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Autore: _Amaryllis    07/03/2020    4 recensioni
Fu solo a lavoro, solo soletto in una libreria deserta e poco frequentata, che si ricordò del giornale che aveva nella borsa. Non avendo molto da fare e avendo sistemato gli ultimi arrivi già da qualche oretta, si permise di essere una normale persona con normali interessi e recuperò il giornale, dalla cui prima pagina tuonava con fare minaccioso “Megxit: a rischio la corona?”. Sbuffò, quasi tentato di rimettere in borsa il quotidiano, se non proprio buttarlo, ma si fermò col braccio a mezz’aria, attirato dal nome sull’editoriale in prima pagina: Arthur Pendragon. Ed ecco che gli partì una risata isterica, totalmente fuori luogo, che gli meritò un’occhiataccia perplessa dell’unico signore di mezza età presente in biblioteca – che, a dirla tutta, gli ricordava un po’ Gaius. Non poteva trattarsi di lui. Lui che non si era degnato di tornare con conflitti mondiali, epidemie, osava tornare perché un principe aveva deciso di trasferirsi oltremanica? Questo era il colmo! Un Pendragon a commentare le vicende di un Windsor.
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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3. Oltre le coltri della magia
 
 
Di scelte avventate e azioni furtive Arthur Pendragon non ne aveva mai fatte. Si reputava, piuttosto orgogliosamente, una persona onesta e dalla coscienza trasparente. In quasi trent’anni si era comportato in maniera ligia, senza sotterfugi né assurdi piani improvvisati per sottrarre libri misteriosi.
Era tutta colpa di Merlin. Prima di Merlin, Arthur non aveva mai rubato niente, mai ingannato nessuno, ora invece… Ma si sentiva giustificato nel profondo, Arthur: era colpa di Merlin se quel libro aveva tiratura limitata a una, e dico una, copia. Assurdo.
Quindi era colpa di Merlin e non sua se aveva preso il libro col titolo Poems of the Lake e l’aveva nascosto nella borsa del lavoro prima che Merlin tornasse con la borsetta per la bottiglia col preparato.
E ora Arthur si trovava lì, nella sua vecchia cameretta nella casa di Glastonbury, col fatidico libro tra le mani. Quella storia aveva messo in secondo piano anche la sorpresa per l’efficacia del metodo naturale di Merlin contro l’insonnia.
Quando Arthur era tornato a casa Carlisle, l’odore di pancake l’aveva accolto come prima cosa. La seconda fu l’abbraccio stretto di Martha all’odore di cannella. Aveva sorriso, ricambiando l’abbraccio, e da sopra la spalla della donna aveva salutato David, alle prese con i fornelli. La colazione era stata intrisa di familiarità e serenità.
Ancora una volta, Louis non faceva parte di quel quadretto. Quando la sera prima il suo ragazzo aveva cancellato i programmi della serata, Arthur non pensava che stesse dando forfait anche al viaggio a Glastonbury. Ogni volta che negli ultimi mesi il biondo aveva provato a portarlo con sé nella sua città natale, col desiderio di creare la perfetta occasione per presentare il suo compagno alle due persone che tanto amorevolmente l’avevano cresciuto, c’era sempre stato un impegno dell’ultimo minuto, ovviamente improrogabile, che aveva imposto un cambio di piani. Arthur aveva perso il conto delle volte in cui aveva annunciato ai suoi che Louis sarebbe venuto con lui a Glastonbury: ormai, comunicava semplicemente il suo arrivo, con la speranza che avrebbe potuto essere accompagnato all’ultimo momento dal suo ragazzo.
Non che le cose a Londra andassero meglio. Aveva notato in Louis un’insoddisfazione generale che riversava sui progetti futuri di Arthur. L’intervista ai Sussex era catalogata come una sciocchezza superficiale. Il desiderio di entrare in politica, impossibile da realizzarsi. Arthur non si aspettava un supporto al cento per cento da parte di Louis, o meglio si aspettava opinioni espresse con pensiero critico: dunque, finché fossero riferite con reali motivazioni, le obiezioni ai suoi progetti erano ben accette. Ma il ripetuto stroncare le sue scelte lavorative, senza per di più valide motivazioni a sostegno del no, pesava su Arthur come un macigno.
Ripensò alle parole di Merlin la sera precedente. Conoscendo almeno un po’ il carattere del ragazzo, Arthur poteva ben dire che non si trattasse di vuote frasi di circostanza, il moro l’aveva incoraggiato davvero a perseguire le sue idee. Aveva sentito una certa familiarità in quelle parole così motivanti, forse gli ricordavano semplicemente l’atteggiamento connotato da infinito affetto che i suoi genitori avevano sempre mostrato davanti ai suoi progetti di vita.
Sospirò, riportando la sua attenzione al presente. Sentiva le mani tremare al tocco della copertina consunta del libro e non seppe spiegarsi il perché. Carezzò le lettere del frontespizio, leggendo di nuovo parola per parola:
 
