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Autore: _Lightning_    08/03/2020    2 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Normalità
 
“Friends will be friends
When you're through with life
And all hope is lost
Hold out your hand
'Cause friends will be friends
Right till the end”

 
[Friends Will Be Friends – Queen]



 
Marzo 2019, Complesso dei Vendicatori

Riconosce i passi di Rhodey ancor prima di vederlo, grazie al familiare sibilo dei cuscinetti a sfera prodotto dai suoi tutori. Alza indolente la testa dal proprio tablet, riscuotendosi nel vedere l’amico avanzare verso di lui in un modo che potrebbe solo definire… minaccioso. Si raddrizza un poco di scatto, ancora semi-sdraiato sul divano con un braccio ripiegato attorno al cuscino dietro la nuca; lo fissa con allarme negli occhi, perlustrando al contempo i dintorni in cerca di una rapida via di fuga, in un riflesso istintivo di preda messa all’angolo.

«Rhodey?» tenta, conciliante e ripensando ad ogni errore passato, presente e futuro che ha commesso o commetterà. «Che cosa…»

«Forza, in piedi,» lo esorta lui sbrigativo, senza convenevoli e con la sua spiccata marzialità che prende il comando dei suoi gesti.

«Veramente starei…» Tony fa per accennare allo schermo sul quale campeggia il progetto di reboot di FRIDAY, ma Rhodey fa un gesto imperioso con le mani che taglia a metà l’aria e le sue proteste.

«Poltrendo, lo vedo benissimo. Ti alzi da solo o devo prenderti di peso?»

Tony mostra le mani in segno di resa, poggia il tablet sul tavolinetto e si mette seduto con gesti volutamente rallentati, ignorando il suo fare impaziente e il fatto che una nube temporalesca sembra aver appena fatto il proprio ingresso nella stanza. Ha appena il tempo di alzarsi che Rhodey lo sprona a passo sostenuto verso la porta d’ingresso, cacciandogli una giacca in mano lungo il tragitto e agguantando la propria mentre presta attenzione a tagliargli sempre la ritirata. Non gli dà nemmeno modo di cambiarsi e rendersi un po' più presentabile, obbligandolo a uscire con una camicia a quadri sformata addosso e un paio di jeans da casa. Tony volge gli occhi al cielo, riluttante, ma l’altro lo sospinge ben poco delicatamente oltre la soglia e si affretta così a infilarsi la giacca contro la pioggerellina primaverile che lo accoglie all’esterno. Trenta secondi dopo si ritrova seduto come recalcitrante passeggero nella propria Audi, con Rhodey al volante – quando gli ha preso, anzi, sottratto le chiavi? Sente lo scatto delle serrature risuonare nell’abitacolo e inarca un sopracciglio, scuotendosi la pioggia dai capelli.

«Questo è…» esita, fa un gesto ad abbracciare l’interezza dell’auto, «… un rapimento, ne sei consapevole?»

«Certo, e questa è la spasso-mobile,» constata Rhodey, mettendo in moto senza battere ciglio.

«L’ho provata una volta: mezza stella su cinque, non la consiglio,» commenta piattamente Tony, trattenendo però un sorrisetto all’impassibilità dell’amico che inizia ormai a rasentare il comico. «Posso almeno sapere dove stiamo andando?»

«No.»

Tony si rassegna al silenzio, sprofonda nel sedile e spalma la fronte sul finestrino picchiettato dalla pioggia.

 
§
 
 
Rhodey gli piazza il vassoio davanti con la stessa delicatezza che userebbe un secondino nel propinare il rancio a un ergastolano. Tony sobbalza senza volerlo, per poi mettere a segno un’occhiataccia mentre l’amico gli scivola di fronte sulla panca imbottita.

