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Autore: Restart    06/03/2020    0 recensioni
Mia è in procinto di sposarsi con Gabriele, quando una bufera di neve improvvisa la costringe a passare il pomeriggio col suo vicino di casa Massimo. La convivenza porterà a galla questioni irrisolte.
Primo capitolo della serie "Per le vie di Firenze".
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ho finalmente finito di sistemare l’immensa pila di vestiti che avevo sedia e adesso guardo scoraggiata la stanza quasi in ordine. Non so se sono pronta a ritornare di là, risentire tutto il dramma legato al passato crollarmi addosso. Per questo l’ho allontanato a tempo debito. Avevo bisogno di vivere comodamente, nei miei spazi, evitare di crogiolarmi nel passato. Non riesco a capire quando la mia vita è diventato materiale da telenovela. È tanto difficile avere una vita semplice, senza troppe pretese, che scorra liscia come l’olio? Io stamattina ero semplicemente una trentenne che come unico pensiero aveva quello di organizzare il matrimonio con un ragazzo splendido, e invece bada lì che straccio sono diventata.
La luce fuori sta scomparendo sempre di più e la tempesta sembra desistere dallo smettere. Dei grossi fiocchi si sono perfino appiccicati al vetro e mi par d’essere in uno di quei film strappalacrime che Viola si spara una sera sì e l’altra anche.
«Mì?» la sua voce rompe le quasi due ore di silenzio che avevano dominato la casa. Si affaccia in camera e mi mostra un sorriso conciliante.
«Facciamo pace? Ho preparato una merendina» con la testa indica il piccolo tavolo davanti al divano dove troneggiano due piscine di tè (non possono chiamarsi tazze quelle) con un piatto pieno di biscotti. Deve aver fatto piazza pulita di tutti i pacchetti che mi erano rimasti.
«Dài, fa’ in modo di perdonarmi. Non puoi dire di no al tè, te proprio no» mi prende per una mano e mi invita ad alzarmi. Lo faccio mal volentieri, ma decido di mettere un piede davanti l’altro e arrivare fino al divano a mo’ di peso morto.
«Il tuo preferito. O almeno credo visto che c’era solo questo in dispensa»
«Era l’unico in offerta al supermercato» prendo un lungo sorso e per poco non mi ustiono la gola. Dire che è bollente sarebbe un eufemismo. 
«Effettivamente quando esce il vapore vuol dire che è tiepido» commenta sarcastico, buttandosi un frollino per intero in bocca. Lo fulmino con gli occhi e lui ammicca un sorriso divertito.
«Gigi mi ha appena mandato un messaggio. Stanno passando con il gatto delle nevi. Vede se riesce a raccattare un passaggio clandestino» scoppio a ridere senza motivo. Mi guarda stranito e per osmosi forse comincia anche lui a ridacchiare.
«Sei strana Mi, sei troppo strana» cerca di dire, tra una risata e l’altra. E allora, mentre ci fissiamo negli occhi, sento che la cosa più naturale del mondo è sentirlo tra le mie braccia. E quell’abbraccio, ne sono sicura, è stato il gesto più spontaneo che abbia mai fatto.
«Anche te sei strano Max» dico, con il viso spiaccicato contro il suo petto. «Dopo l’inferno che ti ho fatto passare, te sei ancora qui. Sei ancora accanto a me ad abbracciarmi» lui non risponde, ma sento il suo cuore battere all’impazzata. Questo fa smuovere anche quella palla di pietra che ho al posto del mio, che inizia ad agitarsi ansiosamente. Non provavo questa angoscia mista a leggerezza da molto tempo. Neanche quando Gabri mi ha chiesto di sposarlo forse. Forse quando l’ho baciato per la prima volta. Sì, quella volta avevo il cuore pronto a scapparmi dal petto. Era stato a lungo tempo il mio migliore amico e mi stava baciando. Mi stava dando un lungo bacio da togliere il fiato e io ero in un brodo di giuggiole. Era la sera di ferragosto e io ero da poco tornata dall’Inghilterra. Avevo cercato di riunire il gruppo, ma non avevo fatto i conti con il tempo. Ero scomparsa per tre anni, in tre anni le persone cambiano, crescono. Max era allora sposato con Anita e lei era incinta, così come Viola. Andrea si era appena sposato con un’americana. E poi c’erano Cate e Stefano, anche loro da poco sposati. Perciò, era rimasto Gabri, solo lui non era cambiato. Solo lui era rimasto lo stesso ragazzo che avevo lasciato. Abbiamo ballato tutta la notte e sulla strada del ritorno lui mi ha preso la mano, l’ha baciata e mi ha guardato in un modo che mi ha fatto tremare le gambe. “Ho da dirti una cosa che tengo per me da tanto tempo” si è avvicinato e senza dire altro mi ha baciata. E io mi sono lasciata trasportare dall’onda di emozioni che mi ha preso in pieno. Sono passati quasi dieci anni da quella notte. E io continuo a sentire per lui quel trasporto, quello stesso trasporto che mi ha smosso completamente.