 
 
Poems of the Lake
Never before Imprinted
 
 
AT LONDON
Printed by I. R. for M. E. and are to be fold at his
shoppe vnder Saint Dunstons Church in
Fleetstreet, 1605.
 
 
1605. Secoli e secoli fa. La curiosità l’aveva portato a sottrarre quel libro al suo legittimo proprietario, tanto valeva leggerne il contenuto, pensò.
Con immensa cautela, girò la pagina e sentì sotto i polpastrelli la carta antica, l’odore intenso gli stuzzicava le narici ricordandogli quante epoche lo dividessero da quel libro. A colpo d’occhio, capì che si trattava di un prosimetro: poesie, per lo più sonetti, si alternavano a scritti in prosa senza un determinato ordine.
Si soffermò sul primo sonetto che apriva la raccolta, leggendo con calma le parole nella sua mente:
 
Wheat and sky melded in a summer’s day
unaware of the heavenly beauty they made
A stolen glance to the red full lips is the way
my thoughts make appear a pink shade.
 
Bravery and honour are the laws of the knight
Holy bond between the man and his reign
Faith and honesty, the lights in the night
Even the magic flows slowly in his veins.
 
He doesn’t know that with only a sword
he can’t face all the danger he bumps in
There is a man with power in his word
who is the other side of the same coin.
 
The shame is the lie lives in him.
The shame is he can’t love him.
 
Grano e cielo fusi in una giornata d’estate
inconsapevoli della bellezza paradisiaca che facevano
Uno sguardo rubato alle labbra piene e rosse è il modo
con cui i miei pensieri fanno apparire una sfumatura rosa.
 
Coraggio e onore sono le leggi del cavaliere
Sacro vincolo tra l’uomo e il suo regno
Fede e onestà, le luci nella notte
Perfino la magia scorre piano nelle sue vene.
 
Egli non sa che con la sola spada
non può contrastare tutto il pericolo in cui si imbatte
C’è un uomo con il potere della sua parola
che è l’altra faccia della stessa medaglia.
 
Il peccato è che la bugia vive in lui.
Il peccato è che egli non può amarlo.
 
Arthur, finita una prima lettura del sonetto, iniziò a rileggerlo. La poesia non era mai stata il suo forte, doveva ammetterlo, ma gli sembrava di capire che quel componimento trattasse di un cavaliere, forse un principe, bello, secondo la descrizione, e del suo fidato compagno. Non capiva molto bene cosa significasse il potere della sua parola, ma aveva capito che questo secondo uomo doveva amare il principe. Dunque la prima poesia era sull’amore sfortunato del poeta per il suo principe?
Con la mente piena di dubbi, Arthur provò a leggere un componimento in prosa, concedendosi una pausa dall’interpretazione del pensiero poetico dell’autore anonimo. 
 
653
 
Io, Merlin, figlio di Balinor e Hunith di Ealdor, conosciuto dai più come Emrys, sono qui a testimoniare ciò che resta delle terre di Camelot e Avalon.
Camalet è come gli uomini di questo secolo conoscono il regno di ArthurPendragon, Re del Passato e del Futuro1. Dopo l’invasione dei Sassoni, ciò che rimase del castello dei Pendragon divenne un fortino. Invasioni successive ne decretarono la completa distruzione.
Glestingaburg è, invece, il nome con cui gli uomini chiamano il luogo cui ho affidato il mio Re2. La magia di cui questo luogo è intriso mi avverte come ostile. Posso affermare con profonda tristezza che l’ostilità è totalmente ricambiata. Ciò che di più caro avevo ho affidato a questo luogo e a distanza di secoli sono ancora qui, in attesa che Avalon restituisca ad Albion il suo Re.
Una delle assurde voci che sento dentro di me mi dice che l’attesa sarà vana, che nessun ritorno ci sarà. Ma io so che queste acque mi dovranno restituire quanto ho perso. Devo solo aspettare con pazienza il momento in cui il richiamo di Albion riecheggerà oltre le coltri della magia.
 