Il Burger King è quasi vuoto, ma sente comunque troppi sguardi appuntati addosso, impigliati nella nuca. Si calca meglio gli occhiali da sole rossi sul naso, ringraziando di averne trovato un vecchio paio nella tasca della giacca, e incassa la testa nelle spalle, mezzo chinato sul tavolo a farsi da scudo. Rhodey sembra invece del tutto a suo agio e addenta beato come un bambino il suo whopper; Tony apre con cautela la propria scatoletta da asporto, ispezionandone il contenuto con aria critica: doppio cheeseburger, niente ketchup, niente cetriolini. Bravo Rhodes: sa ancora come comprarlo.

Lascia però il panino dov’è, limitandosi a bere un sorso di coca-cola fin troppo annacquata mentre scruta inquisitore il suo migliore amico nel vano tentativo di leggerlo, in qualche modo; nella speranza di aver assorbito per osmosi un briciolo dell’abilità spionistica di Natasha. Il risultato che ottiene è una tabula rasa non molto promettente che gli strappa uno scatto snervato del piede contro il sostegno del tavolo.

«L’intento di tutto questo teatrino sarebbe…?» proferisce infine dopo un paio di minuti, durante i quali Rhodey non si è minimamente preoccupato di avviare una conversazione, se non una muta e piuttosto vorace col proprio panino.

«Cercare di farti vivere come una persona normale,» replica dopo aver deglutito con calma, sempre con quella flemma imperturbabile. «Se non lo mangi tu, lo mangio io, anche se toglierci i cetriolini è un sacrilegio,» lo avverte poi, additando il suo pasto ancora intatto.

Tony sbuffa appena un sorriso, ma contrae nervoso le dita a quella mancata risposta. Si chiede cosa sia successo di così catastrofico per spingere Rhodey ad ammansirlo a suon di cheeseburgers. L’ultima volta che l’ha fatto, lui era appena sopravvissuto a New York. E ha avuto il primo attacco di panico. Il ricordo gli invia una scia di gelo lungo la spina dorsale.

«Rhod, sono il primo a cui piace scherzare e girare intorno alle cose,» ritenta, corrucciato. «Ma qui stai facendo concorrenza a John Locke in Lost, non credi?» [1]

«In realtà mi sembra di essere piuttosto diretto,» lo contraddice lui, pulendosi col tovagliolo e suscitando una sua eloquente alzata d’occhi al cielo.

Si reclina contro lo schienale e spilucca un paio di patatine fritte, col suo appetito traballante che gli chiude lo stomaco con nodi di nervosismo. Non dovrebbe essere nervoso. Di cosa dovrebbe mai avere paura? Il peggio è già successo, dopotutto; si porta appresso quel “peggio” ogni giorno ingabbiato dietro le costole, ed emerge ogni notte accucciandosi sul suo sterno e nutrendosi d’incubi – e provocandoli, in un circolo vizioso e autotrofico.

Scuote il capo tra sé, scansando un poco il vassoio e lanciando un’occhiata laterale al di fuori della vetrata. Il parcheggio esterno del fast-food è grigio, deserto e invaso di pozzanghere tamburellate dalla pioggia fattasi più intensa. Scorge un paio d’ombrelli in movimento sul marciapiede, in una fugace chiazza di colore che viene lavata via non appena escono dalla sua visuale. Il mondo sembra ancora più spento di quanto non sia, visto così. D’un tratto, Rhodey lascia il proprio panino a metà, poggiandosi a sua volta contro lo schienale a braccia incrociate in una pantomima d’interrogatorio. Tony sente le antenne del proprio sesto senso drizzarsi con una scarica di tensione elettrica.

«Quand’è stata l’ultima volta che sei uscito?»

Tony batte le palpebre, come se farlo potesse dare uno scossone alle parole che ha appena pronunciato e mutarle. Non succede, così si poggia lateralmente su un avambraccio ostentando disinvoltura: non gli piace non riuscire a prevedere le traiettorie, che siano matematiche o reali.

«Ieri mattina, per correre,» risponde poi con ovvietà. «Come ogni mattina, in realtà… dovresti averlo notato, visto che rischio sempre di rimetterci la milza.»

