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Autore: iamnotgoodwithnames    07/03/2020    1 recensioni
E l'alba si tinse del rosso sangue degli innocenti, le nuvole si bagnarono delle lacrime che la morte stessa versò, nel raccogliere a sé le anime dei centomila e più defunti, periti nel massacro che segnò la caduta di Yvor e l'ascesa dei Regni degli Uomini.
Miti nacquero da quel tragico evento, favole distorte che narravano di creature demoniache, esseri viventi dagli occhi di fiamme a cavallo di draghi imponenti, dagli sguardi di ghiaccio capaci di render stalattiti il sangue nelle vene e soffocare nella gelida morsa stringente il cuore.
Leggende presero il posto della storia, cantastorie resero melodia gioviale il genocidio di donne e bambini, sterminati dall'avidità e dall'illogica paura di uomini accecati dal terrore dell'incomprensibile, dalla fobia d'un ignoto cui non concedettero né spazio, né pietà.
Scarlatta innocenza macchiò le terre emerse, corpi lasciati a marcire, cibo per avvoltoi, crearono il sedimento cui s'ersero poi, imponenti e maestosi, Castelli e Regge.
Regni ed Imperi nacquero sui cadaveri dimenticati d'un orribile guerra, durata anni.
I corvi ne conservano ancora la memoria, ne gracchiano tristi lamenti, tormenti d'anime private della pace, e ne sussurrano i segreti a chi può ascoltare.
Genere: Angst, Avventura, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza
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Lo schiocco del ferro, sporco di linfa arborea, conficcatosi nella ruvida corteccia di quercia, risuona, eco di minaccia, nei timpani del fuggitivo; smarrito tra i boschi.

Il petto smosso da respiri affannati, l’agitazione anima il ventre e lo sguardo spaventato, cieli cristallini vibranti terrore, piovono paura che sgorga, come rivoli straripanti, lungo le guance arrossate dalla frenetica corsa. Le gambe si sorreggono a fatica, i muscoli brucino nello sforzo d’una fuga confusa, le braccia cercano appoggi ed appigli tra gli arbusti, nello sconfinato bosco pare impossibile essere rintracciabili eppure frecce dall’argentea punta sfrecciando e fendono l’aria, sfiorando le spalle del giovane, trovandolo sempre.

Cremisi stille scivolano dall’avambraccio sinistro, lasciando scia del passaggio, gocce di sangue a segnare il percorso d’un fuggitivo che non ha più alcuna speranza, sente già il respiro della morte alitargli al collo, sussurrargli lugubre presagio di tomba spoglia; il suo corpo smembrato dagli inseguitori, lasciato tra l’erba, a marcire lentamente.

Le urla degli inseguitori riecheggiano alle orecchie del ragazzo, risuonano tra gli alberi, rimbalzano tra le fronde, incastrandosi nei rami più alti, e paiono essere così intensi da ridestare il vento, agitandolo sino a gonfiarlo e renderlo sferzante come lame affilate.

Chiude gli occhi il giovane smarrito, la fine è vicina, la morte l’attende, la vedrà quando riaprirà le palpebre e, forse, è già qui, dinnanzi a sé, forse l’aria che gli carezza il volto è il respiro della Nera Dama cui nessuno può sfuggire.

Gli sembra quasi di poterne udire la voce, dirgli che è giunto il momento, inutile pregare, altrettanto inutile aggrapparsi ciecamente ad un ultimo spiraglio di speranza, l’ora è arrivata; la morte lo reclama.

Strano, credeva fosse donna la Nera Dama che tutte le vite raccoglie, eppure è d’uomo la voce che ode.

Apre gli occhi, il fuggiasco raggiunto, e lo vede il volto del proprio aguzzino.

Ha iridi azzurre, simili alle proprie, ma più scure, somiglianti ad un cielo in procinto di tingersi a notte, e labbra screpolate, come le sue, deve aver gridato troppo, deve esserglisi seccata la gola e la bocca inaridita.

Fili corvini gli scivolano, scompigliati, alla rosea fronte, le nere punte sfiorano la basa del collo, pelle liscia e nessuna traccia di sudore, non come il viso del giovane fuggitivo, madido e luccicante puro terrore.