 
1Al momento della stampa, è opinione comune – ed errata – collocare Camelot nel Galles.
2Al momento della stampa, gli uomini la chiamano Glastonbury.
 
Se Arthur aveva pensato che le parti in prosa fossero di più facile lettura, beh, si sbagliava di grosso. Forse, pensò, quello era un testo fantastico. Sì, doveva essere così: era un testo fantastico che, nella finzione letteraria, era stato scritto da Merlin, il leggendario mago della corte di Arthur Pendragon. E, sempre nella finzione letteraria, quel Merlin aveva vissuto per un paio di secoli. D’altronde, un uomo dotato di magia poteva benissimo essere bicentenario, no? Sempre nella finzione letteraria, pensò Arthur.
La cosa che più stupì il biondo fu l’assurda coincidenza che l’aveva spinto a prendere quel libro dal Merlin che lui conosceva. Per di più, il proprietario del secolo corrente si chiamava anch’egli Merlin, proprio come il fittizio autore, e aveva incontrato proprio lui, Arthur Pendragon, per quanto artificiale fosse l’origine del suo nome. Non c’era fine alle coincidenze!
Con una strana apprensione, Arthur proseguì la sua lettura, accingendosi a leggere un altro sonetto. Stavolta, la pagina era contrassegnata da macchie sparse, che si avvertivano al tatto come se la pagina fosse stata bagnata. Lacrime, forse? Sempre più curioso, il biondo iniziò a leggere:
 
Endless tears freely fell along my face
The eyes looking for a flicker from my King
At last my arms were a peaceful place
for the “thank you” he was whispering.
 
The unsaid words will rest in silence
The thruth hidden in the deep of the heart
A kiss can’t be given without a licence
the two sides of the coin will be apart.
 
You say he’ll be back in the time of the need
Another time I see my need put away
Everyday I pray the Gods for intercede
so that tomorrow is the foretold day.
 
And while I see the dragon flying above
I’m dying with the unfair death of my love.
 
Infinite lacrime liberamente cadevano lungo la mia faccia
Gli occhi che cercavano un tremolio dal mio Re
Almeno le mie braccia erano un luogo pacifico
per il “grazie” che egli stava sussurrando.
 
Le parole non dette rimarranno nel silenzio
La verità nascosta nel profondo del cuore
Un bacio non può essere dato senza permesso
Le due facce della medaglia saranno divise.
 
Tu dici che egli ritornerà nel momento del bisogno
Un’altra volta vedo il mio bisogno messo da parte
Ogni giorno prego gli dei affinché intercedano
cosicché domani sia il giorno predetto.
 
E mentre vedo il drago volare nel cielo
sto morendo con l’ingiusta morte del mio amore.
 
Le parole che aveva appena letto turbarono in modo inspiegabile Arthur. Quando una lacrima cadde sulla pagina già consunta del libro, il ragazzo si accorse che stava piangendo. Mai si era commosso leggendo qualcosa di sentimentale, neppure vedendo uno di quei film strappalacrime che sua madre tanto adorava. Allora perché stava piangendo ora, leggendo un sonetto di un libro che era diventato per lui un grattacapo?
Cacciando via le lacrime con un gesto frettoloso della mano, girò la pagina e vide lo scritto in prosa seguente. Ancora turbato dal sonetto precedente, si ritrovò a leggere un paio di volte la prima frase senza capire. Al terzo tentativo, aveva ormai recuperato l’attenzione necessaria:
 
Non so dire con certezza quando ho capito che si trattasse di amore. A essere sinceri, ancora ora avverto turbamento nel pronunciare o scrivere questa parola.
Rileggendo i sonetti, scritti nei miei più cupi momenti di follia, dovrei dedurre che il rapporto che mi legava al mio Re sia sempre stato contraddistinto, dalla mia parte, da un amore inespresso e illecito.
Se solo lui leggesse quanto ho appena scritto, mi riprenderebbe con uno schiaffo sulla nuca e, con uno sguardo intenso, mi direbbe di stare zitto.
La verità è che, sebbene io all’epoca non capissi, per me fu un tormento. Lo catalogavo come tormento causato dal non poter svelare chi ero davvero, che possedevo la magia. In realtà capisco ora che era il tormento dell’amante non corrisposto e mai rivelatosi, destinato a restare nell’ombra.
E, masochista, fui io a spingerlo tra le braccia di Guinevere. Io, ancora una volta, ero artefice della mia stessa sconfitta.
 