Vede un sospiro esasperato morire sulla bocca di Rhodey, mutato in un lento, calmo inspirare. A volte ha l’impressione che prenda lezioni di yoga a intervalli regolari solo per non mettergli le mani al collo.

«Intendo uscire, Tony,» scandisce infine, sfregandosi uno zigomo col palmo. «Intendo: l’ultima volta che hai fatto qualcosa al di fuori del Complesso.»

«E cosa, di grazia? Organizzare festini e tornare a vent’anni fa? Non mi sembra il caso, visto che tra poco guadagno la medaglietta dei due mesi,» osserva caustico, tirandosi il colletto della camicia a sottolineare quel fatto.

«Esiste una via di mezzo,» ribatte Rhodey, irremovibile. «Un compromesso. Esiste non rinchiuderti tra quattro mura a vegetare, esiste non evitare qualunque viaggio in città come la peste, esiste non evitare noi, esiste questo, adesso,» sbotta, prendendo il bordo del suo vassoio e sbattendolo piano sul tavolo in un rumore di plastica contro plastica.

A quel punto Tony si toglie gli occhiali, poggiandoli sul piano con un gesto misurato nonostante il fremito che gli attraversa il braccio sinistro e le proprie sopracciglia che si corrugano di riflesso, senza che lui possa fare molto per evitarlo. Scocca occhiate laterali attorno a sé, ai colori vivaci del fast-food specchiati nella vetrata ingrigita da nuvole e pioggia. La scintilla di realizzazione che gli sfrigola nel cervello scotta, fa male.

«Fammi capire bene,» dice poi, col tono e il volume della propria voce che si inabissano, acquisendo sfumature tetre. «Tu mi hai trascinato fin qui per farmi una ramanzina da madre apprensiva sul modo in cui impegno il mio tempo libero? Il prossimo passo qual è, organizzarmi le uscite con gli amici e iscrivermi al corso di atletica dell’oratorio?»

«Ti ho trascinato qui per fare quello che stiamo facendo ora,» nega lui, indurendo la voce. «Distrarci. Parlare. Non lo facevi spesso prima, e adesso sei… sei a tenuta stagna, Tony, io non–»

«E pensi che un cheeseburger e una scampagnata sotto la pioggia siano un buon mezzo per “scassinarmi”?» lo interrompe lui, e inizia a pulsargli a sbalzi e singhiozzi il cuore mentre s’infervora. «Cristo, Rhodes! Non tento più di affogarmi nell’alcol e non sono più in stato catatonico, ma non puoi pretendere che mi stampi un sorriso in faccia, mi metta in ghingheri e vada rimorchiare come a ventun anni per “elaborare il lutto”!» sbotta in un sibilo, con una bolla di dolore che gli scoppia in gola prima di raggiungere le labbra.

Rhodey si irrigidisce, e Tony coglie un lampo ferito nei suoi occhi; lo vede chinare appena il capo, sfuggendo il suo sguardo e negando quasi tra sé.

«Non pretendo questo,» riprende, sotto la pressione del suo sguardo alterato. «Vorrei solo, egoisticamente… rivederti,» formula poi, gesticolando appena in un modo troppo vago per essergli comprensibile. «Rivedere te, trovarti in laboratorio mentre traffichi e armeggi e crei qualcosa… non impegnato a distruggerti i pugni su un ring, a rintronarti con la burocrazia che odi o a vegetare su un divano leggendo roba che non ti è mai interessata.»

Tony deglutisce a vuoto e stringe le mani sul tavolo, guardandolo fisso e sentendosi svuotato, come se quello scatto avesse sublimato la sua furia in u neccesso di calore. Fissa il suo migliore amico e cerca di vederlo, oltre a quella che ha asetticamente etichettato come una manipolazione per costringerlo a parlare, oltre all’istinto di rifuggire ogni tipo di attenzione o approccio che lo costringa a schiudere spiragli vulnerabili. E scorge una mano tesa verso di lui, come sempre, con quei modi un po’ troppo diretti e quasi coercitivi che l’hanno però rimesso in piedi così tante volte da averne perso il conto.