Con Max invece è diverso, è diverso in un modo che forse non riesco a spiegare. Lui c’è sempre stato nella mia vita, nel bene e nel male. È sempre stata una sicurezza, anche quando non potevo vederlo, o almeno non riuscivo a vederlo cresciuto e maturo insieme ad un’altra donna. Aveva promesso a me quelle cose e in solo pochi anni era riuscito a dimenticarmi totalmente. Sarà egoistico, ma non sono riuscita a sentirmi in altro modo.
«Cosa facciamo quindi per ammazzare il tempo? Ho calcolato che più o meno gli ci vorrà una mezz’oretta»
«Mi potresti raccontare quella storia che mi piace» gli sorrido e anche lui lo fa.
«Non so neanche se me la ricordo…» dice vagamente, cercando di evitare i miei occhi.
«Oh andiamo, lo sappiamo entrambi che non è vero» mi sdraio, poggiando la testa sulle sue cosce e lo guardo dal basso. «Forza, comincia» ridacchia, si passa una mano sul viso e comincia a parlare.
Era il 1946, in un paese della costiera amalfitana. Una ragazza di diciotto anni passeggiava sulla spiaggia. Aveva una pelle abbronzata che metteva in risalto i suoi occhi verdi, verdissimi. Era alta, aveva un fisico che creava una lunga fila di corteggiatori. Era la più piccola delle sue sorelle e sua madre non aspettava altro che darla in sposa al primo riccone che si presentava. E se ne erano presentati tanti. Ma lei non ne voleva sapere. Ora che la guerra era finita poteva finalmente rivedere il ragazzo che era partito qualche anno prima per il fronte e lei tremava dall’eccitazione di rivederlo. E lo rivide. Ma stringeva la mano di una bellissima ballerina tedesca. Non sembrava neanche ricordarla. La nostra beniamina, che si chiamava Ada Lina, non riuscì a trattenere il dispiacere e il dolore e scappò, scappò lontano, in un posto che non conosceva e che la divorò. Roma. Si trovava in una città che non conosceva, con pochi mezzi, e una semplice sacca di tela dove ci aveva messo giusto quattro vestiti, gli unici che aveva. La prima notte vagò per la capitale senza fermarsi, anche se i sandali con il tacco le divoravano i piedi. All’alba si fermò in un bar in Via dei Coronari. Non c’era nessun altro in quel posto se non un uomo che dimostrava meno di quanto avesse. “Come ti chiami?” chiese lui con un accento particolare che lei non riuscì a decifrare. “Ada” disse con voce strozzata mentre cercava di buttare giù una limonata in cui si era scordata di metterci lo zucchero. Era l’inizio di maggio ma già un caldo soffocante aveva invaso Roma. L’altro annuì, capendo che di più non poteva parlarci. Le offrì la limonata e si sedette accanto a lei. Ada aveva paura, una paura che le faceva tremare le gambe. Aveva paura perché in una situazione del genere si era già trovata quando era più piccola. Ma quella volta era stato provvidenziale l’arrivo di sua madre, una donna tutta d’un pezzo che si era portata un’intera famiglia sulle spalle, perfino suo padre, un poco di buono. Ada invocò tutta la forza di sua madre per assisterla, per aiutarla ad affrontare una mossa scomoda. Ma lo straniero non si mosse, semplicemente continuò a studiarla, ad ammirare i suoi lineamenti selvaggi, felini ma allo stesso tempo stupefacenti. “Mi chiamo Fabrizio Neri, e lavoro a Cinecittà” si presentò, porgendole la mano. “Sei bellissima, lo sai? C’hai una bellezza che le americane ti potrebbero invidiare”. Ada fece scattare lo sguardo su quello straniero e su quella proposta che la impauriva e che l’allettava allo stesso tempo. “Non sono solo bella. Ho anche un cervello” disse d’impulso, sfidandolo con gli occhi, i suoi profondi occhi di giada. Lui si leccò le labbra lentamente e sorrise, un sorriso quasi malefico, felino anch’esso. “Non l’ho mai messo in discussione” fece una breve pausa. “Vuoi venire a vedere dove lavoro?” Ada si sentì messa al muro. Avrebbe voluto dire