E, alla lettura di queste parole, Arthur fissò la pagina a bocca aperta. Quindi in questa versione del mito mai data alle stampe mago Merlin amava re Arthur? Per la miseria, quel testo sarebbe stato un ottimo materiale per una serie ai livelli de Il Trono di Spade! Regni, cavalieri, principi ereditari e relazioni illecite con il mago. Altro che Arthur e Morgana. Ah, e per di più il mago non si era rivelato in quanto tale ma usava la sua magia nell’ombra. Tutto gridava al capolavoro fantasy.
E invece il Merlin del terzo millennio nascondeva gelosamente il libro su uno scaffale di casa sua. Pff, che razza di idiota! pensò Arthur, tornando a leggere.
 
Arthur passò il resto della giornata rintanato sotto le coperte a leggere. Il libro l’aveva totalmente rapito, era uscito dalla stanza solo per il pranzo, tant’è vero che Martha gli aveva chiesto apprensiva se ci fosse qualcosa che non andasse.
«Solo del lavoro accumulato» rispose elusivamente il figlio.
E invece la realtà era che, quel pomeriggio di metà febbraio, Arthur Pendragon – quello finto, si intende - si era deciso di darsi al fantasy. Lui, che non era riuscito a leggere Il Signore degli Anelli, che odiava con tutto sé stesso le leggende arturiane (forse il nome che portava c’entrava qualcosa, con quell’odio), stava leggendo uno strano libro fantasy su Arthur e Merlin. Che non erano lui, l’Arthur abbandonato a Glastonbury, e Merlin, il ragazzo goffo e disagiato che si era trovato come praticante.
Per la miseria, la coincidenza dei nomi lo faceva sentire a disagio. Tra l’altro, i genitori del suo Merlin – no, di Merlin e basta – erano stati veramente dei fan assurdamente appassionati del ciclo arturiano. Non solo avevano dato al figlio un nome ridicolo per i canoni del terzo millennio, avevano addirittura conservato, forse illecitamente, un testo mai pubblicato. Era tutto ai limiti del possibile.
Ma la cosa più incredibile di tutte era che Arthur aveva continuato a piangere. Inspiegabilmente le sue ghiandole lacrimali non avevano smesso di lavorare, salvo per piccole pause durante i momenti privi di grande pathos. Arthur aveva pianto leggendo delle imprese di Merlin, aveva pianto ogni qual volta Arthur – sempre l’altro - aveva afferrato la spalla del suo servitore – sì, perché in quella versione Merlin era un servitore – e l’aveva guardato con quello sguardo intenso che riservava solo a lui. Arthur era sicuro che l’Arthur letterario provasse qualcosa per il suo servo - era davvero palese in certi momenti - ma che l’(assurdo) codice d’onore di cavaliere non gli avesse permesso di rendere palesi i propri sentimenti.
La sorte più tragica era, però, spettata a Merlin. L’autore del libro l’aveva condannato a un’attesa di duecento anni senza che il suo Re tornasse. Il libro si concludeva con Merlin che scatenava la propria ira sulla torre di Avalon, provocando un disastroso terremoto da cui non si capiva se lui stesso riuscisse a mettersi in salvo.
Ecco, se ipoteticamente Arthur avesse comprato i diritti di quel libro (o forse, essendo antico, non ne aveva?) per farne una serie tv o una saga cinematografica, avrebbe senz’altro cambiato il finale. La battaglia di Camlann sarebbe avvenuta molto tempo dopo rispetto al libro, affinché Re e mago potessero vedere risplendere Albion e, finalmente, vivere il proprio amore.
Dopo aver chiuso il libro con un tonfo, Arthur si strofinò gli occhi rossi per il pianto. Avrebbe detto ai suoi che aveva un po’ di allergia. Si sarebbe calmato, si sarebbe preparato e avrebbe fatto un giro per Glastonbury con TC, il suo vecchio amico dai tempi della scuola. Sì, avrebbe fatto così.
Volendo dar subito inizio al suo piano per la serata, scrisse un messaggio all’amico, dopodiché si vestì con i primi abiti capitatigli a tiro e scese al piano inferiore, dove Martha e David stavano guardando in tv un film.
«Vi dispiace se stasera mi vedo con TC?» chiese Arthur, interrompendo a malincuore quel quadretto felice.
«Non preoccuparti, anzi mi fa piacere che tu l’abbia contattato: l’avevo incontrato qualche tempo fa al supermercato e mi aveva detto che non vi vedevate da secoli, cito testualmente» rispose Martha con un sorriso.
Arthur le diede un bacio – forse le aveva sussurrato un ti voglio bene – e salutò David con una pacca sulla spalla, dopodiché uscì di casa dirigendosi al The Sorcerer’s Pub (nome assurdo ma con le leggende si facevano bei soldi, probabilmente), distante poche centinaia di metri.