Di nuovo, come mesi fa, vorrebbe spiegargli tutto in termini scientifici, elaborare una formula o un teorema che si adatti a lui e converta in matrici numeriche quelle che sono solo emozioni ineffabili. Ma se all’inerzia trovava un qualche riscontro reale e fisico, ora non sa come dare spiegazione all’improvviso aumento del peso specifico di quella che, crede, potrebbe essere la sua anima. Il suo essere; il suo nucleo, che si addensa e gli si pianta di traverso in mezzo al petto e nello stomaco e nei talloni rendendo massacrante qualunque movimento. Una zavorra che scaturisce da lui stesso, da dentro, e di cui non sa come liberarsi; che patina il vuoto ma non lo riempie del tutto. Lo blocca, gli paralizza mani e cervello e incatena il genio. Gli verrebbe da gridare per la frustrazione, anche se gli uscirebbe solo un rantolo asfittico e privo di voce. Sente nel retro dei propri pensieri una presa gentile che cerca di trattenerlo per i capelli e che associa istintivamente a Pepper, con un sobbalzo del cuore, e la asseconda adagiandosi nella sua mano gentile, calmante. [2]

Butta fuori un respiro, e con esso gli ultimi scampoli sfilacciati di rabbia; giunge i palmi davanti a sé e si pianta i pollici sulla fronte, a premersi le sopracciglia in un riflesso di esausto nervosismo. Trattiene l’impulso inderogabile di rimettersi gli occhiali e tornare nella loro penombra rossastra.

«Lo so che non è quello che vorresti vedermi fare. Lo so che sono, forse, al 15% delle mie potenzialità. Lo so che devo sembrare patetico e lo so che sto rinnegando l’intera filosofia del “correre prima di camminare”, e stronzate simili,» si costringe ad ammettere infine, in un mormorio che quasi si perde nel chiacchiericcio del locale. «Ma è tutto quello che riesco a fare.»

Elimina la barriera delle proprie mani, trovando Rhodey che lo scruta attento. Un riflesso invecchiato, stinto, ma ancora nitido, del ragazzone irruento e impacciato che all’alba di quel gelido dicembre si è presentato sulla porta di casa sua con la divisa ancora addosso e un sacchetto di cheeseburger per fargli capire che il mondo non era finito. [3] Adesso è finito… e al tempo stesso non lo è. Non può essere del tutto finito, se il suo migliore amico è ancora lì davanti a lui, col solo intento di strappargli di testa i pensieri velenosi che gli infettano i neuroni.

«E questo?» chiede allora Rhodey, con un moto cauto delle braccia a indicare l’ambiente circostante. «Questo riesci a farlo?»

Non c’è ironia nella sua voce, né scherno. È una semplice domanda che sollecita una risposta sincera alla quale deve seriamente pensare. Un “come stai?” camuffato tra le righe e al quale per una volta non vuole sfuggire, nemmeno dentro di sé. Come sta? Beh, ha una leggera fame. Non ha dolori fantasmi riconducibili a vecchie battaglie. Il panno scuro che gli occlude la testa è appena scostato e lascia trapelare il riverbero di una giornata uggiosa, ma tranquilla. Normale.

Quel senso di normalità che si trova sempre a inseguire e che non ha mai davvero fatto parte della propria vita, nemmeno in tempi più sereni privi d’orrore e cenere. Di quella normalità, ne trova uno spicchio infinitesimale lì, in uno squallido fast-food di provincia dove l’odore di fritto regna sovrano, il pavimento in linoleum si scolla dal fondo scricchiolando ad ogni passaggio di piedi e il condizionatore mal tarato gli soffia aria calda e stantia sul collo. Lo avvolge rassicurante col picchiettio della pioggia contro il vetro.

«Annegare i dispiaceri nella Coca-Cola annacquata e nel colesterolo mi sembra un passatempo abbastanza sopportabile,» scrolla infine le spalle, afferrando il suo cheeseburger e addentandolo con un gesto svogliato che cela un pizzico di ritrovata golosità. «Freddo fa schifo,» proferisce a mo’ di giustificazione, inclinando appena un angolo della bocca piena verso l’alto.