di sì, ma temeva che lui non fosse chi diceva di essere, che le facesse del male. “Come faccio a sapere che vuoi solamente farmi vedere quel posto? Come faccio a fidarmi di te?” Lui fece un’altra volta quel sorriso che fece gelare il sangue nelle vene della ragazza. “Ho avuto la prova che hai davvero un cervello. Bene, meglio così. Facciamo una cosa” si voltò e chiamò alla ragazzina che scribacchiava continuamente su un grande quaderno rosso. “Lucì, questa è Ada. Portala da Nicoletta. Lei saprà cosa farne” si rivolse ad Ada “Sei più sicura se io non ti sono attorno?” e la ragazza annuì. Neri si schiarì la voce e si alzò con calma. “Spero che tu possa accettare la mia proposta, anche se non sei obbligata ad andare. Ma io vedo un brillante futuro davanti a te” e se ne andò senza aggiungere altro. Lucia, senza perdere la sua compostezza, invitò Ada ad alzarsi e fece in modo che la seguisse. Ada mentre camminava continuava a rimuginare sulla scelta che aveva fatto. Era proprio sicura che quella non sarebbe stata una trappola? Se avessero voluto solamente approfittare di lei? Presa dalla paura di perdere quelle poche lire che aveva le mise velocemente nella tasca che si era creata nel reggiseno. In realtà non cambiava niente, ma si sentiva più sicura ad averli attaccati al corpo. Quella bimbetta che le faceva da guida camminava come una gazzella, leggera e a passi veloci. Arrivarono in fondo alla via o almeno quasi e si posizionarono davanti ad un portone che aveva vissuto il suo periodo migliore qualche decennio prima. “Nicolé? Nicolé! C’ho ‘na ragazzetta che te manda Fabbrì” sbraitò Lucia alla finestra del primo piano. Una donna sulla trentina si affacciò. “Che te urli a quest’ora?” la rimbeccò con tono duro. Poi il suo sguardo si posò sulla figura statuaria di Ada. “Anvedi…” disse sottovoce, prima di farle salire. “Poi me dici dove l’ha trovata una così quel buono a nulla di mio marito. Madonna, questa va fatta vede’ a Vittorio. O a Roberto. Questa ce fa fa li milioni” l’ultima frase la disse sottovoce, a se stessa, ma Ada la captò ugualmente. E fece una smorfia d’orgoglio. Nicoletta la cambiò, le mise uno degli abiti che stava preparando. Era di una seta così morbida che ad Ada non le parve reale. E poi, con l’aiuto di Lucia la truccarono, le pettinarono i capelli. Quel pomeriggio Ada, forse un po’ drogata dalla bellezza in cui si trovava, quasi come in un sogno seguì quelle donne, allentando un po’ la tensione. La portarono nell’ufficio di Fabrizio Neri che dopo venne a sapere essere un produttore. Lo chiese un paio di volte cosa quello significasse. C’è da aggiungere che all’epoca Ada sapesse a malapena leggere e scrivere. Insomma quel Fabrizio la portò diretta da un paio di registi che rimasero impressionati da quella giovane selvaggia. “Potresti cambiare nome” le suggerirono diverse volte, ma lei rispose non un no secco ogni volta. Le fecero fare vari provini, talmente tanti che la sera sentiva i muscoli del viso indolenziti. La presero per una coppia di film. Non le sembrava vero. Continuava a tirarsi i pizzicotti, perché era abbastanza sicura che quello fosse un sogno. Ma si faceva soltanto male. Quella sera baciò perfino Neri sulle guance per la gioia. Ma se ne pentì. “Sei sposato, mi dispiace” e lui le rivolse il suo sorriso felino. “Mia moglie non si fa problemi” e la baciò, senza che lei potesse replicare. Se la portò a letto e lei non disse niente. La mattina dopo, attanagliata dai sensi di colpa, chiamò Nicoletta. Lei non si scompose “Non sei la prima, né l’ultima, fattene una ragione, così come ho fatto io. Mio marito ha tante amanti, ma torna sempre da me” e chiuse la telefonata. Ada fu colpita dalla sua reazione e decise di prendere alla lettera le parole di lei. La relazione con Neri sarebbe stata di affari.