«Ma guarda, guarda chi si degna di venire in quel di Camelot, Sua Altezza Reale Arthur Pendragon» lo accolse TC a braccia aperte, prendendolo in giro come suo solito. Arthur gli concesse un mezzo abbraccio, sebbene le manifestazioni di affetto non fossero il suo forte.
«Davvero mi saluterai sempre così?» chiese il biondo, nascondendo una risata.
«Oh sì, è troppo bella la faccia che fai ogni volta» replicò TC. Portava i capelli castani lunghi, una barbetta ispida e look da motociclista: negli anni, Arthur non si era mai deciso se gli sembrasse più un modello da sfilate di moda o un modello per una pubblicità di shampoo.
«Vorrei dire lo stesso della tua faccia ma mentirei».
«Oh, principessa, lo so che hai una cotta per me dai tempi del tuo coming-out».
«Ma manco per sogno, Callahan!».
Continuarono a scambiarsi battutine finché non presero posto all’interno del pub. Arthur si ritrovò a contare alla rovescia, aspettando un interrogatorio da un momento all’altro.
«Allora, che ragione ha dato il principe consorte, per non venire a Glastonbury, stavolta?» chiese TC, tagliando la testa al toro.
«Lavoro» rispose laconico Arthur.
«Non muove quel culo secco nemmeno per venire a conoscere i tuoi, pazzesco».
«Non dire così» scattò il biondo, sobbalzando alle parole dell’amico.
«Non dirò più così quando si degnerà di incontrare Martha e David, senza scappare oltreoceano se loro dovessero trovarsi a Londra».
«Oh, aveva avuto un’emergenza a Boston, non puoi fargliene una colpa».
«Posso e dovresti farlo anche tu, Arthie».
«Non chiamarmi Arthie!».
«Hai ragione, principessa».
«Davvero TC, ho un nome, brutto ma ce l’ho».
«Principessa, il tuo è un bel nome, è col cognome che ti hanno rovinato».
I due risero, abbandonandosi per un po’ alla birra, già arrivata al tavolo. Arthur iniziò a giocare col sottobicchiere, cercando nel liquido ambrato un po’ di coraggio.
«So che hai ragione, solo che non riesco ad affrontarlo» disse dopo un po’.
TC lo guardò, in uno dei rari momenti di serietà. Era strano vedere Arthur insicuro, pensò: scherzava con la faccenda di Camelot perché il suo amico sembrava una barzelletta vivente, con tutte quelle assurde coincidenza, eppure con la figura leggendaria del re della Britannia aveva in comune un fare regale e carismatico che solo quel Louis riusciva a rendere nullo con pochi gesti e parole. E faceva male, vedere il suo amico perdere la luce che di solito lo caratterizzava perché si ostinava a investire in una relazione che lo snaturava.
«So che, se ascolterai te stesso, farai la cosa giusta, Pendragon» disse dopo un po’, interrompendo il silenzio che si era venuto a creare. Il biondo alzò lo sguardo dalla propria pinta e fissò gli occhi blu in quelli dell’amico.
«Non capisco più chi è Arthur Pendragon» replicò il ragazzo in risposta. TC lo guardò semplicemente, aspettando che l’amico spiegasse cosa intendesse. «Ho una strana voglia di buttarmi in nuovi progetti, ma basta un niente per sentire l’insicurezza assalirmi. Se mi guardo allo specchio, vedo un uomo di circa trent’anni che non riconosco. Mi consideravo forte, ora mi sento come se fossi privo di bussola in un posto sperduto, che non conosco».
Liberatosi di quelle parole, Arthur buttò giù in un sorso tutta la birra che era rimasta nel bicchiere. Sentì la gola pizzicargli e godette di quella sensazione provocata dall’alcol.
«Tutti ci sentiamo così ad un certo punto della nostra vita. Puoi ripartire da capo, quando ti senti così. Chiediti chi sei e non pensare alle persone intorno a te. Con calma, senza pressioni».
«Non è facile, TC, sento pressioni dappertutto».
«E allora prenditi una pausa da tutto. Inventa una balla e prenditi una settimana di tempo, un periodo di congedo o un’altra scusa, ma fermati un attimo. Se non vuoi stare dai tuoi, ti lascio il mio appartamento. Tanto la prossima settimana parto per San Francisco».
Arthur fissò l’amico per qualche secondo. L’idea non era male, anche se avrebbe dovuto fare leva su Gaius per saltare il lavoro per una settimana. Ma c’erano troppe cose in ballo, per le settimane a venire, tra cui l’intervista ai duchi. No, non si poteva proprio fare.
«Per stavolta passo ma grazie per l’offerta» replicò Arthur.
«Come vuoi, principessa. L’offerta non scade» lo rassicurò TC, alzandosi per un altro giro di birre.
 