Rhodey scuote la testa di rimando, ma un sorriso appena intuibile albeggia di rimando sul suo volto mentre lo imita, cogliendo il segnale.

«Non sto mica con le mani in mano, comunque. Quel 15% di carica residua fa faville ed è targato Stark,» riprende a parlare Tony, con fare leggero che un po’ sente proprio e un po’ no.

Un po’ in bilico, come sempre, tra l’accettazione di poter respirare e concedersi di farlo a pieni polmoni, e il rubare invece all’aria una molecola d’ossigeno alla volta, timoroso di consumarla e sottrarla ad altri. Ne prende una boccata, adesso, rapida ma ampia, e sente il petto espandersi un poco con un senso d’indolenzimento piacevole, di muscoli che tornano ad essere usati. Rhodey emette un piccolo sbuffo, per poi stuzzicarlo:

«Tipo? Torni a salvare i gattini sugli alberi?»

«Non scherzare,» lo redarguisce svogliato, scegliendo di prenderla come una semplice battuta, anche se un pizzico di speranza ce l’ha letto comunque. «Nah, ma ho fatto un reboot completo di FRIDAY e apportato qualche miglioria qua e là… così sarete più coperti quando voi andrete a salvare gattini sugli alberi.»

Rhodey alza gli occhi al cielo, ma continua ad ascoltarlo, con un brillio negli occhi che, realizza Tony, forse deriva proprio dal fatto di sentirlo parlare e parlare di ciò che ha sempre amato fare; e non rispondere a monosillabi o scansare ogni conversazione con delle molle da camino come fossero carboni ardenti.

«Anche il FEAST va a gonfie vele. E di conseguenza il RESCUE,» aggiunge, facendo fuori al contempo una manciata di patatine fritte. «E questo vuol dire che May e Natasha sono contente, e che io sono un uomo con due cause di morte probabile in meno di cui preoccuparmi.»

«Quella di farti rompere l’osso del collo sul ring rimane, però,» gli fa notare lui, con un cenno del mento a spronare una risposta in merito.

Tony si limita a scrollare le spalle, senza negare.

«Sono al sicuro: Nat non mi mette fuori gioco solo perché le ho promesso dei fondi, sono stato previdente,» butta lì, cercando di minimizzare la cosa con un filo di sarcasmo. «E perché se non mi sfiancasse a suon di allenamenti rischierei di ridiventare un po’ troppo me stesso, e nessuno vuole un Tony Stark al massimo potenziale a zonzo per il Complesso. Finirei per starmi tra i piedi da solo.»

Rhodey comprime appena le labbra, in risposta alla mestizia che ha lasciato trapelare dalle sue parole suo malgrado, ma ignora quell’affermazione e torna alla carica:

«Natasha ci sa fare,» concede infine, con una buffa smorfia indecifrabile. «E dev’essere davvero interessante, se riesce nel miracolo di inchiodarti alla scrivania per ore,» conclude, affrettando le parole.

«È terribilmente convincente, piuttosto. E 
“per ore” è un’esagerazione,» schiocca la lingua Tony, glissando sulla sua insinuazione.

«Beh, allora avete uno strano concetto di tempo, visto che sei sempre irreperibile.»

Tony morde tra le labbra il bordo della cannuccia, interrompendo di scatto l’afflusso di caffeina e zucchero al cervello, e scruta di sottecchi l’amico mentre questi torna a concentrarsi sulla sua porzione di patatine con intensità sospetta. È… un rimprovero, quello che ha appena colto?

«Aspetta… un attimo,» prende tempo, assottigliando gli occhi e notando come quelli dell'amico si siano fatti sfuggenti, mentre la realizzazione sorge improvvisa nel suo cervello. «Oh, buon Dio… tu sei geloso,» proferisce, senza poi trattenere una mezza risata incredula che si prolunga nel vederlo strabuzzare gli occhi in una malriuscita esternazione stupefatta.