Gli affilati lineamenti, di quel volto sin troppo vicino al proprio, paiono eguagliare la punta argentea delle frecce che, poco prima, lo inseguivano e gli zigomi taglienti sembrano poter ferire, al solo esser sfiorati, come la lama del pugnale che gli viene sventolato, a millimetri dal naso; ne sente l’odore di sangue ancora impresso, sebbene rimosso da chissà quanto tempo.

Ed è pronto ad abbracciare il proprio triste destino, ad accogliere la morte, pregando solamente di non soffrire troppo, inspira ed espira, chiudendo per l’ultima volta gli occhi e lo sente, il suono di rumori inusuali in una condanna a morte; il suono di lame che si scontrano ed incrociano, che si colpiscono vicendevolmente, come in un duello feroce.

« Scappa! »

Grida, quella stessa voce maschile che, poco prima, gli pareva preannunciargli, con assoluta certezza, l’imminente morte inevitabile.

« Alzati! Sbrigati! Scappa! »

Ripete, una cantilena agitata, sovrastando il rimbombare dello scontro tra lame.

Le iridi cerulee del fuggiasco tremolano confuse, cercando di seguire i movimenti di quel cavaliere che, poco prima, ne era certo, stava per ucciderlo o, quanto meno, è quel che avrebbe dovuto fare; ammazzarlo, lì, in quel bosco, era il suo incarico ed ora, invece, pare lottare per impedirlo.

Sbatte frenetico le palpebre, l’angoscia gli batte nel petto, il cuore segue il ritmo della paura, e l’agitazione si manifesta nel respiro irregolare.

Si muove a scatti, come una statua liberata dall’incantesimo pietrificante, come se avesse dimenticato i giusti movimenti da compiere inciampa su se stesso, crollando sulle proprie gambe, rialzandosi nella frenesia di parole che gli giungono ancora, dalla distanza, come imposizioni di ordini che non ammettono repliche.

Corre e corre, sino a non udire più alcun eco di spade incrociarsi, né la voce del miracoloso, quanto inspiegabile, salvatore.

Corre e corre, fino a sentire i polmoni infiammarsi, nella spasmodica ricerca di respiro.

Cade, poi, accasciandosi al verde prato solamente quando ai timpani non giunge più altro rumore se non il dolce canto della natura, la melodia del bosco che ne culla il fisiologico svenimento.

Una voce atona, priva d’emozione alcuna, è l’ultima cosa che odono le orecchie; ancora stordite dai suoni d’una battaglia incompresa ed una fuga cui non credeva più.

 

FORESTA DI NINFHAR, TERRE DEL NORD NEL REGNO DI UBRESTHIA

« Merda! »
« Già, merda »

È l’unica parola che riesce ad articolare, ripetendola come un pappagallo stanco, sfinito da ore di volo controvento.

Kairos fissa le spoglie pareti del modesto rifugio, una baracca di rocce e paglia, sorretta da fango indurito e qualche trave in legno, il genere di dimora in cui, come minimo, ci si aspetterebbe di trovare contadini del reame o, al massimo, commercianti caduti in disgrazia e non di certo un cavaliere, come Keosthon, in splendente armatura metallica, laccata d’un rosso rubino che rende quasi impossibile identificare le innumerevoli macchie di sangue sparse sopra.

Le ingombranti spade pendono, fastidiose, ai fianchi appesantiti dalla cotta protettiva, una rete metallica che fa capolino dal rigonfio busto in duro ferro massiccio, il peso che l’armatura riversa alle spalle del cavaliere è accentuato ancor di più dalla lancia appuntita, dal manico rimpicciolito, sfiorante il centro schiena, stretta nel fodero tra le scapole, ed i due pugnali, agganciati da fibbie in grezzo cuoio, che battono contro i polpacci coperti dagli alti stivali; del medesimo materiale.

Spogliarsi di quei pesanti indumenti è una lenta procedura che Keosthon esegue con meticolosa cura, riponendo attentamente ed accuratamente ogni singolo componente allo sbilenco tavolo legnoso, schiacciato conto la parete che fronteggia l’ingresso della dimora.

« Dobbiamo andarcene! »

Sobbalza, deglutendo l’angoscia, Kairos, osservandolo svestirsi dell’armatura e restare in abito informale.

I rossi riccioli ondeggiano ad ogni passo agitato del giovane elfo, alcune ciocche gli ricadono agli occhi, adombrandone il verde smeraldino che s’agita, come foglie vittime d’un vento impetuoso, al ritmo di respiri nervosi.