Un anno dopo era una star. Arrivavano richieste anche dall’estero. Ma Ada non si sentiva al meglio. Fabrizio era distante e sicuramente aveva un’altra amante. Lei si era innamorata, sebbene si fosse ripromessa di non farlo mai più dopo quello che le aveva fatto Carlo, il fidanzato che l’aveva lasciata per la ballerina. Una sera girò tutta Roma a piedi. Ormai la conosceva bene. Era la sua casa. E anche quella notte fece l’incontro che le cambiò la vita. Uno sconosciuto, ancora una volta, che fumava solitario su di un ponte. Lei si mise in bocca una sigaretta e gli si avvicinò. In un anno aveva perso il pudore infantile e era diventata donna. Gli si mise vicina, con i gomiti che si toccavano e chiese da accendere. Non tremava più quando era accanto ad un uomo, si sentiva sicura di sé, dei suoi mezzi. Lui invece sentì le ginocchia ballare. Mai nessuna ragazza aveva parlato così con lui. Le avvicinò tremolante il suo accendino e quando l’accese poté vedere meglio quei lineamenti ombrosi della ragazza. Gli occhi verdi brillarono alla luce del fuoco. Pensò per un attimo di avere la Madonna davanti. “Maria…!” esclamò piano, sconvolto in viso e dentro di sé. Lei sorrise beffarda. “No, Ada” e gli porse la mano decisa. Lui, un po’ meno deciso la strinse. “Giovanni”. “Mi pare d’averti già visto” disse lei, cancellando il contatto visivo per portare lo sguardo alla cupola di San Pietro. Lui guardò il profilo elegante di lei che fumava, aspettandosi una risposta, un qualcosa. E poi realizzò, realizzò di averla vista in quel cinema dove non si respirava dal caldo, dall’odore di naftalina misto a quello delle Popolari o forse delle Nazionali, non si riusciva a capire bene. Si ricordò di essersi innamorato di quegl’occhi di giada che l’avevano appena fissato dal primo momento in cui apparvero sullo schermo. “Sei quell’attrice, no?” chiese lui tremolante. Lei sorrise. “No, io sono Ada” replicò. Si dovette accontentare di quella risposta, almeno per il momento. Da quella sera e negli anni avvenire avrebbe dovuto tenere spesso a mente quella risposta, per ricordarsi che la donna che aveva al suo fianco era solo Ada. Anche se si comportava da diva al pubblico, anche se lo faceva infuriare, vicino a lui era solo Ada. Lei non capì subito che quello a cui aveva chiesto del fuoco, con cui si voleva divertire un po’ vedendolo così spaurito in mezzo ad una città pronto a divorarla, così come aveva fatto con lei, sarebbe stato l’unico punto fisso di tutta la sua vita. Non parlarono molto quella notte e nessuno dei due si ricorda se si dissero arrivederci, addio, se si salutarono insomma. Non lo fecero perché dentro di loro sapevano che si sarebbero visti di nuovo. Una settimana dopo, per essere esatti. A Trastevere. Lei, stranamente da sola, beveva una birra fredda in un piccolo tavolo fuori da un bar. Lui aveva appena svoltato, accompagnato da un paio di tizi che non le piacquero per niente. Le sorrise timido. Lei ricambiò. Le si sedette accanto, ignorando le proteste dei due uomini ingessati. “L’amore della mia vita” disse lui. Lei si immobilizzò. Lui ridacchio. “La birra ghiacciata”. Si sciolse. “Se è per questo, è anche il mio” e ne ordinò un’altra. Passarono il pomeriggio insieme anche se non avrebbero dovuto. Lui doveva incontrarsi col suo manager, lei con il suo nuovo agente. Ma se ne fregarono. Lui si era finalmente sciolto, lei era ritornata ad essere una normale diciannovenne. “Ti porto a mangiare la migliore carbonara di tutta Roma domani, eh?” lei non esitò ad acconsentire. La sera dopo la fece salire su una terrazza dove non c’era altro che un tavolo sgangherato e due sedie forse un po’ zoppe. Lui arrivò con una padella piena di spaghetti. “Et voilà” sorrise, e sorrise anche lei. Si sentì di nuovo come dentro una di quelle storie di principesse a cui si era appassionata. Era una principessa anche lei e aveva trovato il suo principe.
Massimo smette di raccontare e mi guarda sorridente. «Ti mette sempre di buon umore questa storia» dice piano, continuando a mantenere il contatto visivo con me.
«Sempre. È la storia d’amore più bella che abbia mai sentito»
«Mia nonna ha sempre voluto che sembrasse una di quelle. Me la raccontava quando ero piccolo. Diceva sempre che io ero in grado di ascoltarla e apprezzarla ed era sicura, anzi, è sicura che prima o poi sarò in grado di metterla per iscritto» c’è una vaga ombra nei suoi occhi.
« È da quando che ti conosco che stai cercando di scrivere quel libro. Non hai ancora trovato il modo? »
Scuote la testa. «Ho bisogno di un’ispirazione per creare per bene la figura di Ada. È così complessa e stratificata che non riesco a renderla mai bene» mi guarda ancora, questa volta con più intensità. Ricambio. Sento lo stomaco stringersi. Alla fine facciamo ciò che pensavamo di fare fin dall’inizio, senza più girarci attorno, senza più raccontarci balle.
Lui mi bacia, o forse io lo bacio, non lo so, ma so che è bello. È bello come tornare a casa dopo un lungo viaggio, ritrovare una persona dopo una lunga assenza. Ecco cos’è.
E poi il campanello suona fastidiosamente.
   
 
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