«Io? Ma che diavolo dici?»

«Quello che ho detto,» ripete ovvio lui, trattenendo l’ilarità con un verso nasale e non molto elegante, il dorso della mano che corre a celare la bocca e le pieghe agli angoli delle labbra.

A quel punto Rhodey incrocia strettamente le braccia sul petto con fare sostenuto, squadrandolo storto in modo quasi caricaturale.

«Hai finito?» lo interroga, alzando le sopracciglia con un fare impassibile che risulta ancor più comico.

«Nah, ne ho per altri dieci minuti: rimani in attesa,» continua a sogghignare lui, facendosi liberamente beffe di quel risvolto imprevisto. «Rhodey, seriamente?» chiede però subito, scrollando la testa incredulo e puntellandola sul pugno, scrutandolo come se stesse assistendo a una telenovela particolarmente avvincente.

Lui alza i palmi, l’uomo innocente più colpevole dell’universo.

«Non ho detto questo,» esordisce, controllato, per poi avere un fremito e puntare le braccia sul tavolino, continuando con più fretta. «Però, sì, ho notato una… diversa ripartizione del tempo che dedichi a chi ti sta intorno, che non è chissà quanta gente. E io, per qualche motivo, o errore, ne esco decisamente sconfitto, quindi presumo…»

«Alt, frena, pausa, time-out,» lo blocca all’istante Tony, piantando le dita tese sul palmo e facendosi più serio. «Il tuo unico errore è stato non lasciare che un amico evidentemente di merda si autodistruggesse… vediamo… ventotto anni fa,» conclude, indicandolo solennemente con una patatina fritta che poi divora con gusto. «Se non mi avessi ripescato allora adesso saresti un uomo libero, Mr. Musone. Pensaci.»

«Non dire cazzate,» sbotta lui, scontroso come sempre e quasi offeso.

«Richiesta impossibile,» constata lui, cacciandosi in bocca l’ultimo pezzo di cheeseburger e prendendosi una pausa meditativa mentre mastica.

Rhodey sospira pesantemente a quelle parole, e sotto il suo velo imperturbabile riesce a cogliere della delusione, forse anche della mera tristezza al pensiero di venire allontanato, rimpiazzato così dal suo migliore amico. Un’erronea interpretazione dei fatti. Come se potrebbe mai accadere: non riesce nemmeno a immaginare la propria vita senza di lui, neanche nel più disastrato degli universi, ed è grato, infinitamente grato di averlo qui con sé quando tutto il resto è ormai scivolato via. È un confronto che non sussiste, quello di cui parla. Natasha è una folata d’aria fresca – a tratti un po’ corrosiva e decisamente infiammabile – che lo destabilizza e gli ricorda più spesso di respirare, a dispetto di quanto possa essere difficoltoso. Rhodey… Rhodey è terra, è suolo solido su cui piantare i piedi e rimanere in equilibrio. Porta con sé quel sentore di casa anche adesso che è così flebile, incastonato dentro di lui nel vuoto appena sotto al cuore.

«Lo sai, vero?» spara a bruciapelo, facendogli inarcare interrogativamente le sopracciglia.

«Lo so cosa?»

«Lo sai,» scrolla le spalle lui, cedendo a un sorriso sincero, più morbido, che gli distende la tensione nelle guance. «Lo sai dal 1985, secondo semestre, quando ho messo quella trappola elettrica nell’armadietto di Hammer per averti deriso in pubblico.» [4]

Rhodey schiude la bocca in un moto esterrefatto, e lo indica di colpo, boccheggiando; Tony sorride, furbetto e compiaciuto.

«Un momento, sei stato…»

«Voilà,» conferma, con uno svolazzo teatrale delle mani a mostrarsi con un mezzo inchino. «E ci arrivi solo adesso?»

«Tony! Hanno pensato tutti che fossi stato io per ripicca e mi hanno sospeso per due settimane!»