È satura di timori e paranoia l’aria nella striminzita casa, di mattoni e fango, manca l’ossigeno nei polmoni di Keosthon, il fisico ancora scosso dalla fatica della corsa, i muscoli tesi dall’impeto d’uno scontro che ha lasciato segni cremisi all’armatura ed alle nocche arrossate.

« Lo so – inspira, tentando di ritrovare calma lucidità di ragionamento – ma abbiamo bisogno di- »

« No! No, no, no! – ripete, marcando quelle poche lettere, in un crescendo di contrarietà – non ci serve, non è affidabile! »

Il cavaliere inspira, al plateale rifiuto di Kairos, stringendo indice e pollice all’estremità superiore del setto nasale, serrando gli occhi sino a ridurli a rugose fessure.

I lisci filamenti corvini gli ricadono, informi e scompigliati, ad incorniciarne gli spigolosi zigomi imporporatesi di sudore ed esigue stille di sangue, strizza le palpebre ed espira rumorosamente, bisbigliando parole che suonano come pigre critiche ad una quotidianità che, nell’attuale situazione, è quanto mai inopportuna.

« Ci serve, Kai, e lo sai! Noi due, da soli, non bastiamo! Abbiamo bisogno di lui, se vogliamo ritrovarlo! »

Sottolinea, la voce trattiene a stento la paura e la rabbia dell’impossibilità di salvezza in altro modo. L’elfo scuote il capo, ancora palesemente infastidito da quel nome, sottinteso, che non vuole né udire, né pronunciare.

Può capirlo, Keosthon, quell’atteggiamento ostile, quel testardo scetticismo nei confronti d’un uomo che, infondo, si dimostrò già inaffidabile, ma sospetta vi sia anche altro, qualcosa d’inespresso, forse mai confidato, nascosto nel fondo di quegli occhi smeraldini, tinteggiatesi d’astio per quell’innominabile; qualcosa d’incomprensibile, eccessivamente intimo e, probabilmente, persino troppo passato per esser svelato ora.

Kairos dev’essersi accorto dei tentativi del cavaliere di leggergli l’inespresso nascosto negli occhi, dev’esser per questo che si volge fulmineo, ignorando lo sguardo altrui fisso sulle minute scapole, irrigiditesi nella rabbia di ricordi che, come cascate impetuose, sgorgano nella mente rischiando di affogarlo.

Deve contrastare l’alta marea, per potersi rimpossessare dell’ossigeno e della lucidità necessaria per ponderare la delicata situazione. Un lato di sé, neppure troppo silenzioso, incolpa l’impulsività di Keosthon, per la difficile situazione in cui sono, d’un tratto, precipitati.

Poteva continuare a fingere, recitare una farsa che aveva funzionato per giorni, mesi ed anni; poteva farlo, solamente per concedergli quel poco tempo che gli restava, prima di trovare un nuovo rifugio sicuro ed una nuova strategia.

« Cazzo! »

Espira, stanco e rassegnato, tornando a volgere saette smeraldine, pregne di aspro criticismo e palese contrarietà, al cavaliere che deglutisce un conato di colpevolezza, drizzando la schiena a sottolineare quanto giusto sia stato il suo procedere.

« Bene, ma io non voglio incontrarlo! »

Sottolinea, sbuffando acidità.

Keosthon si limita ad espirare un cenno contrariato, aggiustandosi la casacca bluastra, in seta leggera, che ricade malconcia e sgualcita sino a sfiorare le cosce, fasciate in pantaloni di cuoio scuro, finemente trattati, opera d’alta sartoria.

« Non ti lascio andartene da solo, in giro per i confini di Ubresthia – sentenzia, poi, armeggiando con la bisaccia di paglia, poggiata ad un chiodo affisso alla parete alla sua destra – è troppo pericoloso »

Kairos grugnisce contrarietà, per l’ennesima volta, porgendogli una fiaschetta in argento, pesante d’acqua e, forse, qualche strano intruglio d’erbe medicinali, dai poteri curativi e preventivi.