Si sente il crepitio del fuoco. Un uomo moro passa a un uomo biondo dell’acqua.
«Merlin, qualsiasi cosa accada...».
«Shh, non parlare».
«Sono il re, Merlin. Non puoi dirmi cosa devo fare».
«L’ho sempre fatto. Non ho intenzione di cambiare adesso».
«Non voglio che tu cambi. Io voglio che tu… rimanga sempre… te stesso. Mi dispiace per come ti ho trattato».
 
«Tutta la tua magia, Merlin, non può salvarmi».
«Io posso. Non ho intenzione di perderti». Il moro regge a fatica l’uomo biondo, non riesce a mantenerlo in piedi.
«Solo, tienimi soltanto. Ti prego».
Il moro desiste.
«C’è qualcosa che voglio dirti».
«Non mi dirai addio».
«No, Merlin. Tutto ciò che hai fatto. Lo so ora. Per me, per Camelot. Per il regno che tu mi hai aiutato a costruire...».
«Ce l’avresti fatta anche senza di me».
«Forse. Voglio dire qualcosa… qualcosa che non ti ho mai detto prima…». Il biondo, stanco, guarda intensamente l’altro uomo.
«Grazie». La mano del biondo, che prima aveva messo sul collo del moro, cade. Senza vita.
 
Arthur si svegliò di soprassalto. Si toccò il costato, avvertendo una fitta acuta. Si sorprese a scoprirsi il torace dalla maglia del pigiama. Non ricordava di essersi fatto male.
Stava impazzendo, forse? Perché pensava di aver appena vissuto in sogno la propria morte. E non lo stava pensando perché l’uomo biondo del sogno era identico a lui. Lo pensava perché, in fondo, sapeva di essere morto per una ferita di spada. Era stato Mordred, a ucciderlo. Mordred, in combutta con Morgana, sua sorella.
Gli scoppiava la testa. Una fitta assurda lo costrinse a stringersi le tempie.
Arthur.
Si volse. Perfetto, ora aveva anche allucinazioni uditive.
Arthur Pendragon, Re del Passato e del Futuro.
Non stava accadendo davvero…
È Avalon che ti sta chiamando.
E da qualche parte, nel profondo, Arthur sentì che c’era un senso, a tutto questo. Che quel luogo, quelle rovine che l’avevano sempre inorridito, lo stavano richiamando a sé.
Era il richiamo di Albion.
 