«Beh, poi mi sono fatto sospendere anch’io con quello scherzetto al professor Clarke… ti ricordi? Quando ho presentato la lezione di biotecnologie – no, che non mi ricordo, ero sospeso! – al posto suo… e poi abbiamo passato due meravigliose settimane insieme a fonderci il cervello con Stack-Up [5] e a costruirci un cabinato da salotto, quindi direi che è andata bene, no?» ride Tony, difendendosi nel frattempo dagli attacchi maneschi di Rhodey, che cerca di rifilargli uno scappellotto in ritardo di qualche decennio.

«Sei – un – deficiente,» conclude a spezzoni, riuscendo infine nell’intento e mettendo a segno un colpetto sull’orecchio.

Tony ride di nuovo, cedendogli quel punto sempre valido.

«Quindi lo sai?»

«Sì, lo so!» sbotta Rhodey, lasciandosi scappare un ampio e fugace sorriso misto a risata dietro la facciata di falsa indignazione. «E ora muoviti a offrirmi il pranzo, matricola!»

Tony non se lo fa ripetere, batte in ritirata verso la cassa portafogli alla mano e ordina un’altra porzione di cibo spazzatura per entrambi invece di saldare il conto, senza per questo ottenere alcuna protesta in merito. Sogghigna sotto i baffi, scansando lo sguardo truce e divertito di Rhodey: gli piace, quella normalità.

 
§
 
 
Il viaggio di ritorno è rapido, ma non abbastanza da impedire alla conversazione di nascere di sua sponte, incontrollata, anche dopo la parentesi di goliardia in cui si sono annidati per quel breve lasso di tempo. E questo perché, se Rhodey sa essere illeggibile nei suoi intenti precisi, è anche assolutamente incapace di fingere noncuranza o indifferenza, e sembra stamparsi ogni turbamento a caratteri cubitali sul suo volto impassibile.

In questo caso la spia d’allarme è la sua concentrazione quasi spasmodica per la strada perfettamente diritta, gli specchietti e il quadro comandi, neanche fosse nella cabina di un F22 in fase di tracciamento. E incapace però di allineare i mirini e far partire il colpo. Tony quasi impreca ad alta voce: e poi sarebbe lui, quello schivo e scostante.

«Ehi, Winnie,» lo richiama, quando sono a poco meno di cinque minuti dal Complesso, nel verde degli alberi che costeggiano l’Hudson. «La sessione del “chiedi a Tony Stark ciò che vuoi senza essere mandato a quel paese” sta per scadere, quindi ti conviene approfittarne ora.»

Lui non risponde, finge un’espressione perplessa che non ingannerebbe nemmeno un infante e si lascia infine sciogliere in un lungo sospiro – di nuovo quelle lezioni di yoga sottobanco, Tony ne è certo. Sta per fare una battuta idiota in proposito, lasciando cadere l’argomento, quando Rhodey ritrova il dono della parola:

«Tones, non prenderla per il verso sbagliato…»

Vezzeggiativo, più mani parate avanti, più tono conciliante: Tony si arrocca sulle proprie postazioni difensive in automatico.

«E dirmi così mi aiuterà sicuramente a non farlo, giusto?»

Rhodey sospira di nuovo.

«Natasha è il motivo per cui i Vendicatori esistono ancora, gliene do atto,» esordisce, prendendolo in contropiede, visto che il discorso gli pareva chiuso già tre cheeseburger fa. «Per lei ormai siamo diventati una sorta di… famiglia adottiva.»

Tony scuote appena la testa, non a negare quell’affermazione, ma a correggerla:

«Siamo la sua famiglia a tutti gli effetti, e lo eravamo anche prima. Ha perso tutti, Rhod. Più volte. Se ci fosse una competizione tra chi ha perso di più nella Decimazione, lei la vincerebbe a mani basse,» continua con macabro umorismo, stando attento a non lasciarsi sfuggire nulla di preciso, anche se nota il lampo di curiosità sul volto di Rhodey.