« Kai, per favore, ragiona! »

Supplica il cavaliere, sistemando i viveri, indispensabili per il viaggio, all’interno della bisaccia sformata, già sufficientemente usurata dal tempo da sembrare incapace di sorreggere il peso d’altro cibo e beveraggio. Kairos non controbatte, questa volta, ma non accoglie neppure serenamente la proposta. Storce le labbra in una smorfia disgustata, come se il semplice pensiero di avvicinarsi alla dimora di quell’uomo innominabile gli susciti un profondo fastidio, cercando nella tracolla in lino nocciola una foglia di menta, addentandola poi con una tale violenza da spezzarla tra indice e pollice.
Sa benissimo, glielo si legge nitidamente in quelle iridi smeraldine, quanto pericoloso possa essere restare lì, nella casetta di mattoni e fango, nel mezzo del niente, circondati da bosco e nulla più, impossibilitati dal chiedere o ricevere aiuto nella sciagurata sorte di dover fronteggiare cavalieri, minacciosamente intenzionati ad ucciderlo o, peggio, imprigionarlo.

E sa, altrettanto bene, quanto inesperto sia, esile fisico slanciato, nella difficoltosa arte del combattimento, ma per una mente orgogliosa è difficile ammettere che la ragione spetta ad altri, nel nervoso masticare la foglia di menta, Kairos, palesa tutta l’agitazione che gli vortica nei pensieri; sospirando poi rassegnazione, in un annuire appena accennato.

« Dobbiamo partire ora – stabilisce il cavaliere, riafferrano armi ed armatura depositate al tavolo – prima lasciamo questo posto e meglio è »

L’altro si limita ad un passivo annuire, deglutendo la foglia di menta, passandosi la lingua ad umettarsi le sottili labbra, inondandole della freschezza donata al respiro dall’erba ingurgitata.

Un ultimo sguardo alla dimora che, per giorni, gli ha offerto riparo e rifugio sicuro e a quel legnoso ripiano sbilenco, sgombro degli indumenti del cavaliere, ora tornati in suo possesso, prima di avvolgersi nello spesso mantello, in lana tinteggiata di nocciola scuro, quasi a richiamare il colore naturale degli arbusti, coprendosi il capo, a nascondere i rossi riccioli, e la tunica di seta verde che gli ricade, finemente impreziosita da ricami giallastri, sino a sfiorarne le ginocchia, fasciate in una calzamaglia spessa, d’un denso marrone che rende quasi impossibile distinguere gli stivaletti in cuoio, manualmente lavorati da artigiani esperti; le sottili dita s’affrettano ad appuntare, con spille ferrose ed arrugginite, i lembi del mantello nascondendo interamente il vestiario, eccessivamente ricco per un semplice viandante.

« Andiamo? »

Espira il cavaliere, ignorando il proprio mantello, rosso rubino, gettato malamente al suolo, ed il contorno di spille dorate, raffiguranti la piuma d’un pavone, impreziosita da gemme zaffiro e acquamarina, che vi giacciono affianco, portando con se solamente la cotta in maglia, i due pugnali ed una singola spada, dal manico privo d’effigi e stemmi, e l’armatura metallica, grossolanamente ripulita dal sangue.

« Sì...andiamo »

Ripete l’altro, inspirando l’odore del fieno che aleggia nella dimora, per l’ultima volta, prima di volgergli le spalle ed uscire, senza neppure curarsi di chiudere la porta, da quello che per mesi è stato un rifugio sicuro e che ora è divenuto solamente l’ennesimo edificio da abbandonare.

 

CASTELLO DI UBRESTHIA, CITTA' CENTRALE AL REGNO DI UBRESTHIA


L’ultima fanteria, al seguito d’altri venti cavalieri, è partita dai portici in massiccio legno di quercia meno di mezz'ora fa e già il primo guerriero del reame fa ritorno, col fiato corto ed il sangue ad annebbiargli la vista, il volto ferito da ustioni causate da gelido ghiaccio che ne congela ancora, seppur parzialmente, le scure ciglia e le folte sopracciglia.

