollevai lo sguardo, catturata da uno scricchiolio lontano. Nascosi subito l'orologio e mi rialzai, avvicinandomi all'alta porta di vetro, cercando di scorgere qualcosa fra le fessure scoperte.

La porta era ancora bloccata e non riuscii a vedere nulla, se non uno stralcio di bosco oltre il parapetto. 

Tornai a letto ancora carica di nervosismo, e mi infilai sotto le lenzuola senza nemmeno svestirmi. Serrai gli occhi con forza, sin quasi a farli dolore, e mi imposi di non riaprirli più.

 

-

 

Fu Dora a svegliarmi, il mattino dopo, e subito mi costrinse ad un'interminabile successione di torture: mi spazzolò, mi lavò, mi vestì e mi acconciò i capelli.

Passate le ore, mi sentivo già pronta per ritornare a letto - per fortuna, però, tutta quella confusione mi distrasse dal pensare.

Sapevo che non sarei potuta scappare per sempre e che quel momento era finalmente giunto: stavo per incontrare Uriah.

 

«Il padrone sta finendo un colloquio, ma sono certa che non gli arrecherà disturbo la vostra compagnia,» mi informò la donna, scortandomi per i corridoi della villa.

Ora, illuminata dai raggi del sole, questa sembrava prendere nuova vita: le pareti erano tappezzate da tinte accesse e calde, così come il mobilio rigorosamente in legno.

Era elegante ed accogliente, al contrario del suo proprietario.

 

«Un colloquio?»

 

Dora tirò un breve sorriso, fermandosi davanti ad una porta chiusa. «Quando avete finito, non stentate a chiamarmi.»

 

Fu lei a bussare per me, scappando subito dopo, così da evitare un possibile rimprovero. 

Sbuffai, innervosita, ed entrai non appena sentito il pesante invito dall'interno: distratta dall'inganno della cameriera, capii troppo tardi cosa avevo davanti, bloccandomi.

 

«Buongiorno, Ophelia,» salutò Uriah, poggiato con stanchezza sulla scrivania in legno. Sotto di questa, il cane nero riposava attento. «Hai passato una notte rilassante?»

 

Scioccata, non riuscii a trovare la parole per rispondere. Non ci riuscivo, era più forte di me: i miei occhi non lasciarono per un istante la donna legata e imbavagliata al centro della stanza, già ferita e ricoperta di sangue.

 

Sembrava svenuta, per questo non si rese conto della mia presenza. Giaceva con il capo molle, e le braccia le erano cadute dai braccioli della sedia.

Qualcuno le aveva mozzato le dita di una mano. 

 

«Sembrate sorpresa,» commentò Uriah, con un sorrisetto incantato. «Mai vista una strega?»

 

Angolo

 

Nuovo capitolo!

 

Ophelia è giunta nel regno di Uriah, ed ora, inevitabilmente, le cose giungeranno ad una svolta.

 

Vedremo se ci scapperà il morto😂

 

Detto ciò, la trama vi sta piacendo? Fatemelo sapere, mi farebbe molto piacere!

 

A presto,

Giulia

  
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