La testa gli si riempie di vuoti non suoi che però ha potuto sfiorare; la sola idea di sondarne le profondità gli provoca un senso di nausea e asfissia, e se ne tiene bene alla larga.

«Dove volevi arrivare? C’è la magagna, vero?» lo sprona poi, impaziente.

«Volevo arrivare al fatto che, nonostante tutto, è… incostante. Non devo spiegarti cosa intendo.»

«Mi stai dicendo di non fidarmi?» deduce pronto lui con una nota aggressiva, ma non trovando quei pensieri poi così ridicoli e fuori dal mondo.

«So come sei fatto, e so anche che non reagisci bene quando qualcuno non si comporta come vorresti o ti lascia indietro senza preavviso. Ti sto dicendo di non affezionarti

Tony sospira a mezza voce, intuendo un “Siberia” tra le righe anche senza sentirlo pronunciare: no, non reagisce affatto bene a tradimenti e voltafaccia. E Natasha non è esattamente un esempio primo di trasparenza. Scuote appena la testa, di nuovo senza intenderlo come un diniego, ma pensa in sordina al sostegno che ha trovato in lei, al suo calore impensato in mezzo al gelo, alla loro tacita promessa di reciproca fiducia. Ma quanto valore può avere, per qualcuno abituato a cambiare identità in un battito di ciglia, a cambiare se stessa pur di sopravvivere in un mondo a lei ostile? Un mondo che, in qualche modo, lui sta cercando di renderle meno ostile. Non è riuscito a salvarlo, questo mondo, e non avrà una seconda occasione per provarci di nuovo – quel pensiero gli brucia gli occhi col fumo di futuri bruciati – ma almeno questo può farlo. Sentirsi utile a qualcosa, a qualcuno.

Quelli di Rhodey sono timori dannatamente sensati… solo che l'amico è fuori dall’equazione e lui invece c’è dentro fino al collo assieme a lei: debiti, sensi di colpa, emozioni difettose e tutto il resto. Tutto il resto, soprattutto, che cammina su un confine sottile e fin troppo friabile oscillante tra la dipendenza, la fiducia e il puro masochismo. Si sta affezionando, e non dovrebbe.




 

Note:

[1] Chi è abbastanza attempato da aver seguito la serie tv Lost capirà perfettamente cosa intende Tony. Per tutti gli altri: vi siete risparmiati molti lambiccamenti mentali, in quanto il personaggio in questione parla per enigmi per quasi sei stagioni.
[2] Una piccola eco del passaggio dell'Iliade in cui Atena frena l'ira di Achille trattenendolo per i capelli.
[3] Miei headcanon, più una citazione rielaborata del commissario Gordon da Il cavaliere oscuro – Il ritorno.
[4] Tutti riferimenti ad altri miei headcanon rispetto all’adolescenza di Tony e Rhodey. Clarke è un omaggio all’omonimo professore di scienze di Stranger Things e Hammer ha canonicamente frequentato il MIT con Tony [come menzionato in Iron Man 2]
[5] Stack-Up è un vecchio gioco per NES del 1985.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori!
Finalmente, dopo mesi di stesura, sono riuscita a completare questo benedetto capitolo! Rhodey, per quanto io lo ami, riesce sempre a rendersi odioso ogni volta che mi trovo a doverlo muovere e gestire, lo possino.
Avviso: Non so esattamente quanti di voi seguano sia qui su EFP che su Wattpad, ma questo capitolo è un inedito, e da qui inizieranno a vedersi delle modifiche più o meno sostanziali per quanto riguarda la trama – o meglio, l'evoluzione del rapporto tra Tony e Natasha. Questo per dire che potreste trovare qualche sorpresa e variazione qua e là – compreso il rating, scalato da rosso ad arancione. Come ho detto più volte, quella su Wattpad, per quando dotata di un senso e una coerenza propri, è a tutti gli effetti una bozza ;)

Ringrazio immensamente shilyss, _Atlas_, Miryel e T612 per aver recensito gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste o che leggono soltanto <3
Alla prossima, spero in tempi umani,

-Light-
   
 
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