L’aria notturna era pungente, il freddo si avvertiva fino alle ossa. La nebbia era una coltre pesante che copriva tutto il territorio, lasciando in vista solo la collina e la torre, facendole apparire come se galleggiassero per aria.
Arthur aveva sempre evitato quel luogo. Quando era nei paraggi, avvertiva una sensazione strana nel petto, come se un peso lo ancorasse al suolo. Ora sentiva quella stessa sensazione amplificata, sempre più forte, quando sempre meno passi lo dividevano da Glastonbury Tor. Arrivò ai piedi della collina ed ebbe per un momento paura di inoltrarsi in quella nebbia che gli pareva tutto eccetto che un fenomeno naturale. Si disse che, essendo un Re, non doveva temere nulla. Un Re. Fino a qualche ora prima era solo un uomo che si sbronzava in un pub.
Scacciando quell’ultimo pensiero, che gli sembrò troppo umano e inopportuno per un momento del genere, si decise a intraprendere l’ultimo tratto che lo divideva dalla sua meta. Inoltratosi nella nebbia, capì perché non gli sembrava un fenomeno naturale: non lo era. L’aria era fitta, bianca, pesante, e lo avvolgeva. Non sapeva perché i suoi piedi si muovessero in un certo modo, verso una certa direzione. Doveva essere magia. Non vacillava, camminava con la sicurezza di chi vede lo spazio attorno a sé.
E all’improvviso si sentì leggero, il peso, che fino a pochi istanti prima avvertiva, svanito. La nebbia scomparve e davanti a lui si materializzò una radura verdeggiante e luminosa, il sole nella posizione tipica del tramonto, eppure dovevano mancare poche ore all’alba. Guardò l’orologio che aveva al polso: il quadrante era spaccato. Allora si guardò intorno, alla ricerca disperata di qualcosa o qualcuno che gli dicesse cosa diavolo ci faceva lì.
Una ragazza in bianche vesti volteggiava danzando sul prato. Arthur si sentì stranamente rassicurato: qualcosa, nel vedere quella ragazza, gli sembrava familiare. Quando le fu abbastanza vicino, lei si fermò e si voltò di scatto, sorridendogli. Corse verso di lui afferrandogli le mani e volgendo i palmi verso l’alto: al contatto delle mani, linee dorate di quella che doveva essere magia si sprigionarono dal corpo di Arthur, che d’improvviso appariva vestito con indumenti antichi e corona di fiori, non più con i suoi abiti del ventunesimo secolo.
«Arthur Pendragon» sussurrò la ragazza mora che, davanti a lui, ancora gli sorrideva. «Arthur Pendragon», ripeté.
«Dama del Lago» si sentì dire Arthur, senza aver piena coscienza di ciò che diceva.«Freya».
La ragazza gli sorrise. Ora Arthur poté vedere che rivoli di magia le adornavano i capelli come fossero nastri. La magia, potente, scorreva in lei e fuori di lei. Arthur sentiva quella magia.
«Mio Re» disse allora Freya, abbassandosi in un profondo inchino, senza lasciare le mani di Arthur. «Aspettavamo questo momento da tempo, qui ad Avalon».
Arthur la vide rialzarsi e voltarsi verso un palazzo che si trovava sulla sommità della piccola altura, lì dove prima poteva vedere la torre di San Michele. La fanciulla iniziò a dirigersi verso il palazzo, camminando a piedi scalzi sull’erba. Dietro di lei, Arthur, in silenzio, la seguiva, col mantello rosso che volteggiava nell’aria e la corona di fiori ben salda sul capo.
Camminarono come fossero in processione fino alla sommità della collina. Arthur si voltò: non era Glastonbury che li circondava ma un lago, un oceano, forse, una distesa d’acqua che pareva infinita. Provò, allora, una paura improvvisa nel petto e si toccò il costato, come aveva fatto nel letto, percependo la ferita sotto la cotta di maglia.
«Non avere timore, Re del Passato e del Futuro. Avalon ti ha richiamato per darti ciò che è tuo» lo tranquillizzò Freya, indicandogli una roccia alla sua destra.
Lì, incastonata nella roccia, Excalibur splendeva ai raggi del sole.
«Non credo che potrò fare molto, nel mondo di oggi, con una spada» disse Arthur non staccando gli occhi da quella che era stata la sua spada.
«Non la riporterai nel tuo mondo, Arthur Pendragon. Ma dovrai impugnarla per mostrare a te stesso che sei il degno Re di Albion, tornato in vita per compiere la tua missione» replicò la Dama del Lago, delimitando il terreno intorno alla roccia con i suoi passi. «Solo estraendo Excalibur dimostrerai di essere pronto».
Arthur guardò Freya per un attimo, poi tornò a guardare la spada.
«Eppure non capisco», iniziò a dire dando voce ai suoi pensieri. «Cosa sta succedendo? Ho ricordato la mia vita precedente, ma come può essere possibile tutto ciò?».
«Sei il Re del Passato e del Futuro ed era scritto che tu tornassi per il bene di Albion» spiegò Freya.
«In che modo potrei essere utile ad Albion? Tutto è diverso, non c’è sangue reale in me, non sono più re e non posso presentarmi alla regina attualmente in carica come Re del Passato e del Futuro». Ad Arthur sembrava tutto assurdo. Pensò per un attimo all’ipotetico incontro con la regina Elisabetta: l’avrebbero portato alla clinica psichiatrica più vicina, se si fosse presentato come il mitico re che per molti non era neppure esistito realmente.
«È qui che ti sbagli, Arthur Pendragon» replicò la Dama, «non c’è sovrano di questa terra che non sappia della profezia. Qualunque reale d’Inghilterra è sottomesso a te, dal momento del tuo ritorno».
A quelle parole Arthur boccheggiò. I reali sapevano che in un momento imprecisato della storia dell’Inghilterra lui sarebbe tornato dall’oltretomba?
«So che ti sembrerà strano, Arthur, ma tutto ti sarà più chiaro al tuo rientro a Londra, dove il mentore che per te Avalon ha scelto è in attesa» lo rassicurò Freya.
Arthur guardò la ragazza un’ultima volta, poi si diresse verso la roccia. Afferrò l’elsa di Exalibur, mitica e splendente, e non ci volle eccessiva forza per estrarla dalla roccia. Si sentì rinato, con la sua spada tra le mani. Un calore leggero si propagò attraverso il suo corpo. L’incertezza precedente era svanita per lasciar posto a una sicurezza che non ricordava di possedere.
Al suo fianco, Freya allungò le mani e lui, fissando un’ultima volta Excalibur, gliel’affidò.
«Excalibur sarà qui, ad Avalon, se mai ne avrai bisogno, Arthur Pendragon. Per ora il tuo tempo ad Avalon è finito, il mondo dei mortali ti aspetta».
Arthur si ritrovò a fissare Freya andare verso il bacino d’acqua, tracciando magiche linee nell’acqua con Excalibur. Quando la donna scomparve tra le acque, si ritrovò in abiti moderni, all’albeggiare, a pochi metri della torre di San Michele. Guardò la distesa di terre intorno a lui. Il suo regno, il suo popolo, la gente che conosceva, era tutto andato. No, si corresse, c’era Gaius. E Merlin.
Merlin, pensò. Di cui aveva letto i più reconditi segreti. Sospirò, sedendosi sull’erba e guardando il cielo rischiararsi. Rifletté, pensando a cosa avrebbe fatto nel mondo reale. E lì, guardando il paesaggio, decise che, al contrario di quanto aveva sempre fatto, Albion avrebbe atteso un altro po’: la prima cosa che avrebbe fatto era cercare Merlin. L’amico di sempre, il consigliere silenzioso che l’aveva sempre accompagnato nelle sue avventure. L’unica certezza di questa e dell’altra vita.