Tra le mani, tremanti per un freddo passato, ma penetratogli così affondo nelle vene da averne reso il sangue stalattiti, stringe quel che resta dell’armatura d’un cavaliere disertore, un mantello rosso, stropicciato e strappato ai bordi inferiori, e le tre spille con l’effige del reame; i rimasugli di un traditore, sfuggito alla giustizia.
Ancora per poco, ripete l’ira nella mente di Velcles, eretto ai piedi dei bastioni in bianco marmo, rifinito da sculture dorate, circondanti il porticato dell’imponente castello sfarzoso, brillante sotto la luce del sole mattutino.
Le iridi nocciola del cavaliere si soffermano a contare ogni singola pietra preziosa, ogni rubino incastonato nelle pietre, che riluce agli splendenti raggi, risaltando ancor di più l’immensa ricchezza dei regnanti. Lo sguardo si solleva e vaga tra i finestroni, in vetro colorato, pezzi di arcobaleno ornati dalle gesta storiche dei precedenti Re, sino a soffermarsi su quell’unico balcone rotondeggiante, appena visibile dalla prospettiva di Velcles.
Un sospiro distratto gli scivola dalle labbra screpolate, le dita della mano destra si serrano attorno all’elsa, impreziosita da rubini, della spada, che pende ancorata alla cintola in cuoio, stretta alla base del busto, ed un fremito d’orgoglio gli fa drizzare la schiena e sollevare il mento, all’eco dei propri pensieri che risuonano, come folla acclamante, la fantasia d’un cavaliere che brama la fama tra le genti ed il prestigio d’una solenne cerimonia regale; a sigillare l’onorificenza ad eroe del reame.

Sogna già, carezzando l’impugnatura dell’arma, la malizia negli occhi turchesi della giovane principessa ed un sorriso, un implicito invito, ad incitarlo a porgergli la guantata mano, celebrando l’inizio d’un radioso futuro, d’una promessa di matrimonio, in un ballo a festeggiare la sicurezza del reame; ottenuta per suo merito, Velcles Sualocin l’eroe di Ubresthia.

Il cavaliere sopravvissuto ne ridesta l’attenzione sopraggiungendo, ancora stringente i resti del disertore, col respiro affaticato, chinando poi il capo in segno di reverenza, socchiudendo gli occhi in un lieve segno di vergogna, allungando poi il braccio, ferito da colpi di lama, a porgere gli indizi del palese tradimento.

« Chiedo venia, Lord Sualocin, ma è riuscito a fuggire »

Questo, inspira pazientemente Velcles, l’aveva già intuito. L’elmetto metallico, che ne schiaccia la liscia chioma castana, appiattendola al punto da farla sembrare più lunga di quel che in verità non sia, riflette i raggi del sole, infastidendo lo sguardo del cavaliere che strizza gli occhi, trattenendosi dal commentare; la paura dell’autorità gli blocca persino il respiro.

« Voglio il nome! »

Tuona, perentorio, e l’altro trema visibilmente, temendo già la condanna alla prigione, accusato d’incompetenza. La voce è un soffio impaurito, flebile quanto il vento che soffia tra gli alberi nell’immenso giardino circostante.

« Keosthon Damiso, Lord Sualocin »

« Ed era solo? »

Incalza, scettico, scrutando quelle ferite al volto, sin troppo evidenti, e palesemente estranee ad un semplice scontro tra lame di spade affilate.

« Sì, Lord, non v’erano altri cavalieri al suo seguito »

« Ne sei certo? »

« Sì, Lord Sualocin »

« E allora – espira, scegliendo di non curarsi del nome che, chiaramente, non ricorda – come sei riuscito a salvarti, se tutti gli altri sono morti per mano di un solo uomo? Non pare anche a te un po' strano »

L’interpellato deglutisce l’orrore della forca che pare esser sempre più vicina, forse sarebbe stato meglio perire sotto la spada d’un traditore che essere accusato d’un falso peccato; pare quasi aver dimenticato il gelo che ne ha scalfito il volto, il timore lo ha reso smemorato.

« Gli Dei mi hanno salvato o forse mi ha risparmiato – ingolla paura d’imminente condanna, chinando lo sguardo – credo volesse…volesse lasciarvi un messaggio, Lord Sualocin »

« Tu credi!? – sillaba, trattenendo a stento un risolino nervoso, le nocche sbiancano strette attorno all’impugnatura della spada – Vattene, va dai curatori, fatti esaminare le ferite, voglio sapere come può averti lasciato un tale segno »

Il cavaliere sbatte le palpebre, incredulo dinnanzi all’assoluzione, l’accenno d’un sorriso grato si dipinge al volto, bruscamente interrotto da un sobbalzo nuovamente terrorizzato al gridare, privo di gentilezza e magnanimità, del Lord.

« Sparisci! »

In un battito di ciglia esegue l’ordine, dileguandosi frettolosamente, risultando persino goffo, inciampando sulla propria spada, penzolante al fianco.