Angolo della (pessima) autrice
Salve a tutti. Sì, sono proprio una brutta persona, a sparire così. Ma sono state settimane un po' strane. Prima l'università mi ha risucchiato nel vortice di studio matto e disperato di fine sessione. Poi, ahimé, ecco che scoppia il caso Coronavirus. Spero che stiate tutti bene, voi e i vostri cari. <3
Volente o nolente, ne approfitto dello stop per tornare a pubblicare. Il capitolo non è granché, a mio avviso: l'avevo progettato un po' diversamente, invece è uscita fuori questa schifezza. Di sicuro c'è una svolta. Arthur, spinto da quanto ha letto, ricorda tutto tutto. Ah, avete capito chi è TC? Omaggio a Eoin, il caro Gwaine. Sono dell'idea che uno col carattere di Arthur abbia bisogno nella sua vita di uno col carattere di Gwaine. Dunque ecco fatto u.u
Niente Merlin, in questo capitolo, se non attraverso i suoi scritti. Piccola ma doverosa precisazione: io non scrivo poesie né sonetti. Mi ci sono cimentata e l'effetto è un grande boh. Metricamente non sono sonetti. Per di più in inglese non sono una cima. Però ci ho provato. Volevo davvero dare un'idea dello strazio che Merlin ha vissuto durante i suoi anni di solitudine. Ma devo ammettere che è stato anche divertente rileggere, attraverso i pensieri di Arthur, la loro storia e come sarebbe dovuta andare. Sono fermamente convinta che il finale che abbiamo avuto non sia quanto ci meritavamo - o meglio, l'ultima puntata in sé è stata relativamente bella, è la quinta stagione (e forse anche la quarta) che non ha funzionato.
Ma bando alle ciance, chiudo queste note che tra un po' diventano più lunghe del capitolo. Spero di sentirvi e vi ringrazio, come sempre, per essere qui a leggere, seguire, preferire e recensire questa storia. Lo apprezzo tanto <3
Ah. Avete saputo che Colin è stato candidato agli Olivier Awards per All My Sons? E io l'ho pure visto in scena, sono troppo proud!
Ora vi lascio, ci sentiamo presto.
Un abbraccio
Amaryllis
  
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