Velcles neppure lo guarda, soffia ira come un toro in procinto d’inseguire una minaccia, sfilandosi bruscamente l’elmetto, gettandolo al suolo con una tale violenza da graffiarne il lato sinistro.

Come può un solo uomo aver ucciso così tanti cavalieri, in una esigua manciata d’ore?
Come può, quel cavaliere soltanto, aver inferto ferite dall’aspetto di lame ghiacciate, graffianti la nuda pelle?
Come può, tra i tanti cavalieri, esser stato proprio Keosthon, che meno di qualche giorno prima aveva persino nominato, di proprio pugno, Lord per meriti in battaglia?

È un suo errore, se lo ripete, come una vergogna imperdonabile.

I denti stridono, mordendo pensieri di colpevolezza e dubbi. Possibile che Keosthon abbia celato, a tutti loro, preziose informazioni sulle sue reali capacità?

Nessuno deve sapere, si ribadisce.

Nessuno può scoprirlo, si annota.

Se qualcun altro verrà a conoscenza dell’identità del traditore, se i Protettori del Reame dovessero venire a conoscenza del nome del colpevole per la fuga d’un prezioso prigioniero, la possibilità d’ambire alla mano della principessa di Ubresthia sfumerà e svanirà poi definitivamente, non appena scopriranno tutte le informazioni, i segreti persino, di cui il disertore è in possesso.

« Dekeon! – urla, le nocciola iridi pervase da ira – Dekeon! »

Volge il capo, cercandolo tra le guardi cingenti il perimetro esterno del castello, avanzando di qualche passo verso destra.

Un cavaliere, impeccabilmente composto ed ordinato, dall’armatura splendente ed il rosso mantello minuziosamente lisciato, arresta la corsa, fermandosi dinnanzi al Lord che l’ha chiamato.

La schiena dritta ed occhi neri, come il buio della notte, tinteggiati di fiera reverenza. China il capo nell’educato rispetto che si confà ad un semplice guerriero, portandosi il pugno al petto, colpendo con forza la corazza metallica, in segno di assoluta disponibilità a qualsiasi ordine gli verrà imposto.

« Quando i curatori avranno finito col sopravvisuto, avvelenalo » 

« Sarà fatto, Lord Sualocin »

« Bene – espira ed inspira, ponderando la situazione – e, Dekeon, voglio sapere tutto quello che hanno trovato sul suo corpo, ma nessuno altro dovrà saperlo, chiaro? »

« Certamente, ai suoi ordini, Lord Sualocin »

Il totale ossequio è evidente nella voce calma, incolore, del cavaliere. Gli avambracci ricadono, rigidamente, ai fianchi e le scure dita della mano sinistra si poggiano, leggere, all’elsa della spada.

S’inchina in un ulteriore cenno di obbedienza, volgendo poi le larghe spalle, incamminandosi con passo svelto eppure statuario, come fosse composto di dura argilla, plasmata e modellata al solo scopo di eseguire ordini, senza opporvisi mai.

Una dote che, se soltanto Velcles non fosse stato accecato dai propri sogni di gloria, avrebbe dovuto premiare in precedenza, anziché lasciare che fosse la cecità d’una fantasia di fama a spingerlo a scegliere Keosthon come suo più fidato cavaliere; nell’illusione che così avrebbe raggiunto l’attenzione della principessa con maggior rapidità.
Inspira, sputando insulti bisbigliati a quel nome che s’è macchiato della peggiore delle onte, avanzando a passo scattante, nervoso come mai prima d’ora, ritirandosi nelle stanze dell’imponente castello, seguendo la strada che conduce ai sotterranei, bisognoso d’un rilassante bagno termale.

 

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Grazie a chiunque abbia letto, spero che qualcuno avrà piacere ad offrirmi critche costruttive.
Si tratta del mio primo tentativo di uscire dal guscio e scrivere una storia tutta mia, pur avendone a centinaia salvate in varie castelle, non avevo mai trovato il coraggio di postarne nessuna.
Spero che potrà interessare qualcuno, mi rendo conto che non è un granché e l'originalità lascia alquanto a desiderare, ma esercitandosi si migliora, no? O per lo meno, spero!
Grazie ancora, alla prossima, se vorrette.
PS : Mi scuso per la mappa poco leggibile, ma ho avuto qualche piccolo problema col sito.

 

   
 
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